CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10235 del 18 maggio 2016
LAVORO – CONTRATTO DI COLLABORAZIONE – ELEMENTI DELLA SUBORDINAZIONE – DISTINZIONE TRA LAVORO AUTONOMO E SUBORDINATO – PROVA
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 5931/2012, depositata il 7 luglio 2012, la Corte di appello di Roma, in accoglimento dell’appello principale di RAI – S.p.A., respingeva le domande di S.P. volte a far accertare la nullità delle clausole di limitazione temporale apposte al contratto di collaborazione stipulato in data 5/10/2000, relativo alla produzione del programma “O.”, e ai contratti di collaborazione stipulati in data 16/8/2001 e in data 5/8/2002, relativi entrambi alla produzione internet a cura della prima rete radiofonica, e a far accertare l’avvenuta instaurazione dalla prima di tali date, o da altra successiva, tra il ricorrente e la società, di un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
La Corte esaminava in primo luogo il contenuto dei contratti, traendone la conclusione che essi non fornivano elementi che riconducessero allo schema tipico dei rapporto di lavoro subordinato, posto che le parti non avevano previsto un divieto assoluto per il P. di assumere altri incarichi ma il solo obbligo di non impegnarsi con terzi per l’espletamento di attività incompatibili con l’oggetto del contratto; che, d’altra parte, la clausola risolutiva espressa, tale dovendosi intendere quella inserita al punto 8 dei testi contrattuali, costituiva applicazione di una forma di risoluzione per inadempimento di tutti i contratti a prestazioni corrispettive, sicché era da escludere che, attraverso la previsione della facoltà di dichiarare risolto il contratto in caso di inadempimento del contratto, la RAI avesse voluto riservarsi l’esercizio del potere disciplinare tipico della subordinazione; che inoltre le parti avevano utilizzato termini quali “opera professionale” e “incarico” che non lasciavano dubbi circa la volontà di ritenere il rapporto come di collaborazione autonoma, volontà che trovava conferma nella circostanza che per l’opera prestata era stato previsto il pagamento non già di un importo mensile bensì di un corrispettivo forfettario per l’intero periodo.
La Corte procedeva, quindi, a considerare se il rapporto si fosse nei fatti discostato dallo schema negoziale prescelto della collaborazione coordinata e continuativa, in particolare esaminando gli elementi che il Tribunale aveva valorizzato in tal senso e cioè il rispetto di fatto di un orario di lavoro e l’espletamento dell’attività di inserimento di testi ed immagini nelle pagine web in conformità alle direttive ricevute: elementi che peraltro riteneva inidonei a dimostrare la sussistenza di un rapporto subordinato, non essendo stato dimostrato che l’orario indicato dal ricorrente fosse stato imposto dal datore di lavoro e fosse oggetto di controllo, e risultando spazi di autonomia per il P. nella individuazione dei links di approfondimento dei testi selezionati dalla redazione e nella scelta delle immagini da collocare a corredo dei medesimi, pur nell’ambito di indicazioni di massima ricevute dal responsabile della struttura Internet.
