CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10018 del 16 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – REIMPIEGO DEL LAVORATORE IN ALTRI MANSIONI DISPONIBILI NELLA SEDE DI LAVORO – ONERE DEL DATORE DI LAVORO
Svolgimento del processo
1 – La Corte di Appello di Torino ha accolto il reclamo proposto, ex art. 1, comma 58, della legge n. 92 del 2012, dalla C. delle P. S. M. della C. (Opera D. O.) avverso la sentenza del Tribunale di Tortona del 18 giugno/16 luglio 2014 che, decidendo sulla opposizione di G. A. avverso la ordinanza pronunciata dallo stesso Tribunale all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato dalla C. alla opponente con lettera del 24 agosto 2012 ed aveva disposto la reintegrazione della lavoratrice, condannando, inoltre, la opposta al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del recesso.
2 – La Corte di Appello, premesso che la lavoratrice era stata licenziata perché affetta da patologie che non le consentivano di svolgere le mansioni di addetta alla cura dei piccoli ospiti della struttura di Tortona, per quel che qui rileva, ha evidenziato che:
a) le allegazioni della A. in merito alla possibilità de) reimpiego in altre mansioni non potevano essere ritenute tardive, in quanto, nel rito disciplinato dalla legge n. 92 del 2012, il ricorso introduttivo della fase sommaria non è soggetto alle rigide regole di decadenza tipiche del rito ordinario;
b) erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che la C. non avesse assolto l’onere della prova sulla stessa gravante in merito al cosiddetto repechage, giacché detto onere rimane circoscritto dalle allegazioni del lavoratore licenziato, il quale deve indicare l’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli avrebbe potuto essere utilmente collocato;
c) la possibilità del reimpiego deve essere valutata in relazione a mansioni equivalenti a quelle assegnate al lavoratore e l’indagine può estendersi a mansioni inferiori solo qualora il dipendente licenziato abbia manifestato il consenso al demansionamento in epoca anteriore o coeva al licenziamento;
d) analogamente, nelle ipotesi in cui il datore di lavoro gestisca più unità produttive dislocate sul territorio, il lavoratore, che pretenda di essere ricollocato in altra sede, deve tempestivamente manifestare la sua disponibilità al trasferimento;
e) l’onere di collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage deve essere assolto attraverso allegazioni specifiche, non essendo sufficienti mere asserzioni.
3 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso G. A. sulla base di tre motivi. La C. delle P. S. M. della C. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1 – Preliminarmente deve essere dichiarata la inammissibilità della memoria ex art. 378 c.p.c., depositata tardivamente dal difensore della ricorrente.
2 – Con il primo motivo G. A. denuncia “violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c.”. Rileva che la reclamante non aveva censurato la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva ritenuto che il cosiddetto repechage dovesse riguardare anche mansioni inferiori disponibili in altre sedi. Con i motivi di appello, infatti, la C. aveva insistito solo sulla tardività e sulla genericità delle allegazioni nonché sulla errata valutazione delle risultanze probatorie e non aveva mai dedotto che la lavoratrice avesse l’obbligo di allegare e dimostrare di avere tempestivamente manifestato la propria disponibilità al demansionamento. Aggiunge che per il principio della necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, che nel giudizio di appello si traduce in quello del “tantum devolutum quantum appellatum”, era precluso alla Corte territoriale di decidere la controversia rilevando d’ufficio una questione nuova, del tutto autonoma ed indipendente rispetto ai motivi dedotti.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta “violazione dell’art. 5 della legge n. 604/1966” e rileva, in sintesi, che, qualora nell’azienda siano disponibili mansioni inferiori, grava sul datore di lavoro anche l’onere di provare di avere prospettato al lavoratore il demansionamento, quale alternativa al licenziamento. Ciò perché il dipendente potrebbe essere del tutto ignaro del provvedimento che il datore si appresta ad adottare, sicché non può pretendersi che sia il lavoratore ad assumere l’iniziativa, manifestando al datore la disponibilità a ricoprire anche mansioni inferiori e ad essere dislocato in altra sede.
