CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 dicembre 2017, n. 31037
Tributi – Accertamento – Società – Registro imprese – Cancellazione – Riscossione – Cartelle di pagamento
Fatti di causa
1. Equitalia Nomos S.p.A. notificava in data 24/8/2007 a R.B. ed E.S., quali soci della «Azienda Agricola B.R. e S.E.» – società semplice esercente attività agricola nel settore avicolo, cancellata dal registro delle imprese in data 28/1/2003 – n. 8 cartelle di pagamento emesse nei confronti della società semplice (e già a quest’ultima in precedenza notificate) ai sensi degli artt. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 54-bis d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione a debiti dalla stessa maturati nei confronti dell’erario, per Irpef (ritenute) e Iva in relazione agli anni di imposta 1993, 1995 – 2002.
Tali cartelle erano impugnate dai soci con due separati ricorsi, i quali, previa riunione, erano parzialmente accolti dalla C.T.P. di Verona.
2. L’appello interposto da Equitalia Nomos S.p.A. e dall’Agenzia delle entrate era accolto, con la sentenza in epigrafe, dalla Commissione tributaria regionale del Veneto, sezione staccata di Verona, che riteneva legittima la pretesa fiscale fatta valere nelle cartelle impugnate, salvo che per la cartella n. 122/2002/00359831/41/000, relativa al 1996.
Avverso tale sentenza R.B. ed E.S. propongono ricorso per cassazione, con undici mezzi, cui resistono l’Agenzia delle entrate ed Equitalia Nomos S.p.A., depositando controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso i contribuenti denunciano violazione dell’art. 7 legge 27 luglio 2000, n. 212, per avere la C.T.R. omesso di rilevare la carenza, nelle cartelle impugnate, dei requisiti motivazionali richiesti dalla citata norma.
Formulano il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte adita se violino l’art. 7 legge n. 212 del 2000 cartelle di pagamento, notificate dopo l’entrata in vigore della medesima legge, che non indichino il tipo di controllo effettuato sulle dichiarazioni dei redditi e sul modello Iva presentati dal contribuente, né la normativa applicata per determinare le somme di cui viene richiesto il pagamento e che rappresentino l’unico atto inviato al contribuente contenente la richiesta di pagamento delle somme di cui alle cartelle medesime, dovendosi invece ritenere indispensabile l’indicazione del tipo di controllo effettuato e delle norme applicate per determinare le somme richieste al fine di soddisfare l’obbligo di motivazione di cui alla legge n. 212 del 2000, per garantire al contribuente la possibilità di difendersi adeguatamente».
La censura è inammissibile perché aspecifica, non confrontandosi con il reale contenuto della sentenza impugnata.
I giudici d’appello hanno infatti respinto la doglianza relativa alla carenza di motivazione delle cartelle impugnate rilevando che «tali atti contengono tutti gli elementi idonei a identificare la ragione della pretesa del fisco, oltre a tutti gli elementi, previsti dalle norme in vigore al tempo dell’emanazione, per la regolarità delle cartelle stesse».
È questo un accertamento fattuale che non viene in sé fatto segno di specifica critica sul piano motivazionale e in relazione al quale non può certo ravvisarsi la violazione di legge prospettata in ricorso.
È evidente che con tale censura i ricorrenti intendono piuttosto contestare la ricostruzione del fatto così come posta a base della decisione, così proponendo però una critica estranea al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ. (error in iudicando) ma da far valere semmai, nei limiti e secondo i presupposti di cui al n. 5 della stessa disposizione, attraverso la prospettazione di un vizio di motivazione.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono violazione degli artt. 36-bis d.P.R. n. 600 del 1973 e 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972, per avere la C.T.R. ritenuto non dovuta la previa comunicazione delle irregolarità emerse a seguito del controllo automatico. Conclusione, questa, fondata sul triplice rilievo per cui: le cartelle impugnate recano gli identici importi contenuti nella cartella notificata alla società; al di là della decadenza che ne deriva, si trattava di imposte dichiarate ma non pagate per cui la comunicazione, che pure l’Ufficio afferma essere stata effettuata, non sarebbe stata comunque dovuta; in ogni caso la questione è superata anche dal fatto che, in base alla decisione della C.T.P., parte contribuente era stata riammessa alla possibilità di pagare le sanzioni in misura ridotta, possibilità che risulta, però, rimasta senza seguito.
