CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 dicembre 2017, n. 31129
Imposte dirette – IRPEG – Obblighi fiscali – Dichiarazione rettificativa – Istanza di rimborso
Svolgimento del processo
La I. s.p.a. (già C. I. s.p.a.) con due motivi ha proposto ricorso per cassazione della sentenza n. 4806/2012, depositata il 13.11.2012 dalla Commissione Tributaria Centrale, Sezione di Milano.
Ha rappresentato che nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno d’imposta 1982 indicava ai fini Irpeg un reddito pari a vecchie £ 10.883.848.000, con imposta di £ 1.634.696.000, interamente versata. Nel reddito complessivo erano compresi anche quelli prodotti in Algeria, per i quali gli obblighi fiscali erano stati assolti in loco nella forma della taxe forfaitaire. Secondo le modalità all’epoca vigenti la contribuente aveva provveduto a dedurre dal reddito complessivo le imposte versate nello Stato algerino, ma nel mese di aprile del 1983, con la Risoluzione ministeriale n. 9/2540, l’Amministrazione Finanziaria aveva mutato orientamento, precisando che ai fini della tutela dalla doppia imposizione le imposte versate nello stato algerino non andavano dedotte dal reddito come costi, ma detratte dall’imposta complessiva dovuta in Italia, scomputandole quale credito d’imposta. In data 14.12.1984 la società provvedeva pertanto a presentare una dichiarazione in rettifica, recuperando a tassazione il costo corrispondente alle tasse versate in Algeria, e ad un tempo scomputando dall’Irpeg relativa all’anno 1982 il credito d’imposta corrispondente alla stessa taxe forfaitaire. Da questa operazione rettificativa emergeva un credito pari a £ 1.221.911.000, corrispondente alla differenza tra quanto già versato all’erario italiano (£ 1.634.696.000) e quanto effettivamente dovuto se fosse stato dichiarato per tempo il credito d’imposta (£ 412.785.000). In data 17.12.1984 chiedeva infine all’Intendenza di finanza meneghina il rimborso del credito, ex art. 38 del d.P.R. n. 602/1973.
Avverso il silenzio rifiuto della Amministrazione finanziaria, maturatosi dopo novanta giorni dalla presentazione della istanza di rimborso, la società adiva la Commissione Tributaria Provinciale di Milano, che con sentenza n. 3442 del 1987 accoglieva il ricorso. L’Amministrazione soccombente impugnava la decisione dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che accoglieva l’appello con sentenza n. 6993-5/01/89. Quest’ultima sentenza trovava conferma dinanzi alla Commissione Tributaria Centrale, con la pronuncia ora impugnata.
La contribuente censura la sentenza, con il primo motivo per violazione e falsa applicazione degli artt. 9 del d.P.R. n. 598/1973 e 18 del d.P.R. n. 597/1973, ratione temporis vigenti, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver erroneamente interpretato la disciplina sul diritto della contribuente alla detrazione delle imposte versate all’estero;
con il secondo motivo per violazione e falsa applicazione degli artt. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 e 16, co. 6, del d.P.R. n. 636 del 1972, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c., per aver erroneamente ritenuto inammissibile la successiva istanza di rimborso.
Si è costituita l’Agenzia, che insistendo nella sua prospettazione e ricostruzione della disciplina, ha chiesto il rigetto del ricorso.
All’udienza pubblica del 7 dicembre 2017, dopo la discussione, il P.G. e le parti concludevano. La causa era trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
I motivi di ricorso possono essere unitariamente trattati perché afferiscono alla medesima questione, ossia se, a fronte di un credito d’imposta derivante dall’adempimento di obblighi fiscali all’estero, la disciplina dettata dalle norme all’epoca vigenti, gli artt. 18 del d.P.R. n. 597 del 1973 (disciplinante l’imposta sui redditi delle persone fisiche) e 9 del d.P.R. n. 598 del 1973 (disciplinante l’imposta sui redditi delle persone giuridiche) prevedesse termini perentori per far valere i suddetti crediti, e per l’effetto la decadenza dal diritto quando intempestiva la richiesta -come sostenuto dalla Amministrazione e condiviso dal giudice tributario di merito-, oppure se il rispetto di quelle modalità fosse solo finalizzato ad ottenere la detrazione automatica delle imposte pagate all’estero, lasciando comunque impregiudicato il diritto al rimborso del credito d’imposta maturato anche quando, nella ricorrenza di determinati presupposti, fosse mancata la tempestiva richiesta di scomputo nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta in cui i tributi esteri erano stati definitivamente versati – come sostenuto dalla contribuente-.
Il Collegio ritiene più corretta la seconda opzione interpretativa, con conseguente fondatezza del ricorso.