infine con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione del richiamato art. 5 nonché dell’art. 2697 c.c. in relazione al capo della sentenza relativo alla necessaria specificità delle allegazioni che devono essere contenute nei ricorso affinché sorga l’onere, posto a carico del datore, di provare la impossibilità di reimpiegare il dipendente in mansioni diverse da quelle in passato ricoperte. Rileva che nel ricorso in opposizione erano stati indicati cinque diversi posti di lavoro, disponibili in sedi diverse da quella di originaria assegnazione, compatibili con le proprie condizioni di salute ed aggiunge che altro non poteva pretendersi dalla lavoratrice, la quale non era in condizione di conoscere la esatta organizzazione delle sedi diverse da quella nella quale svolgeva la attività.
3 – Occorre innanzitutto esaminare, per il suo carattere pregiudiziale, l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per violazione dell’art. 366 n. 3 c.p.c., sollevata dalla contro ricorrente. A fondamento della eccezione la C. evidenzia che il riassunto della vicenda processuale non contiene alcun cenno alle difese ed agli argomenti sui quali la resistente aveva fatto leva nella fase sommaria per sostenere la legittimità del licenziamento ed opporsi all’accoglimento delle domande.
L’eccezione è infondata.
Questa Corte ha affermato che “per soddisfare il requisito imposto dall’articolo 366, primo comma, n. 3), cod. proc. civ. il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito,” (Cass. 3.2.2015 n. 1926).
Il ricorso deve, quindi, contenere tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa.
Ciò significa che la valutazione sulla completezza della esposizione dei fatti contenuta nell’atto introduttivo deve essere effettuata considerando il fine che il requisito mira ad assicurare e contemperando la esigenza di fornire alla Corte tutti gli elementi necessari ai fini della decisione con quella della necessaria sinteticità degli atti processuali.
Ne discende che, come evidenziato, sia pure ad altri fini, dalle Sezioni Unite di questa Corte, la “esposizione sommaria dei fatti di causa” non richiede né la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali né che “si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale s’è articolata” ( cosi in motivazione Cass. S.U. 11.4.2012 n. 5698), essendo sufficiente una sintesi della vicenda “funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata”. Le stesse Sezioni Unite hanno anche significativamente aggiunto che “Il ricorso non può dirsi inammissibile quand’anche difetti una parte formalmente dedicata all’esposizione sommaria del fatto, se l’esposizione dei motivi sia di per sè autosufficiente e consenta di cogliere gli aspetti funzionalmente utili della vicenda sottostante al ricorso stesso”.
3.1 – Applicando alla fattispecie detti principi di diritto si perviene necessariamente al rigetto della eccezione, giacché il ricorso riassume, nella parte introduttiva e nella esposizione dei singoli motivi, i momenti salienti della vicenda processuale funzionali all’esame delle censure, rispetto alle quali, per come formulate, non assume rilievo alcuno l’unico dato omesso, ossia la sintesi degli argomenti sviluppati dalla C. nella fase sommaria del giudizio ex art. 1 della legge n. 92 del 2012.
4 – Il primo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., è infondato.
E’ consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio alla stregua del quale “il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, derivandone che non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di appello che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente a lui proposte o sviluppate, le quali però appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, e come tali comprese nel “thema decidendum” (Cass. 27.11.2015 n. 2429 e negli stessi termini Cass. 5.4.2011 n. 7789).
E’ stato anche affermato che “non incorre nella violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi, confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice.” (Cass. 25.9.2009 n. 20652).
Nel caso di specie i motivi del reclamo proposto dalla C. investivano direttamente il capo della sentenza di primo grado relativo alle condizioni che devono ricorrere perché sorga l’obbligo del reimpiego del lavoratore in altri mansioni disponibili nella sede di lavoro nonché, eventualmente, nelle altre unità produttive. Il reclamo, inoltre, si riferiva in modo specifico al contenuto degli oneri di allegazione posti a carico del lavoratore.