A conclusione del motivo di ricorso, i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte adita se violi il disposto degli artt. 36-bis d.P.R. n. 600 del 1973 e 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972 il mancato invio delle comunicazioni di irregolarità ivi previste a soggetti cui viene richiesto, nella qualità di coobbligati solidali, il pagamento di imposte (nella fattispecie Irpef e Iva) dovute da una società semplice, cancellata dal registro imprese, di cui gli stessi sono stati soci, dovendosi invece ritenere tali comunicazioni necessarie ai sensi delle medesime norme».
Anche tale censura è inammissibile in quanto non si confronta con la motivazione sul punto adottata dalla sentenza impugnata (sopra succintamente riferita) ma anzi sembra puramente e semplicemente riproporre le allegazioni svolte a fondamento del ricorso introduttivo, sollecitandone direttamente un nuovo esame da parte di questa Corte, senza in alcun modo prendere in considerazione, in chiave critica, le motivazioni che hanno indotto i giudici di merito a ritenerle infondate.
La stessa è comunque anche infondata, conformandosi la decisione impugnata al costante insegnamento di questa Corte secondo cui, in materia di riscossione, ai sensi degli artt. 36-bis d.P.R. n. 600 del 1973 e 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972, l’invio al contribuente della comunicazione di irregolarità, ai fine di evitare la reiterazione di errori e di consentire la regolarizzazione degli aspetti formali, è dovuto solo ove dai controlli automatici emerga un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione ovvero un’imposta o una maggiore imposta e, comunque, la sua omissione determina una mera irregolarità e non preclude una volta ricevuta la notifica della cartella, di corrispondere quanto dovuto con riduzione della sanzione, mentre tale adempimento non è prescritto in caso di omessi o tardivi versamenti, non spettando, in tali circostanze, alcuna riduzione delle sanzioni amministrative (v. e plurimis Cass. 08/02/2017, n. 3342; Cass. 06/07/2016, n. 13759).
3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano insufficiente e contraddittoria motivazione in merito alla eccepita violazione degli artt. 36-bis d.P.R. n. 600 del 1973 e 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972.
Lamentano: la mancata illustrazione delle fonti del convincimento espresso secondo cui le cartelle riguardavano imposte dichiarate ma non pagate; il carattere apodittico e contraddittorio del rilievo secondo cui parte contribuente era stata riammessa alla possibilità di pagare le sanzioni in misura ridotta.
L’inammissibilità della censura, che anche in tal caso va rilevata, deriva dalla violazione dell’art. 366-bis cod. proc. civ., applicabile alla fattispecie ratione temporis per essere stata la sentenza impugnata depositata il 1/4/2009 e, quindi, prima del 4/7/2009, data dalla quale opera la successiva abrogazione della norma indicata, disposta dall’art. 47, comma 1, lett. d), legge 18 giugno 2009, n. 69 (cfr. Cass. Sez. U. n. 20360 del 2007; v. anche ex multis Cass. n. 24597 del 2014).
I ricorrenti hanno infatti omesso la formulazione del c.d. momento di sintesi richiesto per i motivi di cui all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., per il quale è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione del «combinato disposto» degli artt. 12 e 14 del d.P.R. n. 602 del 1973 «con la disciplina dell’efficacia della cancellazione dell’iscrizione al registro imprese delle società di persone di cui al titolo V del libro quinto del codice civile, sulla base degli effetti della novella dell’art. 2495 cod. civ.».
Assumono che, in conseguenza della cancellazione della società semplice dal registro delle imprese avvenuta in data 28/1/2003, devono considerarsi inesistenti o comunque nulli i ruoli successivamente formati a carico della stessa.
