CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10346 del 19 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – RAPPORTO DI LAVORO – GIORNALISTA PROFESSIONISTA – DEQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE – DANNO NON PATRIMONIALE – RISARCIMENTO – ACCERTAMENTO
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 5922 del 22 giugno – cinque settembre 2012 (R.G. 10522/2006) la Corte di Appello di ROMA, in parziale accoglimento degli interposti gravami, principale ed incidentale, riformava per quanto di ragione la gravata pronuncia, emessa dal locale giudice del lavoro in data 23 novembre – 16 dicembre 2005, condannando la convenuta R., R.I., S.p.a. al pagamento, in favore dell’attore A.F., della somma di 8957,00 euro, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale (danno biologico), oltre accessori, respinte le altre domande risarcitorie dell’A. e condannando la R. al rimborso di un terzo delle spese di lite per entrambi i gradi del giudizio, compensate per il resto, fatta eccezione per quelle di c.t.u. definitivamente poste a carico e per intero della società.
Con la sentenza di primo grado, infatti, era stata ritenuta la dequalificazione professionale dedotta dal ricorrente, giornalista professionista con incarichi pure direttivi e manageriali, relativamente al periodo gennaio 2002 – settembre 2005 (allorché era stato collocato in pensione), con la condanna della convenuta R. al pagamento della somma di 263.115,00 euro a titolo di risarcimento del danno, quantificato in via equitativa in relazione ai 100% delle retribuzioni spettanti per i 54 mesi di demansionamento.
Avverso la sentenza di primo grado aveva proposto appello la R., contestando l’ari ed il quantum della riconosciuta pretesa risarcitoria.
A.F., nel resistere all’appello avversario aveva spiegato, a sua volta, appello incidentale, lamentando il rigetto delle domande relative all’invocato risarcimento del danno da trattamento ingiurioso, del danno all’immagine ed alla vita di relazione, nonché del danno alla salute ed a quello c.d. morale, in relazione ai quali aveva chiesto la condanna di parte datoriale al pagamento delle somme di 250.000,00 euro e di 300.000,00 euro (importo quest’ultimo riferito ai danni morale e alla salute).
La pronuncia della Corte romana, che aveva soltanto in parte accolto le domande dell’attore, veniva impugnata con ricorso per cassazione (parziale) dallo stesso A.F., come da atto notificato il 19-22 luglio 2013, finalizzato all’annullamento della impugnata pronuncia nella misura in cui aveva respinto tutte le altre azionate, con un solo motivo formulato ai sensi dell’art. 360 co. I nn. 3, 4 e 5 c.p.c.
Ma resistito la R. R.I. S.p.a., come da controricorso di cui alla relata di notifica in data 23-26 agosto 2013, chiedendo il rigetto dell’impugnazione avversaria, perché inammissibile e comunque infondata, con vittoria di spese.
Sono state depositate memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Per quanto nella specie qui ancora interessa, la Corte territoriale riteneva fondato il secondo motivo dell’appello principale R., per la parte relativa alla liquidazione del danno riconosciuto in primo grado, commisurato alle retribuzioni spettanti, richiamando il principio affermato dalle Sezioni unite civili di questa Corte con la sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006 [in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove].
La Corte capitolina osservava, in sintesi, che la gravata pronuncia di primo grado aveva concluso nel senso che <>. Tali argomentazioni, però, non erano corrette, né quindi condivisibili, alla luce dalla giurisprudenza di legittimità, in relazione alle allegazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio in ordine ai danni patrimoniali della lamentata dequalificazione> allegazioni ritenute in appello del tutta generiche, poiché riferibili ad un qualsiasi demansionamento ed in parte estranee alta professionalità del ricorrente, trattandosi di deduzioni che in realtà presupponevano il danno patrimoniale in re ipsa nella dequalificazione professionale, così prescindendo da qualsiasi specifico riferimento al caso concreto inerente all’A. (tenuto altresì conto dell’età di costui, prossimo al pensionamento per limiti anagrafici, collocamento in quiescenza poi avvenuto nel corso del giudizio, ciò che avrebbe comunque impedito la prosecuzione dell’attività lavorativa come dipendente della convenuta e qualsiasi sviluppo di carriera. Nulla, poi, era stato allegato dal ricorrente in ordine alla perdita di chances o di occasioni di lavoro presso altre aziende a causa della sua inoperosità durata poco più di due anni da gennaio 2002 ad aprile 2004…).
Anche con la successiva pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 26972/2008 era stata ribadita la necessità di distinguere tra danno evento e danno conseguenza, donde l’esigenza di specifiche allegazioni da parte attrice sulle conseguenze subite in concerto per effetto del demansionamento, attesa la pluralità delle conseguenze lesive ascrivibili ad un tale inadempimento.
Le anzidette generiche allegazioni di cui al ricorso introduttivo, inoltre, secondo la Corte distrettuale, non erano nemmeno apprezzabili come presunzioni, che devono essere serie, precise e concordanti, nonché fondarsi su specifici fatti noti, dai quali poter risalire a quelli ignoti.
