CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 marzo 2017, n. 16454
Imposte dirette – IRPEF – Impresa individuale – Dichiarazione dei redditi – Omessa presentazione – Sanzioni
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. Il sig. S.M. ricorre personalmente per l’annullamento della sentenza del 30/09/2015 della Corte di appello di Torino che, nel respingere la sua impugnazione, ha integralmente confermato la condanna alla pena (principale) di otto mesi di reclusione (oltre pene accessorie) a lui inflitta dal Tribunale di Verbania che, con sentenza del 13/02/2014, lo aveva dichiarato responsabile del reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000 perché, quale titolare di impresa individuale, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, aveva omesso di presentare, nel termine di legge, la dichiarazione annuale relativa all’anno di imposta 2007 con conseguente evasione dell’IRPEF, in misura pari ad € 100.589,00, e dell’IVA, in misura pari ad € 62.334,00 (oltre IRAP e addizionali regionali e comunali).
1.1. Con unico motivo, lamentando che l’imponibile è stato accertato facendo ricorso a inammissibili presunzioni fiscali, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’insussistenza del reato contestato e la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione. Deduce, in particolare, che la Corte di appello ha utilizzato, ai fini della decisione, un elenco dei clienti e fornitori dell’impresa che, in realtà, tale non è, trattandosi delle cd. denunce “cli.fo” (clienti/fornitori) inviate dai fornitori e/o clienti dell’impresa stessa all’Agenzia delle Entrate, “supportate” dalla mancata giustificazione resa dal contribuente. Tali denunce non descrivono i movimenti reali, ma solo i dati telematicamente registrati e presuntivamente quantificati. La Corte di appello – conclude – non ha perciò fornito motivazione adeguata e coerente alle censure devolute con l’impugnazione della sentenza di primo grado.
2. Il ricorso è inammissibile perché generico e manifestamente infondato.
3. L’utilizzazione, a fini di validazione dell’ipotesi accusatoria, delle cd. denunce “clienti/fornitori” delle imprese che avevano avuto rapporti con quella dell’imputato era stata fatta in primo grado mediante la loro combinazione con gli accertamenti riferiti, in sede di testimonianza dibattimentale, dal funzionario dell’Agenzia delle Entrate e la mancata contestazione, in sede amministrativa, del presupposto dell’imposta da parte dell’imputato.
3.1. In sede di appello questi aveva genericamente eccepito che il Tribunale, senza procedere ad un’autonoma valutazione delle prove, non aveva verificato se gli introiti in tal modo quantificati dall’Agenzia fossero stati davvero percepiti, visto che il testimone aveva riferito di essersi limitato a incrociare i dati informatici provenienti da imprese e banche senza acquisire le fatture emesse da lui ovvero altra documentazione idonea a provare sia gli introiti che la relativa evasione.
3.2. La Corte di appello, nel disattendere la tesi difensiva, ha chiaramente affermato che l’evasione risulta dall’elenco dei clienti e fornitori, non solo dalla testimonianza del funzionario dell’Agenzia, ma ha anche aggiunto che l’imputato non ha mai accennato al fatto che le fatture da lui emesse non erano mai state pagate; si tratta – chiosano i Giudici distrettuali – di deduzione del solo difensore.
3.3. Tanto premesso, osserva il Collegio che il ricorrente glissa completamente su questo specifico argomento, limitandosi ad affermare che i suoi “silenzi” non legittimano conclusioni a suo danno.
3.4. L’assunto è totalmente infondato.
3.5 L’elenco dei clienti e fornitori (sopratutto se proveniente da imprese diverse da quella oggetto di verifica) costituisce documento che legittima l’inversione dell’onere della prova a carico dell’evasore totale, essendo contrario alla logica ipotizzare che imprese, tutte diverse tra loro, possano aver indicato costi e ricavi inesistenti relativamente proprio all’identico cliente/fornitore. Non si tratta, pertanto, dell’utilizzo a fini penali di presunzioni tributarie, come afferma il ricorrente. Il giudice ha liberamente valutato le informazioni probatorie derivanti dal documento utilizzato, traendone conclusioni non manifestamente illogiche, la cui ragionevolezza imponeva all’imputato di fornire la prova del contrario.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 2000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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