La sentenza impugnata, pertanto, nel rilevare che la A. avrebbe dovuto allegare anche di avere manifestato la sua disponibilità al demansionamento e al trasferimento in altra sede in data antecedente l’esercizio da parte del datore di lavoro del potere di recesso, non ha violato il principio della necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, avendo solo fondato la decisione su una ricostruzione giuridica dei fatti diversa da quella prospettata dalle parti, ma ricompresa nel thema decidendum, valorizzando, inoltre, elementi fattuali già acquisiti al processo nel contraddittorio fra le parti (si legge, infatti, nella decisione impugnata: “poiché in sentenza si afferma che il consenso allo svolgimento di mansioni inferiori è stato espresso con il ricorso introduttivo e la circostanza non è stata in alcun modo confutata…”).
5 – E’, invece, fondato il secondo motivo con il quale G. A. ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che la possibilità del reimpiego in altre sedi e in mansioni inferiori del lavoratore, divenuto fisicamente incapace, debba essere valutata dal datore di lavoro solo qualora ci sia stata una manifestazione di volontà in tal senso da parte dello stesso lavoratore, anteriore o coeva al licenziamento.
Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 7 agosto 1998 n. 7755), a composizione dei contrasti di giurisprudenza esistenti sulla questione, hanno affermato che la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro subordinato, ai sensi della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 (normativa specifica in relazione a quella generale dei contratti sinallagmatlci di cui agli artt. 1453, 1455, 1463 e 1464 c.c.), a condizione che risulti ineseguibile l’attività svolta in concreto dal prestatore e che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti ai sensi dell’art. 2103 c.c. ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni.
E’ stato evidenziato, al riguardo, che, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, il giustificato motivo oggettivo consiste non soltanto nella fisica inidoneità del lavoratore all’attività attuale, ma anche nell’inesistenza in azienda di altre attività (anche diverse, ed eventualmente inferiori) compatibili con lo stato di salute del lavoratore ed a quest’ultimo attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva, onde spetta al datore di lavoro convenuto in giudizio dal lavoratore in sede di impugnativa del licenziamento fornire la prova delle attività svolte in azienda, e della relativa inidoneità fisica del lavoratore o dell’impossibilità di adibirlo ad esse per ragioni di organizzazione tecnico – produttiva, fermo restando che, nel bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32 e 36 Cost.), non può pretendersi che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, proceda a modifiche delle scelte organizzative escludendo, da talune posizioni lavorative, le attività incompatibili con le condizioni di salute del lavoratore.
5.1- Detti principi sono stati, poi, ribaditi nelle successive pronunce di questa Corte, con le quali si è anche precisato che l’assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo costituisce un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, adeguamento che deve essere sorretto, oltre che dall’interesse, dal consenso del prestatore sicché “il datore di lavoro è tenuto a giustificare oggettivamente il recesso anche con l’impossibilità di assegnare mansioni non equivalenti nel solo caso in cui il lavoratore abbia, sia pure senza forme rituali, manifestato la sua disponibilità ad accettarle” (Cass. 2.7.2009 n. 15500 e negli stessi termini Cass. 2.8.2013 n. 18535).
In sintesi, dunque, poiché la inidoneità del prestatore giustifica il recesso solo nell’ipotesi in cui le energie lavorative residue non possano essere utilizzate altrimenti nell’impresa, anche in mansioni inferiori, il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili soluzioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, divenendo libero di recedere dal rapporto solo qualora la soluzione alternativa non venga accettata.
5.2. – Non si può, invece, sostenere che l’iniziativa finalizzata alla conclusione del patto debba provenire dal lavoratore.
Se l’impossibilità del reimpiego, anche in mansioni inferiori, è condizione necessaria per legittimare l’esercizio del potere di recesso, è onere del soggetto che quel potere si appresta ad esercitare accertare che ne sussistano i presupposti e, quindi, prospettare al prestatore la scelta fra l’accettazione del demansionamento e la risoluzione del rapporto.