Pertanto, l’impugnata pronuncia di primo grado andava riformata con il rigetto della domanda inerente al preteso danno patrimoniale, mentre etano stati già esclusi in prime cure quello alla salute nonché quello c.d. esistenziale (nell’accezione di danno all’immagine professionale, alla dignità personale ed alla vita di relazione, mancando la prova di nocumento ricollegato al peggioramento definitivo della qualità di vita con conseguente mutamento radicale delle abitudini, bensì solo una mortificazione della sua dignità transeunte e perciò perfettamente riconducibile a quella violazione della professionalità in senso ampio derivata dal demansionamento).
Tuttavia, in parziale contraddizione, secondo i giudici di appello, il Tribunale aveva riconosciuto il danno non patrimoniale (inteso complessivamente come danno all’immagine, alla vita di relazione, perdita di chances e all’integrità fisica), mentre la quantificazione operata con riferimento alle retribuzioni per il tempo della illegittima dequalificazione, peraltro unitariamente (sia con riferimento alla totale inattività che al parziale demansionamento), sembrava riguardare anche i pregiudizi non patrimoniali, pur avendo poi ancora ribadito che il ricorrente non aveva dimostrato la sussistenza di danni patrimoniali (lucro cessante da perdita delle retribuzioni) o non patrimoniali (danno biologico permanente o danno esistenziale), come tali suscettibili di autonoma valutazione economica, ma soltanto danni patrimoniali cc. dd. soggettivi, derivanti dall’impoverimento della capacità professionale acquisita e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità…
Secondo la Corte distrettuale, il tribunale aveva così operato una commissione tra le due categorie di danno, patrimoniale e non, mediante una non condivisibile valutazione equitativa unitaria sulla base di un criterio economico, come le retribuzioni percepite (laddove le Sez. un. della Cassazione con la pronuncia n. 26972/2008 avevano individuato la categoria unitaria del danno non patrimoniale esistenziale, morale biologico etc.). Anche tale valutazione non era corretta, poiché non fondata su elementi concreti attinenti al caso specifico, ma su considerazioni generali ed astratte.
D’altro canto, ad avviso della stessa Corte, era corretto il rilievo dell’appellante incidentale, che aveva eccepito l’erroneità della decisione di rigetto della domanda di risarcimento del danno biologico (cura per depressione da febbraio 2002 come da certificazione del settembre 2003). Pertanto, in relazione ad entrambi gli appelli andavano esaminate le domande di cui all’originario ricorso, inerente alle voci del c.d. danno non patrimoniale alla luce dei principi fissati dal Cass. sez. un. n. 26972/06 e dagli altri citati precedenti giurisprudenziali di legittimità, nonché alla stregua delle risultanze emerse dall’espletata c.t.u. medico-legale (secondo cui l’Alfa no era affetto da disturbo cronico dell’adattamento con ansia libera somatizzata con umore depresso, riconducibile alla vicenda lavorativa accertata, che configurava quelle situazioni di costruttività organizzativa di cui alla circolare INAIL n. 71/17-12-2003, che valuta l’origine dei disturbi psichici di origine professionale, da cui è derivato un nucleo psicopatologico che con eventuali attenuazioni potrà ancora permanere con carattere di sostanziale stabilità nel tempo, rappresentando elemento disfunzionale a carattere persistente, sicché il danno biologico poteva quantificarsi in misura pari al 5% (di lieve entità), ritenuta dunque congrua, mentre non c’era spazio per una liquidazione autonoma del danno morale ed esistenziale rispetto a quello biologico accertato). Di conseguenza, applicata pure la massima personalizzazione di cui alle note tabelle del Tribunale di Milano, con valori aggiornati all’anno 2011, ne derivava la suddetta liquidazione in ragione di complessivi 8957,00 euro, oltre accessori dal primo gennaio 2012.
Per contro, la pronuncia de qua richiamava abbondantemente giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento danni, e segnatamente i principi affermati al riguardo da questa Corte con la sentenza delle Sezioni unite civili n. 26972/11-11-2008 (il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. L’art. 2059 c.c., peraltro, non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c.. L’unica differenza tra il danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste nel fatto che quest’ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge.
Rv. 605492 – non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel “danno esistenziale” si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 cod. civ..
Rv. 605490 – quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato, spetta alla vittima il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, ivi compreso il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva causata dal reato. Tale pregiudizio può essere permanente o temporaneo, e può sussistere sia da solo, sia unitamente ad altri tipi di pregiudizi non patrimoniali: in quest’ultimo caso, però, di esso il giudice dovrà tenere conto nella personalizzazione del danno biologico o di quello causato dall’evento luttuoso, mentre non ne è consentita una autonoma liquidazione).
