CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10343 del 19 maggio 2016

LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – DECADENZA DALL’IMPUGNATIVA DEL LICENZIAMENTO – PRESUPPOSTO ESSENZIALE – PROVA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 27/9 – 4/12/2012 la Corte d’appello di Napoli ha rigettato l’impugnazione proposta dalla I.C.G. – Ingegneria Costruzioni Generali s.p.a. in liquidazione avverso la sentenza del giudice del del lavoro del Tribunale della stessa Sede che l’aveva condannata a reintegrare nel posto di lavoro T.F. e a corrispondergli le retribuzioni maturate dal 2.10.2003 fino all’effettiva riassunzione, previa dichiarazione di inefficacia del licenziamento.

Nel respingere il gravame, la Corte territoriale ha spiegato che era infondata l’eccezione di prescrizione sollevata dalla società, trattandosi di licenziamento collettivo inefficace per violazione dell’obbligo di esame congiunto delle parti, oltre che illegittimo per violazione dei criteri legali di scelta dei lavoratori da licenziare e nullo per mancanza dei presupposti oggettivi, per cui l’azione tesa a far valere la nullità per mancanza di uno dei requisiti del negozio aveva natura dichiarativa ed era da ritenere imprescrittibile. Inoltre, secondo la stessa Corte, era infondata anche l’eccezione di intervenuta acquiescenza al licenziamento, avendolo il lavoratore impugnato due volte ed avendo il medesimo proposto per due volte il tentativo obbligatorio di conciliazione.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società I.C.G. – Ingegneria Costruzioni Generali s.p.a. in liquidazione con due motivi.

Resiste con controricorso T.F..

Le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1442 cod. civ., nonchè della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, commi 9 e 12, e art. 5, comma 3, oltre che della L. 2 maggio 1970, n. 300, art. 18 evidenziando l’errore in cui è incorsa la Corte di merito nel dichiarare l’inefficacia del licenziamento, nonostante la controparte l’avesse impugnato oltre il termine di decadenza di sessanta giorni dalla sua avvenuta comunicazione.

Al riguardo la ricorrente fa, altresì, notare quanto segue: – Il licenziamento del 15.5.1997, intimato nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo di cui alla L. n. 223 del 1991, era stato regolarmente impugnato la prima volta dal T. in data 20.5.1997; tale procedura era stata successivamente revocata, per essere poi rinnovata, ma la nuova impugnativa era stata proposta dal T. solo il 26.9.2003, cioè ad oltre cinque anni di distanza da quella precedente, allorquando era già maturata la prescrizione quinquennale di cui all’art. 1442 cod. civ..

Orbene, secondo tale tesi difensiva, fatto salvo il caso del licenziamento verbale da ritenersi inesistente, il legislatore ha inteso parificare, sia nel termine di impugnazione che negli effetti della invalidazione, tutte le forme di invalidità del recesso, vale a dire quelle della illegittimità, della inefficacia e della annullabilità. Sarebbe, quindi, erronea, secondo la ricorrente, la conclusione cui è giunta la Corte territoriale, secondo la quale, rispetto alla inefficacia del negozio derivante dalla violazione degli obblighi di esame congiunto tra le parti nell’ambito della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, non opererebbe la prescrizione quinquennale prevista per l’azione di annullamento.

2. Col secondo motivo, proposto per omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 la ricorrente si duole dell’errore in cui è incorsa la Corte di merito nella parte in cui non le ha accolto l’eccezione sollevata con riferimento alla segnalata acquiescenza del dipendente al licenziamento, in ragione del notevole lasso di tempo trascorso prima della proposizione dell’azione giudiziaria da parte del T. il quale, nelle more, aveva rinvenuto una nuova occupazione.

Osserva la Corte che, con riferimento al primo motivo, diverse decisioni di questa Corte (Cass. Sez. Lav. n. 5107 del 3.3.2010, n. 5545 del 9.3.2007 e n. 18216 del 21.8.2006) hanno avuto modo di modificare un precedente orientamento, precisando quanto segue: –

L’ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale, diversa da quella ordinaria, all’interno della quale è stato inserito un termine breve di decadenza (sessanta giorni) per l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore (L. n. 604 del 1966, art. 6, v. anche L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3) all’evidente fine di dare certezza ai rapporti giuridici e garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal recesso datoriale, ritenendo tale certezza valore preminente.

Ne consegue che al lavoratore che non abbia impugnato nel termine di decadenza suddetto il licenziamento è precluso il diritto di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del recesso e di conseguire il risarcimento del danno, nella misura prevista dalle leggi speciali (L. n. 604 del 1966, art. 8 e L. n. 300 del 1970, art. 18). Peraltro, se tale onere non viene assolto, il giudice non può conoscere della illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare, di per sè, al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune. La decadenza, infatti, impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento.

