CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 marzo 2017, n. 8263
Lavoro – Contratto di prestazione d’opera – Compenso – Mancata corresponsione – Risoluzione unilaterale anticipata
Fatti di causa
La Corte d’Appello di L’Aquila con sentenza in data 8/8/2011, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pescara n. 754/2010, ha respinto l’appello dell’A.A. (Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente) contro P.D.G., titolare del servizio di elaborazione del trattamento economico del personale e provvedimenti connessi di natura fiscale, previdenziale e assistenziale per il periodo dall’1/1/2003 al 31/12/2010 in seguito alla stipula di un contratto di convenzione. La controversia aveva a oggetto la domanda di risarcimento del danno del D.G. per mancata corresponsione da parte dell’A. del compenso per prestazioni rese, e a causa della quale egli aveva risolto unilateralmente il contratto di prestazione d’opera coordinata e continuata due anni prima della sua naturale scadenza (ossia nel 2008). In parziale riforma della sentenza del Tribunale, che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento per un ammontare inferiore a un terzo di quanto preteso dal D.G., la Corte d’Appello ha invece stabilito che esso dovesse essere corrisposto in toto, oltre alla liquidazione dell’ulteriore danno. La Corte territoriale ha fondato la sua decisione su un’interpretazione della clausola contrattuale n. 7 della convenzione, rubricata “Recesso delle parti”, dove si prevede espressamente che in caso d’inadempimento, totale o parziale delle sue obbligazioni, l’A. è tenuta a conferire al prestatore d’opera il compenso pattuito per l’intera durata del contratto, oltre al risarcimento per l’ulteriore danno.
Ricorre avverso tale decisione l’A. affidando le proprie ragioni a due motivi.
Resiste il D.G. con controricorso.
L’A. ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1° motivo di ricorso: erroneità della sentenza impugnata per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio (art. 360, n. 5 cod. proc. civ.) in combinazione con la violazione e falsa applicazione (art. 360, n. 3 cod. proc. civ.) del principio di non contestazione.
Nel primo motivo parte ricorrente censura la pronuncia del giudice d’Appello nel non aver ponderato adeguatamente il preteso inadempimento dell’Ente e nell’aver errato nel valutare l’entità dell’obbligo risarcitorio che ne sarebbe derivato.
Il motivo è inammissibile. Il ricorso, appuntandosi sulle condizioni contrattuali pattuite, in particolare sul numero di accessi nell’anno e nel trimestre e sul loro costo, propone una ricostruzione delle condizioni contrattuali, anche alla luce dell’esperienza intercorsa tra i contraenti, tale da escludere la condotta inadempiente dell’Ente. Il ricorrente, tuttavia, ad avviso di questo Collegio, nel proporre un’integrale rilettura delle fonti contrattuali, non si fa carico di indicare i canoni interpretativi su cui quest’ultima si fonda. Su ciò si diffonde, invece, coerentemente la Corte territoriale, la quale, in base alla lettura sia del bando, sia della convenzione, e senza trascurare gli accordi integrativi e gli atti deliberativi, intervenuti nel corso del rapporto contrattuale, rileva la sussistenza dell’inadempimento dell’ente per mancata corresponsione di ore e di accessi pattuiti, effettivamente resi e non contestati. Secondo il giudice d’Appello, da una corretta valutazione delle fonti regolative del rapporto, si deduce un obbligo di prestazione settimanale pari al minimo a cinque accessi, ciascuno di un’ora, con possibilità di ricorrere al meccanismo di compensazione, riducendo gli accessi nei periodi di minor lavoro, nel rispetto di un numero minimo di ore nel trimestre.
Tale facoltà compensativa costituisce una caratteristica peculiare del rapporto e insieme un aspetto decisivo al fine della valutazione della responsabilità contrattuale. Essa configura una tipologia di prestazione in cui la continuità costituisce l’indice di una relazione di collaborazione, e insieme coordinazione alle esigenze organizzative dell’Ente.