È formulato in conclusione il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte adita se violi il combinato disposto degli artt. 12 e 14 d.P.R. 602/73, con la disciplina dell’efficacia della cancellazione dell’iscrizione al registro delle imprese delle società di persone di cui al titolo V del libro quinto del codice civile, sulla base degli effetti della novella dell’art. 2495 cod. civ., ex d.lgs. n. 6 del 2003, la sentenza della Commissione tributaria regionale che ometta di dichiarare l’inesistenza e/o la nullità insanabile dei ruoli formati dall’Agenzia delle entrate nell’anno 2006 a carico di una società di persone cancellata nell’anno 2003 e la conseguente inesistenza/nullità insanabile delle cartelle emesse sulla base di tali ruoli, dovendosi invece ritenere che, con la cancellazione dal registro delle imprese, la società di persone cessi di esistere, con opponibilità anche nei confronti dei terzi, e quindi non possa neppure essere titolare di alcun rapporto giuridico, compresi i debiti tributari».
5. Con il quinto motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione del combinato disposto degli artt. 2267 e 1292 cod. civ., per avere la C.T.R. affermato la loro responsabilità solidale quali soci di società semplice anche in relazione ai ruoli formati successivamente alla cancellazione di quest’ultima, in mancanza del presupposto rappresentato dall’esistenza di un debitore principale, non più configurabile dopo l’estinzione della società.
6. Entrambi i motivi, quarto e quinto, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, sono infondati.
Occorre premettere che, ai sensi dell’art. 2495 cod. civ. (nel testo risultante dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la cui entrata in vigore come noto è fissata al 1 gennaio 2004), l’iscrizione della cancellazione di società di capitali nel registro delle imprese comporta l’estinzione della società, restando irrilevante l’eventuale esistenza di rapporti giuridici ancora pendenti.
Come noto, le Sezioni Unite hanno riconosciuto alla norma «effetto espansivo» anche alle società di persone, di modo che anche per esse si produce l’effetto estintivo conseguente alla cancellazione, sebbene per queste ultime la relativa pubblicità conservi natura dichiarativa. E ciò anche per le cancellazioni che abbiano avuto luogo anteriormente alla data di entrata in vigore della nuova formulazione della norma, con effetto però in tal caso da quest’ultima data: 1 gennaio 2004 (v. Cass. Sez. U. 22/02/2010, n. 4062).
Tale effetto deve, nel caso di specie, riconoscersi prodotto, a decorrere da tale ultima data, in conseguenza dell’intervenuta cancellazione dal registro delle imprese della società semplice di che trattasi, non ravvisandosi nel sistema ragione alcuna per sottrarvi siffatto tipo di società, tanto più che, svolgendo essa attività agricola, l’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese (prevista dall’art. 8, comma 4, legge 29 dicembre 1993, n. 580) assume anche in tal caso funzione di pubblicità legale (art. 2 d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228: «efficacia dichiarativa» ex art. 2193 cod. civ.).
Ciò premesso, non ha però fondamento la tesi per cui, successivamente al verificarsi di detta estinzione, non sia più possibile l’iscrizione a ruolo a nome della società medesima di tributi da essa non versati e che, per converso, ove tale iscrizione venga effettuata, la stessa debba considerarsi nulla.
A norma dell’art. 12, comma 3, d.P.R. n. 602 del 1973 la formazione del ruolo va infatti operata al nome del contribuente, indipendentemente dal fatto che lo stesso sia oppure no, al momento di tale iscrizione, ancora esistente.
La giurisprudenza di questa Corte ne ha tratto, con riferimento al contribuente persona fisica, il principio – costantemente affermato – secondo cui la formazione del ruolo va operata al nome del contribuente pur dopo il suo decesso e quindi può ben verificarsi che il ruolo sia intestato al defunto e che tenuti al pagamento siano i suoi eredi (v. Cass. 08/04/2016, n. 6856; Cass. 09/01/2014, n. 228; Cass. 19/10/1988, n. 5691, secondo cui, in tal caso, «la notifica della cartella esattoriale deve essere effettuata agli eredi personalmente e nel loro domicilio nel solo caso in cui essi abbiano tempestivamente provveduto alla comunicazione prescritta dall’art. 65, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, potendo altrimenti avvenire nei loro confronti, collettivamente ed impersonalmente nel domicilio del defunto, senza limiti di tempo»).
Non v’è motivo per non affermare altrettanto nell’ipotesi in cui il soggetto estinto sia una società, ancorché di persone, valendo anche per essa il medesimo rilievo per cui la norma (ossia l’art. 12, comma 3, cit.) non richiede l’attuale esistenza del contribuente al momento della formazione del ruolo a suo carico.
