CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10097 del 17 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – SICUREZZA SUL LAVORO – DIPENDENTE INPS – INFARTO – CAUSA DI SERVIZIO – ACCERTAMENTO
Fatto e diritto
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 19.4 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione, redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
“La Corte di appello di Catanzaro, con la impugnata decisione, respingeva il gravame proposto dall’INPS avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da G. A., dipendente di ruolo dell’INPS, intesa ad ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della patologia cardiaca patita e la condanna dell’INPS al pagamento dell’equo indennizzo. Rilevava la Corte che le patologie erano state cagionate dall’attività lavorativa descritta dai testi escussi, svolta anche oltre il normale orario lavorativo ed in turni notturni dal G., in ambiente che doveva essere mantenuto a basse temperature per evitare problemi alle attrezzature informatiche, e che la CTU espletata in prime cure aveva evidenziato che la patologia denunziata – ovvero l’infarto acuto del miocardio corretto con triplice by pass coronarico – era ascrivibile a fatto di servizio. Questo aveva, invero, assunto un ruolo di fattore concausale efficiente e determinante e le conclusioni peritali erano al riguardo correttamente argomentate, avendo evidenziato altresì l’irrilevanza di eventuali dedotti fattori di rischio personali, peraltro mai chiaramente dimostrati, attesa la ritenuta sufficienza della rilevata concausalità ai fini dell’accertamento della dipendenza della patologia da causa di servizio. Per la cassazione di detta decisione ricorre l’INPS, affidando l’impugnazione ad unico motivo, cui resiste, con controricorso, il G.
Viene dedotta nullità della sentenza e del procedimento – errar in procedendo, ex art. 360 n. 4, c.p.c – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c. c. ed omesso esame circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, assumendosi che nell’atto di appello era stata censurata la c.t.u. laddove non aveva neanche accertato se vi fosse un’eventuale patologia ipertensiva preesistente e per avere ritenuto la sussistenza del nesso concausale efficiente e preponderante dei fatti di servizio sulla scorta di argomentazioni probabilistiche, senza alcuna motivazione in ordine alla richiesta di rinnovo di c.t.u., benché esso istituto avesse evidenziato, con apposita relazione, formante parte integrante dell’atto di appello, gli errori in cui era incorso il CTU.
Evidenzia l’INPS che la c.t.u. era stata acriticamente recepita dalla Corte di appello e che dalla prova per testi espletata e dalle stesse asserzioni contenute nel ricorso introduttivo erano emerse peculiarità dell’attività svolta nel periodo antecedente all’insorgenza della patologia, tali da denotarne la dipendenza causale da fattori di rischio individuali congeniti e dalle abitudini di vita del soggetto, non prese in considerazione dal Ctu e dal giudice del merito.
Rileva di avere svolto puntuali contestazioni alla CTU e proposto note critiche alla stessa tese ad evidenziarne le incongruenze e la necessità di rinnovo.
Il ricorso deve ritenersi palesemente infondato.
Dal complesso delle violazioni ascritte dal ricorrente istituto alla sentenza gravata si deduce che nel caso in esame lo stesso contrappone a quella compiuta dalla Corte territoriale una propria diversa valutazione fondata sostanzialmente sull’esame delle stesse deduzioni che la Corte territoriale ha ritenuto idonee a fondare il diritto del G. al richiesto indennizzo.
Quanto alle risultanze della prova per testi espletata in ordine a circostanze relative al tipo di attività svolta dal G. precedentemente a! manifestarsi della patologia ascritta a causa di servizio ed alle modalità operative particolarmente usuranti emerse dal l’incombente istruttorio, la difesa dell’istituto risulta del tutto generica, contrapponendo alla valutazione compiuta dalla Corte una interpretazione del materiale probatorio sostanzialmente difforme, senza elementi idonei a confortare la critica mossa.
Per ogni altro rilievo deve essere richiamata la giurisprudenza delle sezioni unite e quella alla stessa uniformatasi (Cass. S. U., 17.6.2004, n. 11353, Cass. 26.6.2009, n. 15080, Cass. 15.10.2014, n. 21825), cui questo collegio aderisce, la quale, nella materia dell’equo indennizzo, ha affermato il principio secondo cui il lavoratore che sostiene la dipendenza di una malattia o di una menomazione dell’integrità psico – fisica da una causa di servizio ha l’onere di dedurre e provare con precisione i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell’infermità denunciata alle modalità concrete di svolgimento delle mansioni inerenti la qualifica rivestita, variabili in relazione al luogo di lavoro, ai turni di servizio,all’ambiente lavorativo. La Corte di legittimità ha, infatti, escluso che le modalità di una determinata mansione possano rappresentare un fatto notorio che non necessita di prova, atteso che esse sono variabili in dipendenza del concreto posto di lavoro, della sua localizzazione geografica, dei turni di servizio, dell’ambiente in generale, etc., ed ha affermato l’assoluta irrilevanza del fatto che la controparte non abbia contestato, con la comparsa di costituzione in primo grado, le modalità della prestazione lavorativa allorquando dette modalità non siano state precisate nei termini indicati.
