CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 dicembre 2017, n. 31123
Tributi – Imposte sui redditi – Reddito d’impresa – Attività bancaria – Crediti cartolarizzati – Contratto di servicing – Oneri di recupero crediti sostenuti dalla cedente – Indeducibilità
Fatti di causa
1. La Banca di credito cooperativo irpina società coop. a r.l. ricorre, con due mezzi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso) avverso la sentenza in epigrafe, con la quale la Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, ha accolto solo parzialmente (in relazione a riprese fiscali non più in rilievo nella presente sede) l’appello della contribuente, ritenendo legittima la ripresa, a fini Ires e Irap per l’anno 2005, di oneri per euro 51.021,01, sostenuti per il recupero di crediti cartolarizzati.
Si trattava di crediti in sofferenza che la banca aveva ceduto pro soluto alla società BCC Securis, contestualmente obbligandosi a provvedere, in nome e per conto della cessionaria, munita di apposita procura, al loro recupero, con il compimento di tutte le operazioni necessarie, anche giudiziarie, dietro un compenso forfettario per spese e gli oneri sostenuti, sugli incassi realizzati.
Ritenevano i giudici d’appello fondata la tesi dell’Ufficio secondo cui, ai sensi della convenzione stipulata tra la Banca ricorrente e la BCC Securis, tutte le spese per il recupero dei crediti, anche quelle eccedenti il limite forfettario, dovevano intendersi a totale carico della predetta cessionaria, qualunque ne fosse il risultato. Osservavano che, in tale contesto, la Banca cedente agiva quale mandataria in nome e per conto della cessionaria e che ad essa spettavano, pertanto, ai sensi dell’art. 1720 cod. civ., il rimborso delle spese anticipate, con gli interessi legali, e se convenuto, anche un compenso forfettario.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la società contribuente deduce «insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., con riferimento al trattamento degli oneri derivanti dal recupero dei crediti cartolarizzati e/o violazione dell’art. 36 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ.».
Lamenta che la sentenza impugnata non illustra i motivi per i quali gli esborsi sostenuti da essa contribuente, ai fini del recupero dei crediti cartolarizzati, dovrebbero essere considerati anticipazioni, con conseguente violazione anche dell’art. 36, comma 2, num. 4), d.lgs. n. 546 del 1992, che impone al giudice di illustrare i motivi della decisione.
La censura è inammissibile prospettando essa vizi tipologicamente distinti e incompatibili (violazione dell’art. 36, comma 2, num. 4, d.lgs. n. 546 del 1992, configurabile in caso di motivazione totalmente mancante o apparente, e vizio di omessa motivazione) in relazione alla medesima doglianza (v. Cass. 14/09/2016, n. 18021; Cass. 23/09/2011, n. 19443).
Occorre al riguardo rammentare, infatti, che la violazione della norma processuale citata (integrante error in procedendo denunciabile ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ.) si configura soltanto nell’ipotesi in cui sia mancata del tutto da parte del giudice – ovvero sia meramente apparente – ogni statuizione sulla domanda o eccezione proposta in giudizio, mentre rientra nell’ambito dell’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ. la censura con la quale si deduca la mancata (o insufficiente o contraddittoria) valutazione di alcuni dei fatti (controversi e decisivi) posti a fondamento della domanda o della eccezione medesima.
Può comunque soggiungersi che la doglianza è infondata sotto entrambi i profili.
Non può infatti dubitarsi che una motivazione esista e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quale sia la ragione della decisione adottata (configurazione dei costi quali mere anticipazioni rimborsabili dal mandante ex art. 1720 cod. civ.).
Quanto poi al dedotto vizio di motivazione, omette la ricorrente di illustrare i fatti che, oggetto di discussione tra le parti e idonei a condurre in modo univoco a una diversa qualificazione, non sarebbero stati considerati dalla C.T.R..
2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta poi, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., che i giudici del gravame hanno interpretato le clausole del contratto di servicing in violazione delle norme di ermeneutica contrattuale, nonché dell’art. 75, comma 5, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nel testo vigente ratione temporis.
