CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 maggio 2017, n. 13810
Licenziamento – Dirigente sindacale – Mancata reintegrazione nel posto di lavoro – Sanzioni ex art. 18, co. 10, St. lav
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 5.2.2011, la Corte d’appello di Brescia confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato l’opposizione proposta da I. s.p.a. avverso la cartella esattoriale con cui le era stato intimato di pagare all’INPS somme per sanzioni ex art. 18, comma 10°, St. lav., in relazione alla mancata reintegrazione nel posto di lavoro di L.G., dirigente sindacale aziendale il cui licenziamento era stato dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato.
La Corte, in particolare, riteneva che la sanzione fosse dovuta anche nel caso in cui, come nella specie, l’azienda avesse provveduto alla ricostituzione de iure del rapporto lavorativo, giacché la dispensa dal servizio, pur temperata dal permesso di accedere alla mensa e di svolgere l’attività sindacale nelle modalità previste dallo Statuto, non equivaleva a far venir meno il presupposto cui l’art. 18 cit. ricollega la sanzione da versarsi al Fondo pensioni lavoratori dipendenti; sotto altro profilo, la Corte riteneva che non potesse in alcun modo dubitarsi della qualità di dirigente sindacale aziendale del lavoratore licenziato e, infine, che nessuna censura di carattere formale potesse muoversi alla cartella impugnata, disattendendo altresì le doglianze sollevate dall’azienda contro le modalità di determinazione dell’aggio esattoriale.
Contro tali statuizioni ricorre I. s.p.a. con nove motivi.
L’INPS resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 25, comma 2°, d.P.R. n. 602/1973, per avere la Corte di merito ritenuto che la cartella di pagamento non dovesse contenere alcuna motivazione e/o almeno quella che consentisse al debitore di comprendere le ragioni del credito.
Il motivo è inammissibile, giacché, in tema di riscossione mediante iscrizione a ruolo delle entrate non tributarie, ai sensi del d.lgs. n. 46/1999, la contestazione dell’assoluta indeterminatezza per mancanza di motivazione della cartella di pagamento, essendo volta a far valere un vizio di forma dell’atto esecutivo, integra un’opposizione agli atti esecutivi, ex art. 29, comma 2, d.lgs. n. 46/1999 cit., e dato il rinvio alle forme ordinarie contenuto nella disposizione ult. cit., essa, prima dell’inizio dell’esecuzione, andava proposta entro il termine di venti giorni decorrente dalla notificazione della cartella (cfr. da ult. Cass. n 21080 del 2015). E poiché quest’ultima, nel caso di specie, è avvenuta in data 26.3.2009, mentre l’opposizione è stata proposta il successivo 27.4.2009 (cfr. ricorso per cassazione, pagg. 7-8), l’opposizione in questione, ancorché proposta uno actu con quella concernente il merito della pretesa, va dichiarata senz’altro inammissibile (cfr. in tal senso Cass. n. 15116 del 2015), a tanto potendo procedersi, d’ufficio anche in sede di legittimità fintanto che al riguardo non si sia formato giudicato (Cass. n. 9912 del 2001).
Con il secondo e il terzo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 10°, St. lav., per avere la Corte territoriale ritenuto che la sanzione ivi prevista e oggetto dell’ingiunzione di cui al presente giudizio fosse dovuta anche nel caso in cui la reintegra del dirigente sindacale era avvenuta con dispensa dal prestare servizio, ma con facoltà di accesso ai locali aziendali della mensa e di svolgere attività sindacale nei limiti e nelle forme di cui allo Statuto dei lavoratori. I motivi sono infondati. Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che la reintegrazione nel posto di lavoro, di cui all’art. 18 St. lav., implica la restitutio in integrum della relazione del lavoratore col “posto di lavoro” in ogni suo profilo, anche non retributivo, poiché il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche una forma di accrescimento della professionalità e di affermazione dell’identità, personale e sociale, tutelata dagli artt. 1, 2 e 4 Cost., di talché non può dirsi ottemperare all’ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente sindacale illegittimamente licenziato, restando conseguentemente obbligato al pagamento della sanzione al Fondo adeguamento pensioni ex art. 18, comma 10 , St. lav., l’imprenditore che, facendo leva sull’incoercibilità in forma specifica dell’ordine medesimo, si limiti a versare al lavoratore la retribuzione e a consentirgli l’ingresso in azienda per lo svolgimento dell’attività sindacale, senza permettergli, tuttavia, di riprendere il lavoro (Cass. n. 9965 del 2012).
Con il quarto e quinto motivo, la ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115- 116 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto, in contrasto con le prove documentali acquisite, che il lavoratore nominato in narrativa licenziato fosse effettivamente dirigente sindacale aziendale e non invece mero componente della rappresentanza sindacale aziendale.
I motivi sono inammissibili perché – come già ritenuto da questa Corte in fattispecie assolutamente analoga – concernono il merito della valutazione della prova, collocandosi oltre l’ambito del giudizio di legittimità (in termini Cass. n. 9965 del 2012, cit.).
Con il sesto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata ritenuto applicabile la sanzione di cui all’art. 18, comma 10°, St. lav., anche in mancanza di prova che l’azienda conoscesse la qualità di dirigente sindacale del licenziamento.
Il motivo è inammissibile perché la sentenza risponde specificamente a questa obiezione e il ricorso per cassazione non tiene conto degli argomenti della Corte, formulando critiche tarate su tali argomenti, ma si limita a riproporre genericamente la censura originaria (cfr. in termini ancora Cass. n. 9965 del 2012).
Con il settimo motivo, la ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 St. lav. per violazione artt. 3, 39 e 41 Cost. nella parte in cui prevede comunque la sanzione anche nel caso in cui ai lavoratori sindacalisti venga consentito l’esercizio dell’attività sindacale in azienda.
Come già nel caso esaminato da questa Corte nella sentenza ult. cit., l’eccezione è meramente enunciata e non è sostenuta da adeguate argomentazioni, sicché, non essendovi motivi per porla d’ufficio, la stessa deve essere valutata come manifestamente infondata.
Con l’ottavo e il nono motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 437 c.p.c. e 17, comma 1, d.lgs. n. 112/1999, per avere la Corte di merito ritenuto che la doglianza concernente la misura dell’aggio esattoriale determinato nella cartella fosse nuova e negato per conseguenza il rimborso del maggior importo versato.
I motivi sono infondati. Premesso al riguardo che i giudici territoriali, lungi dal limitarsi a dichiarare inammissibile la doglianza, hanno comunque precisato che essa doveva essere rivolta al concessionario della riscossione, che viceversa è estraneo al presente giudizio, è qui giusto il caso di rilevare che la riscossione a mezzo ruolo costituisce una procedura di riscossione speciale interamente disciplinata dalla legge n. 112/1999, che in nessun luogo prevede che della errata quantificazione del compenso spettante all’esattore debba rispondere l’amministrazione pubblica che ha formato il ruolo.
Il ricorso, conclusivamente, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 5.200,00, di cui € 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e, accessori di legge.
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