Per quanto detto, tali modalità sono state idoneamente valutate secondo i criteri su richiamati dalla Corte, palesandosi generiche le critiche al riguardo espresse dall’Istituto.
Con riguardo, poi, alla patologia cardiaca, quale quella da cui è risultato affetto il G., la stessa presenta una eziologia c.d. multifattoriale.
Al riguardo le sezioni unite di questa Corte hanno affermato che il nesso di causalità fra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio. Alla luce di tale arresto giurisprudenziale, le valutazioni espresse sul punto nell’unico motivo di ricorso appaiono prive di fondamento, avendo, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente, la Corte del merito dato conto della presenza di fattori di rischio individuali, pure affermando, in modo coerente con i principi richiamati, che la concausalità del fattore lavorativo nei termini emersi dalle risultanze di causa era tale farne ritenere il carattere efficiente e determinante in termini di probabilità, così come richiesto dagli orientamenti giurisprudenziali citati.
Al di fuori di tale ambito le censure anzidette costituiscono mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico – formale, e si traducono, quindi, in una inammissibile critica del convincimento del giudice (giurisprudenza consolidata: v. da ultimo Cass. 22 febbraio 2013, n. 4570; id. 15 gennaio 2013, n. 767 del 2013; 23 novembre 2012, n. 20773; 12 dicembre 2011, n. 26558; Cass. 29 aprile 2009, n. 9988; 3 aprile 2008, n. 8654). Con il ricorso in esame non vengono dedotti vizi logico-formali che si concretino in deviazioni dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni manifestamente illogiche o scientificamente errate, ne’ – ancor meno -se ne indicano le fonti: ci si limita, invece, a svolgere solo osservazioni concernenti il merito di causa senza evidenziare quali sarebbero gli accertamenti strumentali omessi e quali le affermazioni scientificamente errate, richiamando note tecniche redatte da c.t. di parte allegate all’atto di gravame, non solo non riprodotte nei passaggi rilevanti nel presente ricorso, ma neanche allegate a questo, senza peraltro alcun riferimento alla sede di relativa produzione, in dispregio dei principi ripetutamente sanciti da questa Corte. Ove, invero, il ricorrente intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice del merito, il requisito in parola si intende soddisfatto, allorché il ricorrente produca il documento agli atti e ne riproduca il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il suo esatto contenuto. (2861/14; 2427/14; 2966/11). In altri termini, occorre non solo che la parte precisi dove e quando il documento asseritamente ignorato dai primi giudici o da essi erroneamente interpretato sia stato prodotto nella sequenza procedimentale che porta la vicenda al vaglio di legittimità; ma al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (v. Cass. 761/14; 24448/13; 22517/13), occorre altresì che detto documento ovvero quella parte di esso su cui si fonda il gravame sia puntualmente riportata nel ricorso nei suoi esatti termini (Cass. 3748/14; 15634/13).
L’inosservanza anche di uno soltanto di questi oneri viola il precetto di specificità di cui al citato art. 366, primo comma, n. 6 e rende il ricorso conseguentemente inammissibile (cfr. Cass.14216/13; 23536/13 23069/13).
Infine, non va omesso di evidenziare che, per consolidata giurisprudenza di questa S.C. (cfr., tra le altre, Cass. 17 dicembre 2010, n. 25569), cui va data continuità, il giudice di appello, pur se obbligato a motivare adeguatamente, secondo un tipico apprezzamento di fatto, il proprio eventuale disaccordo rispetto alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio del primo grado, non è tenuto a disporre una nuova consulenza, dovendo soltanto prendere in considerazione i rilievi tecnico – valutativi mossi dell’appellante. A maggior ragione, dunque, può motivatamente condividere le conclusioni del c.t.u. di secondo grado, se confermative di quelle del primo.
Alla stregua di tali considerazioni, si propone il rigetto del ricorso, potendo lo stesso essere deciso in sede camerale”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis, 2° comma, c.p.c.
Il Collegio ritiene di condividere integralmente il contenuto e le conclusioni della riportata relazione e concorda, pertanto, sul rigetto dello stesso, rilevando che, se pure il contenuto delle note critiche alla ctu risulta nella sostanza richiamato nel ricorso, non se ne indica la sede di produzione, con ciò non consentendo la sua pronta reperibilità, a prescindere da ogni altra considerazione adeguatamente svolta nella relazione con riguardo ai criteri alla cui stregua è stata vagliata dal giudice del merito la concausalità del fattore lavorativo.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza dell’istituto e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 si impone di dare atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo Introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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