In altri termini, i principi di correttezza e di buona fede, nonché il bilanciamento degli interessi costituzionali richiamati nella citata pronuncia delle Sezioni Unite, inducono a ritenere che, ove siano disponibili posizioni lavorative “dequalificanti”, il licenziamento sia reso legittimo dalla mancanza di consenso del lavoratore alla offerta del datore, il quale non è esonerato dall’obbligo di ricercare soluzioni alternative, eventualmente comportanti il demansionamento, per il solo fatto che il lavoratore non gli abbia, di sua iniziativa, manifestato la disponibilità ad andare a ricoprire mansioni inferiori compatibili con il suo stato di salute.
5.3 – Il principio qui affermato non contrasta con quanto sostenuto da Cass. 18.3.2009 n. 6552, richiamata nella sentenza impugnata, poiché quella decisione, relativa ad un licenziamento intimato per soppressione del posto di lavoro, si riferiva ad una fattispecie del tutto peculiare, nella quale, come si dà atto in motivazione, il datore di lavoro, che prima dì recedere dal rapporto aveva assegnato i lavoratori allo svolgimento di mansioni inferiori, si era visto contestare giudizialmente il demansionamento dai dipendenti, i quali, solo dopo la intimazione del licenziamento, si erano dichiarati disponibili a rinunciare al giudizio instaurato, pretendendo di far discendere da detta rinuncia l’illegittimità dei licenziamenti già intimati.
Non è quindi condivisibile la lettura che di detta pronuncia è stata fatta dalla sentenza impugnata, poiché le conclusioni alle quali in quella occasione questa Corte è pervenuta non presupponevano il principio, che la Corte territoriale ha preteso di ricavarne, ossia che la iniziativa per la conclusione del patto di demansionamento dovesse provenire dal lavoratore.
5.4 – Le considerazioni che precedono valgono anche per l’ipotesi in cui i! datore di lavoro gestisca più sedi o unità produttive. In tal caso, infatti, l’obbligo del reimpiego potrà dirsi adempiuto solo qualora le energie lavorative residue non siano utilizzabili in altre sedi, con la conseguenza che, ove altrove siano vacanti posizioni lavorative compatibili con lo stato di salute del lavoratore, è onere del datore prospettare al lavoratore la possibilità del trasferimento ed il recesso, che lo si ribadisce costituisce una extrema ratto, sarà validamente esercitato in caso di rifiuto.
5.5 – I principi affermati incidono, poi, anche sulla delimitazione degli oneri di allegazione che gravano sul lavoratore il quale contesti la legittimità del licenziamento.
La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel l’afferma re che, sebbene gravi sul datore di lavoro l’onere della prova della impossibilità del reimpiego, si deve esigere dal lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento del possibile repechage, mediante la allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato (cfr. fra le più recenti Cass. 3.3.2014 n. 4920).
Detta allegazione deve anche riguardare le posizioni lavorative comportanti la dequalificazione e deve essere accompagnata dalla manifestazione della disponibilità del lavoratore ad andare a ricoprire mansioni di livello inferiore, eventualmente anche in altre unità produttive ( cfr. Cass. 15.11.2002 n. 16141). In tal caso il datore di lavoro assolverà l’onere della prova sullo stesso gravante dimostrando, nei limiti delle allegazioni della controparte, o la indisponibilità dei posti lavorativi o di avere prospettato al lavoratore il demansionamento ed il trasferimento senza ottenere il suo consenso.
E’ evidente, infatti, che solo qualora il datore di lavoro abbia omesso di offrire le mansioni Inferiori prima di intimare il licenziamento, il lavoratore che detto licenziamento impugni, può e deve manifestare la propria disponibilità ad essere reintegrato nelle diverse mansioni, o nella diversa sede, e sollecitare una pronuncia giudiziale in tal senso.