Del tutto correttamente, poi, il debito tributario validamente iscritto a ruolo nei confronti della contribuente (società estinta) è stato ritenuto azionabile nei confronti dei soci, sia perché coobbligati solidali, sia perché, comunque, successori ex lege della società medesima (v. Cass. Sez. U 12/03/2013, n. 6070 e n. 6072).
7. Con il sesto motivo i ricorrenti deducono violazione dell’art. 25 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, «in combinato disposto con la disciplina dell’efficacia della cancellazione dell’iscrizione nel registro delle imprese delle società di persone», per avere la C.T.R. ritenuto valide le notifiche delle cartelle impugnate effettuate nei confronti della società, a mani di uno dei due soci, ancorché in data successiva alla sua cancellazione dal registro, mentre invece avrebbe dovuto ritenere tali notifiche inesistenti o quantomeno insanabilmente nulle per inesistenza della società destinataria.
Anche tale censura è infondata.
Come s’è già sopra accennato, a norma dell’art. 65, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973, «la notifica degli atti intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui al secondo comma». E ciò senza limiti di tempo (v. giurisprudenza citata al par. 6).
Deve ritenersi che la stessa procedura vada seguita per la notifica di cartella esattoriale intestata a società estinta.
Pur rifuggendo da «improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica» (così, in motivazione, Cass. Sez. U n. 6070 del 2013, cit.), l’applicazione della medesima disciplina anche al caso che occupa (di notifica di cartella intestata a società estinta) discende dalla considerazione che essa, alla stregua di una interpretazione finalistica della norma, trova giustificazione non già nel fenomeno successorio che consegue propriamente alla morte di una persona fisica, quanto piuttosto nel fenomeno successorio in quanto tale e specificamente in quello che si realizza con riferimento alle situazioni debitorie gravanti sul dante causa.
Non sembra dubitabile, in altre parole, che il fenomeno successorio, sia pure sui generis, che si realizza a seguito dell’estinzione dell’ente collettivo integri lo stesso presupposto considerato dalla norma, identificato nel suo nucleo essenziale, al di là dei limiti semantici legati all’uso del termine «eredi».
Nel caso di specie – come espressamente accertato in sentenza (penultima pagina) – la prima notifica delle cartelle di che trattasi risulta effettuata a mani di uno dei due soci.
Al di là dell’assenza di altre specificazioni circa il luogo della notifica e il contenuto formale della relata, tale esito rispetta nella sostanza l’esposta disciplina e comunque ne raggiunge pienamente lo scopo, che è quello di rendere edotto almeno uno dei successori della pretesa validamente azionata nei confronti della società.
8. Con il settimo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 5-bis d.l. 17 giugno 2005, n. 106, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 156, in combinato disposto con l’art. 2966 cod. civ., per avere la C.T.R. ritenuto che: a) i termini decadenziali fissati da tale norma per la notifica delle cartelle sono stati nel caso di specie rispettati avuto riguardo alle cartelle notificate direttamente alla società, valendo poi tali notifiche anche a impedire la decadenza nei confronti dei soci solidalmente responsabili per le obbligazioni sociali; b) le cartelle notificate alla società sono divenute definitive per mancanza di impugnazione da parte della società stessa; c) l’eventuale decadenza, anche in presenza di impugnazione, avrebbe in ogni caso potuto rilevare solo per le cartelle relative al 1993 e al 1995.
Rilevano al riguardo che le cartelle notificate nel 2006 (ossia, la n. 1222006003429934 e la n. 12220060030044615) sono relative a ruoli formati dopo la cancellazione e la conseguente estinzione della società con la conseguente nullità sia dei ruoli, sia delle cartelle, sia delle notifiche.
Formulano in conclusione il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte adita se violi l’art. 5-bis d.l. cit. …, in combinato disposto con l’art. 2966 cod. civ., la sentenza della Commissione tributaria regionale che abbia ritenuto valide ai fini di impedire la decadenza prevista della medesima norma la notificazione, avvenuta nell’anno 2006, a società precedentemente cancellata e conseguentemente estinta, di cartelle di pagamento emesse sulla base di ruoli formati anch’essi dopo la cancellazione ed estinzione della società stessa, dovendosi invece ritenere tali notifiche inesistenti e quindi inidonee a impedire la decadenza».
La censura è infondata.
