CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 giugno 2017, n. 15962
Licenziamento – Sanzioni disciplinari – Mobbing – Risarcimento dei danni fisici e psichici – Accertamento
Premesso
che con sentenza n. 6416/2013, depositata il 20 febbraio 2014, la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Frosinone, ha respinto le domande proposte da C.M. nei confronti di S. S.r.l. e dirette alla dichiarazione di illegittimità delle sanzioni disciplinari e del licenziamento allo stesso intimato, con lettera in data 23 maggio 2002, per giustificato motivo oggettivo e giusta causa, nonché al risarcimento dei danni (patrimoniali fisici, psichici, da mobbing, morali, biologici esistenziali) che il ricorrente assumeva di aver subito in conseguenza della condotta datoriale; rilevato che nei confronti di tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il M., denunciando: (1) con il primo motivo, violazione dell’art. 2, comma 2°, I. n. 604/1966 e dell’art. 1362 c.c., oltre a vizio di omessa/insufficiente motivazione, per avere il giudice di secondo grado erroneamente ritenuto possibile la coesistenza, nel licenziamento intimato, di giusta causa e di giustificato motivo oggettivo (per inidoneità del dipendente alle mansioni) e inoltre per avere erroneamente interpretato la volontà del datore di lavoro, considerando prevalente il richiamo, contenuto nella lettera di comunicazione del recesso, agli addebiti disciplinari e al venir meno della fiducia e peraltro omettendo di valutare la condotta successivamente tenuta dalla società, in particolare omettendo di attribuire rilevanza al pagamento dell’indennità di preavviso e all’intimazione di altro e successivo licenziamento per giustificato motivo oggettivo (soppressione del posto di lavoro); (2) con il secondo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. nonché vizio di omessa/insufficiente motivazione, per avere il giudice di merito escluso la responsabilità risarcitoria della società sulla base dell’esclusivo rilievo della legittimità delle sanzioni adottate e senza alcuna disamina né della condotta dalla medesima complessivamente tenuta, né delle risultanze della espletata consulenza tecnica d’ufficio;
– che la società ha resistito con controricorso;
– che il lavoratore ha depositato memoria illustrativa; osservato che entrambi i motivi non possono essere accolti;
– che, in particolare, il primo motivo è inammissibile: (a) laddove denuncia la violazione dell’art. 2, comma 2°, I. n. 604/1966, con riguardo alla dedotta coesistenza di giusta causa e giustificato motivo nel licenziamento intimato il 23/5/2002, trattandosi di censura non conferente rispetto alla decisione del giudice di appello, il quale, in esito ad un’analisi testuale della lettera di comunicazione, ha, in sostanza, concluso nel senso che il recesso era da qualificarsi unicamente come licenziamento per giusta causa determinato da ragioni disciplinari, esclusa ogni ulteriore e diversa causale; (b) laddove denuncia la violazione dell’art. 1362 c.c., non contenendo, nell’inosservanza dell’art. 366 c.p.c., la trascrizione dell’atto negoziale cui le richiamate regole ermeneutiche dovrebbero applicarsi; (c) laddove denuncia un vizio di “omessa/insufficiente motivazione”, in tal modo formulando una censura ex art. 360 n. 5 che non si conforma allo schema normativo del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella I. 7 agosto 2012, n. 134, pur a fronte di sentenza depositata il 20 febbraio 2014 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore (11 settembre 2012) della novella legislativa, e quale risultante altresì a seguito delle sentenze di questa Corte a Sezioni Unite n. 8053 e n. 8054 del 2014, le quali hanno precisato che l’art. 360 n. 5 c.p.c., così come riformulato, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”;
– che risulta altresì inammissibile il secondo motivo: (a) sia perché, risolvendosi in una critica di incompletezza e insufficienza della motivazione, anche il motivo in esame non si confronta con il nuovo modello legale dell’art. 360 n. 5, quale sopra delineato; né esso, a sostegno del riferimento alla violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., indica se, e in quali termini, siano stati posti alla valutazione del giudice di appello elementi che – come la presenza nella fattispecie concreta, con effetto unificante, di un illecito intento lesivo e persecutorio – avrebbero potuto o dovuto indurlo ad una differente lettura della norma, determinando il superamento del mero riscontro della legittimità delle singole sanzioni disciplinari succedutesi nel corso del rapporto e conseguentemente privando di fondamento logico-giuridico la conclusione, che la Corte territoriale ne ha tratto, sul rilievo della mancanza di un comportamento di mobbing, di infondatezza delle domande risarcitone; (b) sia perché, pur segnalandone la centralità ai fini dell’accertamento del danno e del suo nesso eziologico con le condotte datoriali, trascura di riprodurre la relazione della espletata consulenza tecnica d’ufficio o dei suoi passaggi aventi maggiore rilievo ai fini delle censure formulate;
ritenuto conclusivamente che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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