Al contrario, ove antecedentemente al recesso, sia stato manifestato, anche implicitamente, il dissenso ad una soluzione comportante il mutamento di sede o di mansioni, detta manifestazione di volontà diviene definitiva e non può essere revocata dopo la intimazione del licenziamento.
5.6. – La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di detti principi di diritto, ritenendo erroneamente che l’indagine sulla possibilità di reimpiego potesse estendersi alle mansioni inferiori ed alle posizioni lavorative disponibili in altre sedi, solo a condizione che il lavoratore, di sua iniziativa e prima che il licenziamento venisse intimato, avesse manifestato al datore la sua disponibilità.
6 – E’ fondato anche il motivo di ricorso con il quale la sentenza impugnata è stata censurata per avere ritenuto non specifiche le allegazioni della lavoratrice relative alle posizioni lavorative disponibili nelle sedi diverse da quella di originaria assegnazione.
Questa Corte ha già affermato che “l’onere di collaborazione del prestatore di lavoro, lungi dall’avere un contenuto formale e predefinito, trova la sua specificazione con riferimento alla situazione concreta, in relazione cioè all’esigenza di rendere “ragionevole” l’onere probatorio gravante sul datore di lavoro, a sua volta delimitato dalle contrapposte deduzioni delle parti e dalle circostanze di fatto e di luogo reali proprie della singola vicenda esaminata. È pertanto sufficiente che il prestatore di lavoro, per soddisfare il suddetto onere, fornisca comunque elementi utili ad individuare la esistenza di realtà idonee ad una sua possibile diversa collocazione. Deve sottolinearsi in proposito che non è possibile gravare il prestatore di lavoro di un onere di maggiore specificità nell’allegazione suddetta tenuto conto del fatto che lo stesso non può fo comunque non è tenuto a) conoscere t dettagli dell’organizzazione aziendale e quindi l’eventuale esistenza di posizioni di lavoro analoghe a quelle dallo stesso occupate e suscettibili di essere dallo stesso ricoperte.” (Cass. 18.7.2014 n. 16484).
E’ stato anche precisato che “l’onere di allegazione a carico del lavoratore è fortemente attenuato allorché trattasi di azienda di grandi dimensioni, circostanza questa che obiettivamente non consente al lavoratore di essere a conoscenza dei posti di lavoro potenzialmente disponibili al momento del licenziamento e che, comunque, rende oltremodo difficile o difficoltosa tale conoscenza, riguardando situazioni che attengono alla struttura imprenditoriale, note quindi essenzialmente al datore di lavoro” (Cass. 23.11.2012 n. 20766).
Da detti principi, che vanno qui ribaditi, discende che, qualora, come nella fattispecie, la allegazione riguardi mansioni compatibili con il proprio stato di salute presenti in unità produttive diverse da quelle di assegnazione del lavoratore, non si può pretendere che quest’ultimo descriva in dettaglio la organizzazione di una sede alla quale non è assegnato ed indichi in modo puntuale le posizioni di lavoro disponibili, posto che l’onere di collaborazione non può essere spinto sino a pretendere che il lavoratore specifichi dati dei quali non è e non può essere a conoscenza.
In siffatte ipotesi, quindi, anche la descrizione non analitica del processo produttivo o delle attività svolte in altra sede, accompagnata dalla allegazione della propria idoneità fisica a svolgere le mansioni corrispondenti e dalla indicazione delle ragioni per le quali le residue energie lavorative potevano essere ivi utilizzate, è sufficiente da un lato ad integrare il requisito richiesto dall’art. 414 n. 3 e 4 c.p.c., dall’altro a circoscrivere l’onere probatorio del datore di lavoro.
7 – La sentenza impugnata va, quindi, cassata con rinvio alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, che dovrà pronunciare sul reclamo proposto dalla C. delle P. S. M. della C., attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
La fondatezza del ricorso rende inapplicabile II disposto dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228.
P.Q.M.
Accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso e rigetta il primo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione.
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