CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 gennaio 2018, n. 2292
Rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno – Differenze retributive, compensi per lavoro straordinario e differenze sul TFR – Prova per presunzioni – Conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità, ma non in termini di assoluta ed esclusiva necessità causale – Apprezzamento sulla opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici – Valutazione del giudice del merito – Esula dal sindacato di legittimità
Rilevato
che, con la sentenza non definitiva n. 1229/2008, il Giudice del lavoro del Tribunale di Termini Imerese ha riconosciuto che tra la società Autocarrozzeria di F.S. e C. e G.P., dal 5.5.97 al 22.11.2000, era intercorso un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e, con sentenza definitiva n. 499/2009, ha condannato la società a corrispondere al lavoratore, a titolo di differenze retributive, lavoro straordinario e differenze di TFR, l’importo di euro 49.931,58 nonché a versare all’INPS, per differenze retributive, la somma d euro 11.308,71;
che, con la pronuncia n. 784/2012, la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma di dette sentenze, ha ridotto in euro 7.673,50 l’importo dovuto all’originario ricorrente e in euro 8.518,25 quello spettante all’INPS, confermandole nel resto e condannando la società a rifondere alle altre parti un quarto delle spese processuali del grado di appello previa compensazione degli altri tre quarti; che avverso tale decisione G.P. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi;
che la C.V. di F.S. e C. snc ha resistito con controricorso;
che l’INPS si è limitato a depositare unicamente la procura alle liti senza svolgere attività difensiva; che il P.G. non ha formulato richieste.
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, si censura: 1) la violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 e n 5 epe, per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e vizio di motivazione circa un fatto controverso, in relazione agli artt. 116 cpc, 2697 e 2129 cc: si deduce che la Corte territoriale, nel riformare il ragionamento seguito dal primo giudice sulla scorta di plurimi elementi indiziari emersi nel corso dell’istruttoria processuale, aveva vanificato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, in materia di prova per presunzioni, era sufficiente che il fatto da provare fosse desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità e non in termini di assoluta ed esclusiva necessità causale; 2) la violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 e n. 5 cpc per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e insufficiente ed illogica motivazione circa un fatto controverso in relazione agli artt. 115, 116 cpc, 2094, 2697 e 2729 cc, per avere erroneamente ritenuto la Corte territoriale non provata, nonostante le risultanze istruttorie acquisite, la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della natura subordinata al rapporto di lavoro anche nel periodo 22.11.2000 – ottobre 2005, dopo la formale risoluzione del contratto di lavoro fittiziamente part-time, nonostante vi fosse stata continuità nel lavorare, come dipendente subordinato, alle dipendenze della società del F.; 3) la violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 cpc, in relazione agli artt. 99 e 112 cpc, per avere la Corte territoriale condannato, incorrendo nel vizio di ultrapetizione, il Palermo alla restituzione della differenza tra la somma ricevuta in esecuzione delle sentenza di primo grado e quella accertata in appello, pur essendo la relativa domanda stata avanzata solo con le note conclusive e non con l’atto introduttivo del gravame; che i primi due motivi, che per la loro connessione possono essere trattati congiuntamente, non sono fondati: in primo luogo, infatti, deve rilevarsi che, in ordine all’apprezzamento sulla opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, si tratta di una valutazione del giudice del merito che, se adeguatamente motivata, sfugge al sindacato di legittimità (cfr. Cass. n. 8023/2009); in secondo luogo, va rimarcato che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. 27.12.2016 n. 27000); Cass. 19.6.2014 n. 13960): ipotesi queste non denunziate nel caso in esame;
che le doglianze di cui sopra si risolvono, invece, in una inammissibile richiesta, nella sostanza, di riesame dell’accertamento operato in fatto dalla Corte territoriale in ordine alla verifica della sussistenza di un rapporto di lavoro di tipo subordinato nei termini e nelle modalità oggetto delle originarie istanze nonché della spettanza delle differenze retributive, asseritamente dovute, che i giudici di secondo grado, esaminando le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e da vizi logici, hanno invece ritenuto sussistente, solo fino al novembre del 2000 con un riconoscimento di integrazione retributiva, per il Palermo, limitatamente ai mesi di marzo e aprile 2000, unitamente agli altri istituti contrattuali e alle relative omissioni contributive; che, quindi, le censure si sostanziano nella esposizione di una lettura delle risultanze probatorie diversa da quella data dal giudice del gravame e nella richiesta di rivisitazione di merito delle emergenze istruttorie, non consentita in questa sede di legittimità; che è, al contrario, fondato il terzo motivo: invero, è incontestato che la domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, parzialmente riformata, sia avvenuta solo con le note conclusionali in appello. Orbene, la Corte distrettuale non si è attenuta al principio statuito in sede di legittimità (Cass. n. 132472016), cui si intende dare seguito essendovi compatibilità del decisum anche con il rito del lavoro, secondo il quale la richiesta di restituzione di somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado consegue alla richiesta di modifica della decisione impugnata, sicché non costituisce domanda nuova ed è ammissibile in appello ma deve essere formulata, a pena di decadenza, con l’atto di gravame se, a tale momento, la sentenza sia stata già eseguita, ovvero nel corso del giudizio qualora l’esecuzione sia avvenuta dopo la proposizione di tale impugnazione, restando, invece, preclusa la proposizione della domanda con la comparsa conclusionale (per il rito lavoro “note conclusionali”), trattandosi di atto di carattere meramente illustrativo, senza che rilevi, in senso contrario, l’avvenuta messa in esecuzione della decisione di primo grado tra l’udienza di conclusioni e la scadenza del termine per il deposito delle relative comparse;
che, pertanto, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa sulla questione de qua ex art. 384 cpc, sicché, rigettati i primi due motivi, va accolto il terzo: la sentenza impugnata va conseguentemente cassata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, la domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado deve essere dichiarata inammissibile essendo stata formulata solo con le note conclusionali;
che, in ordine alle spese, nulla va disposto sulla liquidazione di quelle del giudizio di primo grado perché, non essendo le stesse state oggetto di impugnazione, su di esse si è formato un giudicato interno e sul punto resta ferma la pronuncia della Corte territoriale; che, quanto a quelle del giudizio di appello, in virtù del principio della soccombenza prevalente, appare equo compensarle per 3/4 e porre il restante quarto a carico della società, nella misura liquidata sempre dalla Corte di appello, restando anche in tale caso ferma la statuizione di quest’ultima per ciò che riguarda l’INPS;
che, relativamente a quelle del presente grado, il rigetto dei primi due motivi, l’accoglimento del terzo nonché l’andamento generale della lite inducono a ravvisare la sussistenza di giusti motivi (nella versione dell’art. 92 cpc ratione temporis applicabile: infatti, il presente giudizio è stato instaurato con atto introduttivo depositato il 28.6.2006 per cui, ai sensi del combinato disposto degli artt. 39 quater di n. 273/2005 conv. in legge n. 51/06 e 58 della legge n. 69/09 si applicava la seguente versione “… Se vi è soccombenza reciproca o ricorrono altri giusti motivi esplicitamente indicati nella motivazione per compensarle interamente tra le parti; nulla va disposto, infine, per quelle riguardanti il rapporto processuale con l’INPS, non avendo quest’ultimo svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo, rigetta i primi due; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito,
dichiara inammissibile la domanda, proposta dall’odierna società controricorrente di restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di 1° grado. Compensa per 3A le spese del giudizio di appello e condanna la società a pagare al Palermo il restante quarto, nella misura indicata nella gravata sentenza. Compensa per intero tra ricorrente e controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità.
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