La sentenza impugnata ha evidenziato il dato letterale dell’art. 18 del d.P.R. 597 cit. e 9 del d.P.R. n. 598 cit., secondo cui “la detrazione deve essere chiesta a pena di decadenza nella dichiarazione relativa all’anno in cui le imposte estere sono state pagate in via definitiva”. Da tale dato ha ritenuto inequivocabile che la contribuente avrebbe dovuto inserire l’importo a titolo di detrazione d’imposta nel modello di dichiarazione 1983, relativo ai redditi del 1982 ed anno di pagamento delle imposte estere; ha ritenuto che l’omesso inserimento abbia reso inammissibile per la società la successiva richiesta di rimborso.
Ciò che viene valorizzato, secondo questa opzione interpretativa, condivisa dalla sentenza e dalla Amministrazione, ma che trova alcuni riscontri anche nella giurisprudenza di legittimità meno recente (Cass., Sez. 5, Sent. n. 18371/2005, riferita all’art. 15 del d.P.R. n. 917 del 1986, equivalente all’art. 18 del d.P.R. 597/73 cit.) è che la decadenza sia collegata al dato formale della omessa richiesta di detrazione nella dichiarazione dei redditi, restando con ciò inefficace, ai fini dello scomputo del credito d’imposta, ogni successiva rettifica dei contenuti della dichiarazione da parte del contribuente.
Sennonché è il punto di partenza di tale assunto, l’irrilevanza di rettifiche della dichiarazione, a non tener conto innanzitutto che da tempo costituisce dato dogmatico ampiamente riconosciuto quello secondo cui la dichiarazione dei redditi non è un atto negoziale o dispositivo, ma una dichiarazione di scienza (Cass., Sez. U., sent. n. 15063 del 2002); che pertanto, nel caso di errore, di fatto o di diritto, commesso dal contribuente, la dichiarazione è emendabile e ritrattabile quando possa altrimenti derivarne l’assoggettamento ad oneri contributivi più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a carico del dichiarante (ad es. cfr. Cass., Sez. 5, Sent. n. 21968 del 2015; Cass., Sez. 5, Sent. n. 2277 del 2011).
Nell’interpretazione del sistema disciplinante il rapporto giuridico tra contribuente e fisco -ossia il rapporto tra gli obblighi fiscali e le garanzie del cittadino da un lato, il potere dello Stato di acquisizione della ricchezza iure imperii mediante il prelievo fiscale per perseguire le finalità pubbliche dall’altro- il diritto del contribuente ad emendare la dichiarazione per evitare l’assoggettamento ad oneri che non gli spettano va ricondotto, prima ancora che alla natura della dichiarazione dei redditi, ai principi costituzionali della capacità contributiva, ex art. 53 Cost., nonché alla oggettiva correttezza dell’azione amministrativa, ex art. 97, co. 1, Cost. (Cass., Sez. U., sent. n. 15063 cit.).
Ebbene, in una ricostruzione dei rapporti tra contribuente e fisco che abbia ben presenti questi ineludibili principi, una interpretazione degli artt. 9 e 18 cit. che imponga, a pena di decadenza, l’obbligo di indicare il credito nella dichiarazione relativa all’anno in cui le imposte estere sono state pagate in via definitiva, è errata ed estranea ai parametri costituzionali. Vero è invece che l’erroneo assoggettamento di redditi ad imposta, che si rivela poi non dovuta, lascia impregiudicato il diritto del contribuente a chiederne la restituzione ex art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973.
Questo non svuota irragionevolmente di significato il dato normativo, che a quella decadenza fa riferimento. Come è infatti già stato evidenziato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, la previsione temporale di cui all’art. 18 cit. si relaziona alla facoltà del contribuente di utilizzare il credito d’imposta in dichiarazione mediante compensazione. È dunque dal meccanismo della compensazione che il contribuente decadeva se non rispettata la prescrizione dell’art. 18 ratione temporis vigente. Restava invece impregiudicato il diritto di esigere il credito con istanza di rimborso. Peraltro anche a tal fine non è indifferente la tempestiva presentazione della dichiarazione (Cass., Sez. 5, sent. n. 21646 del 2004), e la sua emenda anche successiva, ove per errore o omissione sia mancata l’indicazione del credito d’imposta derivante dalle imposte estere. Resta così salvo l’impianto formale riconducibile ai doveri dichiarativi del contribuente, ma ad un tempo, nella interazione con l’art. 38 cit., resta salvo il diritto del contribuente a non pagare più di quanto dovuto.
In conclusione la I. (all’epoca C.), che nel 1983 aveva presentato tempestivamente la propria dichiarazione dei redditi 1982, senza inserire quanto già versato allo Stato Algerino a titolo d’imposte per le attività economiche ivi esercitate, e che successivamente ha rettificato la dichiarazione al fine di far emergere le maggiori imposte versate, aveva diritto a chiederne il rimborso ex art. 38 del d.P.R. n. 602 de! 1973, ed illegittimo è stato il rifiuto opposto dalla Amministrazione finanziaria.
La sentenza della Commissione Tributaria Centrale va pertanto cassata e, decidendo nel merito, va accolto il ricorso introduttivo della contribuente.
La complessità della vicenda, tenendo anche conto delle possibili incertezze interpretative dell’epoca dei fatti, giustificano la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della contribuente. Compensa le spese del procedimento.
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