Ha proposto ricorso, notificato il 3 giugno 2013, per la cassazione della sentenza il P., affidato ad un unico articolato motivo; la RAI – S.p.A. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il motivo dedotto il ricorrente ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione di varie norme di legge (art. 41 Cost.; artt. 1322, 1362, 2087, 2094 c.c.; artt. 112, 115, 132 c.p.c.; art. 118 disp. att. c.p.c.) nonché l’omesso esame di punti decisivi della controversia: la Corte, infatti, avrebbe attribuito rilevanza centrale al contenuto dei contratti sottoscritti ed in particolare all’uso nei medesimi delle parole “incarico” e “opera professionale”, in tal modo trascurando di pronunciare sul dato, di importanza decisiva, costituito dalla portata dell’incarico e dall’individuazione dell’opera richiesta e così di accertare come la RAI, stipulandoli, avesse inteso acquisire la generica disponibilità del ricorrente a seconda delle esigenze delta sua organizzazione aziendale; avrebbe, inoltre, omesso di considerare che nei contratti erano presenti clausole idonee a dimostrare la volontà di realizzare l’assoggettamento del lavoratore, quale la clausola, riprodotta in ciascuno di essi all’art. 8, che prevedeva, in caso di inadempienza ad una qualsiasi delle obbligazioni assunte, la facoltà per la RAI (oltre che di considerare risolto l’accordo) di richiedere l’adempimento e nel contempo di applicare una penale, di fatto equiparabile ad una sanzione conservativa di natura disciplinare; avrebbe poi, la Corte, errato nel ritenere che non fosse stata data prova della imposizione di un orario di lavoro, potendo il relativo obbligo discendere dal comportamento costante delle parti osservato per un congruo lasso di tempo, come avrebbe errato nel ritenere che non fosse stata data prova della necessità di giustificazioni e permessi, posto che, avendo egli regolarmente svolto la propria prestazione secondo le disposizioni impartitegli, sarebbe stato onere della RAI dimostrare che si era assentato senza permesso ovvero che si era reso inadempiente ai suoi doveri senza subirne le conseguenze; avrebbe infine errato la Corte di appello nel richiedere come necessaria, ai fini della subordinazione, un’attività di direzione costante e cogente atta a privare il lavoratore di qualsiasi autonomia nell’espletamento della sua attività, essendo invece l’autonomia una caratteristica insita nella prestazione di lavoro del dipendente RAI alla stregua delle previsioni collettive applicate in tale azienda, e nel valutare come rilevanti, ai medesimi fini, le modalità di corresponsione del compenso, anziché quelle di determinazione del suo ammontare.
Il ricorso deve essere respinto.
La sentenza impugnata ha fatto invero corretta applicazione dei principi di diritto e degli orientamenti di questa Corte di legittimità laddove ha ritenuto: (a) che il nomen iuris utilizzato dalle parti contraenti deve essere valutato dal giudice nella qualificazione del rapporto, senza peraltro avere rilievo assorbente ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, poiché deve tenersi conto, sul piano della interpretazione della volontà delle stesse parti, del comportamento complessivo delle medesime, anche posteriore alla conclusione del contratto, ai sensi dell’art. 1362, secondo comma, cod. civ., e, in caso di contrasto fra dati formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche e modalità della prestazione, è necessario dare prevalente rilievo ai secondi (Cass. 23 luglio 2004, n. 13884); (b) che la necessità di una presenza quotidiana del prestatore nella struttura aziendale per l’espletamento dei propri compiti costituisce elemento non esclusivo del rapporto di lavoro subordinato, potendo ricorrere anche nel lavoro autonomo (Cass. 9 marzo 2009, n. 5645); (c) che l’organizzazione del lavoro attraverso disposizioni o direttive – ove le stesse non siano assolutamente pregnanti ed assidue, traducendosi in un’attività di direzione costante e cogente atta a privare il lavoratore di qualsiasi autonomia – costituisce una modalità di coordinamento e di eterodirezione propria di qualsiasi organizzazione aziendale e si configura quale semplice potere di sovraordinazione e di coordinamento, di per sé compatibile con altri tipi di rapporto, e non già quale potere direttivo e disciplinare, dovendosi ritenere che quest’ultimo debba manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e non in mere direttive di carattere generale, mentre, a sua volta, la potestà organizzativa deve concretizzarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e non in un mero coordinamento della sua attività (Cass. 22 dicembre 2009, n. 26986); (d) che, sul presupposto pacifico della spettanza all’attore del relativo onere della prova, il giudice deve ritenere quest’ultimo non assolto, ove si configuri una situazione di incertezza probatoria in ordine alla natura subordinata del rapporto.
La Corte di appello, infatti, con motivazione adeguata ed esente da vizi logici nonché coerente con i principi richiamati, ha ritenuto che gli elementi posti dal primo giudice a sostegno della propria contraria decisione, e cioè il rispetto di fatto di un orario di lavoro e l’espletamento dell’attività di inserimento di testi ed immagini nelle pagine web in conformità alle direttive ricevute, non fossero sufficienti a far escludere la concordata autonomia della prestazione.