Il sovraesposto motivo di doglianza non ricostruisce gli obblighi contrattuali all’interno del contratto di prestazioni coordinate e continuate, liberamente scelto dai contraenti, ma affida a generiche affermazioni la pretesa di un esonero dalle responsabilità della ricorrente, quale, ad esempio, il presunto (ed evidentemente tardivo) scrupolo di una nuova dirigenza, consapevole delle mutate esigenze gestionali, di non mantenere in vita la consulenza del D.G. ritenuta (ora) notevolmente onerosa. Quello che – secondo i giudici di merito – costituisce inadempimento, altro non sarebbe, secondo parte ricorrente, che la scelta ben precisa di “…adottare iniziative idonee alla migliore tutela degli interessi pubblici affidati all’Agenzia”. L’A. non esplicita – e non avrebbe evidentemente potuto – se tra queste iniziative si ritenesse di far rientrare anche il suo venir meno a precisi obblighi contrattuali.
In conclusione sul punto, le prospettazioni condurrebbero questo Collegio a doversi esprimere nel merito del giudizio, sul che vige una precisa preclusione da parte dell’ordinamento.
2° motivo di ricorso: erroneità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. con riferimento all’interpretazione dell’art. 7 della convenzione, e alla conseguente quantificazione del risarcimento (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.).
Il secondo motivo si appunta sul tenore della clausola di cui all’art. 7 della convenzione, intitolata “Recesso”, secondo la quale: “L’A. rinuncia espressamente al diritto di recesso attribuito al Committente dal primo comma dell’art. 2237 codice civile e dalle norme generali in tema di contratto d’opera, di guisa che il recesso anticipato, anche non ingiustificato, comporterà le conseguenze ricollegabili ex lege e contrattualmente all’inadempimento. L’A. precisa che, in caso d’inadempimento totale o parziale delle obbligazioni proprie, sarà tenuta a corrispondere al prestatore d’opera intellettuale l’intero compenso pattuito per la durata del contratto, salva la risarcibilità del danno ulteriore subito dallo stesso prestatore d’opera”.
Tale norma, così come applicata dal Giudice d’Appello, violerebbe, secondo parte ricorrente i canoni ermeneutici generali dettati in materia d’interpretazione del contratto, in particolare gli artt. 1362 e 1363 cod.civ., ponendo impropriamente a carico di un ente pubblico conseguenze disciplinari al suo inadempimento, che andrebbero ben oltre i limiti segnati dal regolamento pattizio del recesso, da parte dell’Ente, e delle sue conseguenze. La norma richiamata avrebbe la funzione, al contrario, di preventivare la determinazione dell’esborso a carico dell’ente, nei casi in cui il recesso sia esercitato in condizioni d’inadempimento totale o parziale alle obbligazioni contrattualmente assunte. La doglianza si appunta, perciò sulla circostanza che la Corte d’Appello, anziché intendere l’art. 7 in modo unitario, avrebbe slegato la lettura della prima da quella della seconda parte, stravolgendone il senso.
Il secondo motivo va rigettato. La sentenza d’Appello accedendo a un’interpretazione letterale della norma contrattuale, considera separatamente le due statuizioni in essa contenute. La prima parte, che il ricorrente pretenderebbe applicata, avrebbe operato solo qualora la ricorrente avesse esercitato il suo potere di recesso unilaterale, che la disposizione equipara, a ogni effetto, all’inadempimento. In assenza di un atto di risoluzione unilaterale nei confronti del controricorrente, la prima parte dell’art. 7 della convenzione non può ritenersi applicabile.
La norma che soccorre in caso d’inadempimento della committente è, invece, la seconda parte dell’art. 7, la quale contiene l’individuazione degli esatti confini della responsabilità. Ed è in questo senso che correttamente la Corte d’Appello ne richiama l’integrale applicazione.
Quanto alla censura circa la determinazione del petitum risarcitorio, deve rilevarsi come la ricorrente non indica con adeguata precisione i parametri di determinazione che si ritengono violati da parte della sentenza gravata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5000 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200, e agli accessori di legge.
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