Ribadito che essa fa limitato riferimento alle cartelle notificate (e relative a ruoli formati) successivamente alla estinzione della società [e dunque, secondo quanto dedotto dai ricorrenti, con riferimento alle cartelle elencate in ricorso al par. I lett. c) e d)\ cartelle n. 122200600300446 15, n. 12220060034299 34], deve osservarsi che discende dalle considerazioni sopra svolte, circa la piena validità dei ruoli formati e delle cartelle notificate successivamente alla sua estinzione, che a tale notifica deve anche assegnarsi la piena idoneità a impedire l’eccepita decadenza, non essendo peraltro dubitabile – né per vero nemmeno posta in dubbio dagli stessi ricorrenti – la piena tempestività di tali notifiche, avuto riguardo alle date indicate nello stesso ricorso.
9. Con l’ottavo motivo i ricorrenti deducono ancora violazione dell’art. 5-bis d.l. n. 106 del 2005, in combinato disposto con l’art. 2966 cod. civ., per avere la Commissione regionale ritenuto rispettati i termini decadenziali ivi previsti anche con riferimento alle cartelle notificate nell’anno 2003, benché anche per esse la notifica sia avvenuta in data successiva alla cancellazione della società.
La censura, assorbita dalle considerazioni che precedono, è comunque infondata anche nella premessa da cui implicitamente muove, quella cioè che nel 2003 la società doveva considerarsi già estinta.
In tale anno, infatti, per quanto sopra detto circa gli effetti della novella dell’art. 2495 cod. civ., la società, benché già cancellata dal registro delle imprese, doveva considerarsi ancora esistente.
Pienamente rispettato per esse deve dunque considerarsi anche il termine decadenziale fissato dall’art. 25 d.P.R. n. 602 del 1973.
10. Con il nono motivo i ricorrenti denunciano, in subordine, violazione dell’art. 2966 cod. civ., per avere la C.T.R. ritenuto rispettati i termini decadenziali per la notifica delle cartelle esattoriali anche nei confronti dei soci: formulano al riguardo il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte adita se violi l’art. 2966 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 2964 cod. civ., la sentenza della Commissione tributaria che dichiari impedita la decadenza del concessionario dal diritto di notificare cartelle di pagamento ai soci di società semplice solidalmente responsabili per le obbligazioni sociali, per procedere nei loro confronti, ritenendo idonea ad impedire tale decadenza la precedente notificazione delle cartelle alla società stessa, dovendosi invece ritenere che, al fine di impedire la decadenza di cui all’art. 5-bis d.l. cit., le cartelle debbano essere notificate nei termini di cui alla medesima norma anche ai soci».
11. Con il decimo motivo si deduce poi violazione dell’art. 19, comma 3, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’affermazione contenuta in sentenza secondo la quale le cartelle notificate alla società sono divenute definitive per mancata impugnazione.
Sostengono che, trattandosi del primo atto notificato direttamente ai soci, in funzione non solo esecutiva ma anche di atto impositivo, ai soci deve ritenersi consentito il ricorso ai sensi della citata norma con impugnazione congiunta degli atti presupposti, anche al fine di far valere le eventuali eccezioni di merito circa la sussistenza del credito. È formulato il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte adita se violi il disposto dell’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992 la sentenza della Commissione tributaria regionale che dichiari che i soci di società semplice solidalmente responsabili per le obbligazioni di cui a cartelle di pagamento non impugnate dalla società, successivamente notificate ai soci per procedere nei loro confronti, non possano lamentare il decorso del termine per la notifica delle cartelle nei loro confronti, dovendosi invece ritenere che trattandosi del primo atto notificato direttamente ai soci, le cartelle medesime nei confronti degli stessi assumano anche la funzione di atto impositivo, con la conseguenza che contro di esse il socio può ricorrere ai sensi dell’art. 19, comma 3, ultimo periodo, d.lgs. n. 546 del 1992, impugnando congiuntamente gli atti presupposti e facendo valere anche le eventuali eccezioni nel merito circa la sussistenza del credito».
Anche tali censure sono infondate.