Nè il sistema delle preclusioni può ritenersi diverso qualora si tratti, come nella fattispecie, dell’impugnativa riguardante vizi del procedimento del licenziamento collettivo, tanto che si è già chiarito (Cass. Sez. Lav. n. 10235 del 4.5.2009) che “la decadenza dall’impugnativa del licenziamento, individuale o collettivo, preclude l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, sia sul piano contrattuale, in quanto l’inadempimento del datore di lavoro consista nel recesso illegittimo in base alla disciplina speciale, sia sul piano extracontrattuale, ove il comportamento illecito dello stesso datore consista, in sostanza, proprio e soltanto nell’illegittimità del recesso.

(Principio affermato in controversia in cui il lavoratore, pur non invocando l’applicazione, in suo favore, della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 aveva esperito unicamente azione risarcitoria per ritenuta illegittimità del comportamento datoriale, ravvisata nel mancato rispetto dei criteri dettati dalla L. 23 luglio 1991, n. 223 per l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, senza tuttavia allegare un diverso fatto ingiusto accompagnatosi al licenziamento)”.

Quanto alla correlata questione del regime prescrizionale applicabile si è affermato (Cass. Sez. Lav. n. 24366 dell’1/12/2010) che “in tema di impugnativa di licenziamento, una volta che, a mezzo di atto stragiudiziale, sia stata evitata la decadenza prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 6 la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo deve essere in ogni caso proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 cod. civ., che decorre dal giorno di ricezione dell’atto di intimazione, a nulla rilevando che a seguito della successiva assoluzione da imputazioni penali sia emersa l’erroneità del presupposto alla base del provvedimento del datore di lavoro, atteso che l’errore rilevante ai fini del decorso della prescrizione dalla sua scoperta è quello in cui è incorsa la parte che esercita l’azione di annullamento e non quello della controparte.” (in senso conf. v. anche Cass. Sez. Lav. n. 18732 del 6.8.2013 secondo cui la prescrizione quinquennale dell’azione volta ad impugnare il licenziamento illegittimo determina – al pari della decadenza dall’impugnativa del licenziamento – l’estinzione del diritto di far accertare l’illegittimità del recesso datoriale e, quindi, di azionare le conseguenti pretese risarcitorie, residuando, in favore del lavoratore licenziato, la sola tutela di diritto comune per far valere un danno diverso da quello previsto dalla normativa speciale sui licenziamenti, quale ad esempio quello derivante da licenziamento ingiurioso).

Pertanto, escluso il caso dell’azione volta a far dichiarare l’inesistenza del licenziamento per difetto del requisito ad substantiam della forma scritta – che è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro da considerarsi ancora giuridicamente in atto (v. Cass. sez. lav. n. 7495 del 5/6/2000, n. 16955 dell’1/8/2007, n. 15106 del 10/9/2012) – si ritiene di dover dare continuità ai suddetti precedenti, non essendo condivisibile la specificazione operata dalla Corte di merito in ordine alla ritenuta imprescrittibilità dell’azione diretta a far valere l’inefficacia del licenziamento in quanto azione di accertamento, a sua volta connessa alla considerazione che il richiamo alla L. n. 300 del 1970, art. 18 sarebbe inerente alle conseguenze della reintegrazione e del risarcimento dei danni in favore del lavoratore e non strumentale alla riconduzione dell’azione – volta a far dichiarare l’inefficacia del licenziamento – a quella di annullamento per illegittimità dello stesso provvedimento: – Invero, tali affermazioni finiscono per rivelarsi contrarie al principio fondamentale della certezza dei rapporti giuridici nell’ambito delle preclusioni dipendenti da cause di decadenza e di estinzione dei diritti all’interno dello stesso sistema dell’impugnativa dei licenziamenti.

Tra l’altro, non può non osservarsi che la richiesta di reintegrazione e di risarcimento rappresenta la conseguenza diretta della forma di invalidità del licenziamento che si intende far valere e rispetto alla quale non è possibile eludere il regime delle preclusioni scaturenti dalle previste cause di decadenza e di prescrizione in materia di impugnativa del licenziamento per le ragioni sopra esposte.

Quindi, il primo motivo del ricorso è fondato e lo stesso merita di essere accolto.

Rimane, invece, assorbito l’esame del secondo motivo che verte sulla eccezione, avente carattere subordinato, della sopraggiunta acquiescenza del lavoratore agli effetti del licenziamento per il rinvenimento di altro impiego nelle more del giudizio.

La sentenza impugnata va, quindi, cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, col rigetto della domanda del T..

Infatti, quest’ultimo aveva impugnato solo in data 26.9.2003 il licenziamento intimatogli il 15.5.1997 all’esito della riattivazione, in data 13.2.1997, della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, per cui in ogni caso è dirimente la considerazione che alla data di proposizione dell’impugnazione era già maturato il termine di prescrizione quinquennale per l’esercizio della relativa azione decorrente dalla ricezione del provvedimento di licenziamento.

Motivi di equità dovuti al diverso esito dei giudizi di merito rispetto a quello attuale ed alla particolarità della questione trattata inducono questa Corte a ritenere interamente compensate tra le parti le spese dei primi due gradi di giudizio.

Le spese del presente giudizio seguono, invece, la soccombenza del controricorrente e vanno liquidate come da dispositivo a suo carico.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda del lavoratore. Compensa le spese dei giudizi di merito e condanna T.F. al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3500,00 per compensi professionali e di Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.