In particolare, con riferimento al primo di tali elementi la Corte ha posto in rilievo che la collaborazione resa dal P. quale esperto informatico, in quanto volta a consentire la diffusione via Internet delle notizie, non poteva che essere quotidiana, posto che il sito doveva essere costantemente aggiornato in modo da offrire informazione in tempo reale, e, d’altra parte, il ricorrente, nel dedurre con l’atto introduttivo di avere lavorato quotidianamente per non meno di sei ore al giorno (dalle 10.30 alle 17.30), non aveva contestualmente allegato, né poi comunque dimostrato, che tale orario gli fosse stato imposto dal datore di lavoro, che ne controllava il rispetto, né ha chiarito di essere stato obbligato a rimanere nei locali aziendali a disposizione del responsabile della struttura, una volta terminata l’opera di inserimento dei dati, o a giustificare assenze e permessi: ciò che rendeva di non particolare rilievo la circostanza che, ove necessario, il P. si fosse trattenuto nei locali aziendali oltre l’orario solitamente rispettato o che, per due mesi (marzo ed aprile 2003), nel periodo della guerra del Golfo, si fosse alternato con altri addetti alla struttura per garantire l’immediato trasferimento in rete delle notizie, anche a fronte della prova documentale che, negli altri periodi, egli non era stato incluso nei turni predisposti dal responsabile.
Con riguardo poi all’elemento delle direttive, e previo esame del materiale probatorio, la Corte ha valutato non rilevante la circostanza che i testi delle notizie da immettere nel sito internet fossero scelti dai redattori dei notiziari e che questi ultimi dovessero approvare eventuali modifiche apportate in sede di trasposizione informatica (come operare un controllo sui links di approfondimento e sulle immagini a corredo dei testi, peraltro oggetto, entrambi, di una prima autonoma selezione ad opera del P.), non dovendosi confondere i due piani costituiti, l’uno, dall’immissione dei dati nel sito web, di competenza del collaboratore esperto in informatica, e, l’altro, dalla scelta delle notizie da inserire nel sito: motivazione anch’essa esente da vizi logici e giuridici, poiché muove dall’esatta ricognizione della presenza, in un’attività sinteticamente unitaria, di un livello specifico di elaborazione e creazione proprio della professione giornalistica e ne fa salva l’esigenza di tutela, anche ai fini della responsabilità connessa alla diffusione della notizia.
Su tali premesse, e avuto riguardo ai consolidati esiti giurisprudenziali sul punto, appare del tutto congrua la conclusione cui è pervenuta la Corte di appello e cioè la riforma della sentenza di accoglimento emessa in primo grado, la complessiva valutazione del materiale probatorio offerto non consentendo di ritenere sicuramente provata la natura subordinata del rapporto.
Riguardo alla clausola risolutiva, prevista in tutti i contratti all’art. 8, si deve anzitutto rilevare che essa, diversamente da quanto sostenuto, ha formato oggetto di espressa considerazione nella sentenza (pag. 5) e di una lettura specificamente motivata, avendo la Corte tenuto conto delle argomentazioni, pur non condivise, svolte in proposito dall’odierno ricorrente.
D’altra parte, quest’ultimo non ha spiegato, in presenza di un richiamo all’art. 1362 c.c., come e attraverso quali procedimenti logici il giudice di appello, nell’interpretazione della clausola, si sia discostato dai canoni di ermeneutica contrattuale.
Analogo rilievo deve essere formulato con riguardo alle norme del CCNL per i dipendenti RAI, anch’esse investite di un rilievo di violazione dell’art. 1362 c.c., non ulteriormente sviluppato nel ricorso al di là del mero e isolato riferimento contenuto nella rubrica del motivo.
La successione di pronunce giudiziali difformi, in fattispecie complessa tale da consentire ricostruzioni antitetiche, ciascuna in grado di attingere un proprio livello di plausibilità, giustifica la compensazione per intero delle spese del presente giudizio, integrando il presupposto di cui all’art. 92, comma secondo, nella formulazione (“gravi ed eccezionali ragioni”) applicabile ratione temporis.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; compensa per intero le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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