Occorre invero considerare che, analogamente a quanto affermato da pacifica giurisprudenza con riferimento ai soci di s.n.c., la responsabilità solidale illimitata dei soci prevista dall’art. 2267 cod. civ. per i debiti della società semplice, sussiste anche con riguardo alle obbligazioni derivanti da rapporti tributari, in assenza di un’espressa deroga. Ne consegue che il socio è sottoposto all’esazione del debito a seguito dell’iscrizione a ruolo nei confronti della società e dell’inutile escussione del patrimonio di questa, senza che sia necessario notificargli l’avviso di accertamento non impugnato o la cartella di pagamento non adempiuta, essendo sufficiente la notificazione del solo avviso di mora, che ha la funzione, oltre che di precetto, di atto impositivo e può essere impugnato congiuntamente agli atti presupposti ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (v. Cass. 01/10/2017, n. 20704). Ne discende ulteriormente che la notifica alla società di persone della cartella di pagamento concernente il debito sociale, che è debito anche dei soci, interrompe, ai sensi dell’art. 1310 cod. civ., la prescrizione nei confronti di questi ultimi (Cass. 09/08/2016, n. 16712).
La notifica del successivo atto nei confronti dei soci, non avendo lo scopo di comunicare l’iscrizione a ruolo del debito, in quanto già ottenuto dalla prima notifica delle cartelle, non soggiace ai termini decadenziali al riguardo previsti, ma solo a quelli di prescrizione, nel caso in esame certamente non maturati.
12. Con l’undicesimo motivo i ricorrenti deducono infine violazione dell’art. 5, comma 3-bis d.l. 1 ottobre 2005, n. 202, convertito dalla legge 30 novembre 2005, n. 244, come sostituito dall’art. 1 – bis, comma 7, d.l. 10 gennaio 2006, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 11 marzo 2006, n. 81, per avere la C.T.R. negato applicazione alla fattispecie della norma agevolativa ivi contenuta.
Formulano il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte adita se violi (la norma succitata) … la sentenza della Commissione tributaria regionale che dichiari inapplicabile la normativa in questione in favore dei soci di società semplice cancellata nel 2003 dal registro delle imprese, già esercente l’allevamento avicolo, cui viene chiesto il pagamento quali debitori solidali di cartelle relative a tributi dovuti dalla società e riferiti a periodi di imposta precedenti all’entrata in vigore della legge, dovendosi invece ritenere che l’art. 5, comma 3 – bis, d.l. n. 202 del 2005 … disponga la sospensione dei termini di pagamento dal 1 gennaio al 31 ottobre 2006, quanto meno in relazione alla maturazione degli interessi sulle somme di cui è richiesto il pagamento nelle cartelle».
Il motivo è infondato.
La norma evocata così dispone: «a decorrere dal 1° gennaio 2006, e fino al 31 ottobre 2006, a favore degli allevatori avicoli, delle imprese di macellazione e trasformazione di carne avicola nonché mangimistiche operanti nella filiera e degli esercenti attività di commercio all’ingrosso di carni avicole sono sospesi i termini relativi agli adempimenti e ai versamenti tributari, nonché il pagamento di ogni contributo o premio di previdenza e assistenza sociale, ivi compresa la quota a carico dei dipendenti, senza aggravio di sanzioni, interessi o altri oneri. Non si fa luogo al rimborso di quanto già versato. Sono altresì sospesi per il predetto periodo i pagamenti delle rate delle operazioni creditizie e di finanziamento, ivi comprese quelle poste in essere dall’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (ISMEA)»
La norma è evidentemente finalizzata ad agevolare le imprese avicole in attività al momento dell’insorgenza dell’influenza aviaria e fa espresso riferimento ai termini relativi agli adempimenti e ai versamenti tributari correnti correlati alla continuazione dell’attività, con implicita ma chiara esclusione dei termini già a quella data scaduti. Nessun indicatore testuale né ragione logica ne consente una applicazione anche in favore di imprese, quale quella collettivamente esercitata dagli odierni ricorrenti, già da tempo cessata e addirittura estinta. Tanto è univocamente ricavabile anche dall’ultimo periodo che estende la sospensione solo ai pagamenti delle rate delle operazioni creditizie e di finanziamento, non anche al decorso degli interessi sui debiti già maturati.
13. Per le considerazioni che precedono, il ricorso deve essere in definitiva rigettato.
Avuto riguardo alla complessità delle questioni trattate, si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.
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