Sostiene che, in base alle clausole contenute nell’art. 15 del contratto, si delinea un regolamento negoziale in virtù del quale, in deroga alle previsioni di cui all’art. 1720 cod. civ., le spese e gli oneri effettivamente sostenuti da essa contribuente nell’esercizio dell’attività di servicing, che non trovano copertura nel rimborso forfettario previsto dal primo e dal terzo paragrafo dalla detta disposizione contrattuale (0,1% degli incassi realizzati nell’arco temporale di riferimento, subordinatamente all’esistenza di fondi disponibili nel rispetto dell’ordine di priorità dei pagamenti fissati da apposito regolamento, oltre eventuale integrazione a forfait, condizionata all’esistenza di fondi disponibili e all’avvenuto rimborso in linea capitale dei titoli di classe A emessi dalla cessionaria fronte dell’acquisto dei crediti) sono destinate a rimanere a carico della banca cedente, non potendosi configurare per esse un diritto pieno e incondizionato all’integrale rifusione, ma piuttosto una mera aspettativa. Rileva che ciò si spiega in relazione al particolare oggetto dell’operazione di cartolarizzazione posta in essere, rappresentato da crediti in sofferenza, tale per cui la rifusione delle spese relative all’attività gestoria, per una maggiore tutela della società veicolo, si connota di un fortissimo elemento di aleatorietà, tanto da perdere, sul piano sostanziale, la qualifica di rimborso spese e assumere le vesti di una ulteriore forma di remunerazione subordinata al buon esito dell’attività di recupero del credito.
Rimarca che l’impostazione contabile conseguente alla ricostruzione accolta dal giudice a quo comporterebbe l’iscrizione nell’attivo del bilancio della Banca di una posta creditoria nei confronti della cessionaria, a fronte delle spese sostenute per l’attività di servicing, il che configurerebbe una violazione del principio sancito dall’art. 2423, secondo comma, cod. civ., in forza del quale il bilancio deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio. Soggiunge che, se la volontà delle parti fosse stata quella di applicare la disciplina codicistica del mandato, sarebbe stato sufficiente richiamare la norma dell’art. 1720 cod. civ., con l’aggiunta di un semplice richiamo all’ordine di priorità dei pagamenti sancito dall’accordo tra i creditori, senza alcuna necessità di introdurre regole ad hoc per stabilire precipui limiti e condizioni al riconoscimento del diritto ad ottenere il reintegro delle spese e degli oneri sostenuti.
La censura è infondata.
È noto che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione.
Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato.
La denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza.
In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. 03/09/2010, n. 19044; Cass. 12/07/2007, n. 15604; Cass. 07/03/2007, n. 5273; Cass. 22/02/2007, n. 4178).
In tale prospettiva non colgono nel segno le censure di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale (e segnatamente di quelli della interpretazione logica e sistematica del contratto), in quanto inidonee a palesare evidenti errori nel ragionamento giuridico posto a base dell’attività qualificatoria svolta dal giudice di merito, né tanto meno la sua insostenibilità.
Al riguardo occorre invero rilevare che i dati testuali rappresentati, nel complesso considerati, non appaiono tali da poter contrastare in modo univoco e insuperabile la qualificazione operata dal giudice del merito e, segnatamente, l’operato accostamento del rapporto di servicing al mandato con rappresentanza.
In particolare, l’assunto – centrale nel ragionamento della ricorrente – secondo cui le clausole contrattuali conferirebbero carattere di aleatorietà al rimborso della parte di oneri non coperti dalla percentuale forfettaria, affievolendone la relativa pretesa a situazione di mera aspettativa, non trova oggettivo riscontro nel tenore delle stesse, prevedendosi in esse la mera posposizione dei crediti medesimi ad altri pattiziamente riconosciuti come poziori, con incidenza pertanto non già sull’an del credito quanto piuttosto sulla sua garanzia patrimoniale, solo indirettamente limitata per effetto della preferenza convenzionalmente riconosciuta ad altri crediti. Quanto meno non può certo affermarsi che quella accolta dal giudice di merito sia interpretazione univocamente contraddetta dai dati testuali considerati.
3. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della Banca ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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