Passando, quindi, alla liquidazione del danno non patrimoniale, la corte distrettuale rilevava che nell’individuazione e nella misura percentuale d’invalidità di quello biologico, il c.t.u. aveva tenuto conto delle ripercussioni sulla vita familiare e sociale dell’A., che in effetti erano sintomatologie della stessa diagnosticata patologia, osservando altresì, in base alle citate acquisite testimonianze, che a seguito della mancata conferma dell’incarico di amministratore delegato della società controllata e delle difficoltà in azienda, il ricorrente era avvilito ed aveva iniziato a diradare la sua vita sociale, ciò dal 2002 e per almeno tre o quatto anni. Pertanto, visto che la ripercussione sulla vita di relazione dell’accertata malattia e la sofferenza soggettiva erano state considerate e ricomprese nella valutazione del c.t.u., circa la determinazione del danno biologico permanente, doveva ritenersi, conformemente ai richiamati e condivisi principi di diritto, che non c’era spazio per una liquidazione autonoma (ed ulteriore) del danno morale ed esistenziale, rispetto a quello biologico. Per di più, dalla espletata istruttoria non erano emersi neppure quella rilevante alterazione o quel cambiamento della personalità estrinsecatosi in uno sconvolgimento definitivo dell’esistenza, cioè in cambiamenti radicali di vita, richiesti dalla giurisprudenza per una particolare considerazione ed un’autonomia liquidazione del c.d. danno esistenziale.
Per contro, del tutto infondato veniva ritenuto il motivo di appello concernente il preteso risarcimento del danno da asserito trattamento ingiurioso, visto che il demansionamento era stato originato dalla perdita dell’incarico di amministratore delegato della società S. (controllata R.), a seguito della liquidazione della stessa, e non già da comportamenti denigratori ascrivibili alla R., tantomeno resi pubblici. Né dall’istruttoria espletata erano emersi giudizi di disvalore nei confronti dell’A.. Anzi un teste (nominativamente indicato) aveva confermato la perdurante stima e considerazione da parte dei vertici aziendali.
Orbene, con l’unico articolato motivo d’impugnazione il ricorrente ha dedotto violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103 e 1362 c.c., 132 c.p.c., 180 disp. att. c.p.c.- 112 c.p.c.- CNLG – , nonché per difetto di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia contraddittorietà, difetto di motivazione ed erronea interpretazione della sentenza di 1° grado allorché la Corte di Appello era pervenuta alla erronea conclusione, secondo cui il Tribunale avrebbe aderito all’orientamento minoritario in tema di danno in re ipsa da dequalificazione professionale, laddove il giudice di prime cure aveva fatto più volte riferimento ad elementi presuntivi.
Inoltre, la Corte, incorrendo in un vizio di difetto di motivazione, aveva omesso di considerare che il contenuto della memoria difensiva depositata dall’appellato A., laddove erano stati evidenziati specifici elementi presuntivi tali da dimostrare l’esistenza del danno professionale. Nessuna censura ha svolto l’A. per quanto concerne l’an ed il quantum del riconosciuto danno non patrimoniale (biologico, in ragione del 5%), né in relazione alla pretesa offensività – ingiuriosità del licenziamento. Né la R. ha impugnato la sentenza della Corte di Appello per la parte in cui le era stata sfavorevole.
Di conseguenza, la decisione di merito, in ordine al danno biologico ed in relazione alla esclusione dell’ingiuriosità del recesso, deve ormai considerarsi coperta dal giudicato.
Il ricorso è infondato, sicché va respinto.
Invero, la Corte di Appello aveva chiarito che rilevavano unicamente le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio, sicché non potevano assumere significativa importanza quelle successivamente svolte in sede di appello, ancorché per resistere alle avversarie censure.
Appare, quindi, inconferente il rinvio alle circostanze ed alle osservazioni svolte con la memoria difensiva per l’appello, tenuto conto di quanto sul punto precisato dalla Corte di merito.
Inoltre, il complesso della ratio decidendi, per come nel suo insieme ampiamente motivato, non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità, se non rivalutando in fatto gli elementi di cognizione apprezzati dal giudice di merito, ciò che però è senz’altro precluso a questa Corte (circa i limiti di indagine relativi alla ricostruzione delle risultanze istruttorie v. tra l’altro Cass. civ. sez. 6-5, n. 7921 del 06/04/2011, secondo cui con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione).
Dunque, vanno disattese tutte le censure di parte ricorrente attinenti agli apprezzamenti ed agli accertamenti operati dal giudice di merito con la sentenza, della quale invoca la cassazione, in quanto tendono a riproporre una nuova valutazione, effettivamente in punto di fatto, delle risultanze processuali, esaminate con motivazione completa ed esente da vizi logico-giuridici. Pertanto, sebbene sia stato accertato, oggettivamente, il dedotto demansionamento, peraltro nei limiti di cui si è detto, alla stregua di quanto a suo tempo allegato con il ricorso introduttivo del giudizio, la Corte di merito non ha rilevato la sussistenza di utili elementi da cui poter desumere l’effettività di altri pregiudizi risarcibili in favore di parte attrice.
In proposito non appaiono specificamente neanche confutati i passaggi dell’anzidetto percorso argomentativo, logico-giuridico, in base al quale è stata emessa la decisione qui impugnata.
Come visto, la Corte territoriale ha fatto uso di prudente apprezzamento discrezionale delle emergenze probatorie in atti, perciò insindacabile in sede di legittimità, alla stregua della formulazione dell’art. 360 co. I n. 5 c.p.c. (secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile, in relazione alla sentenza pubblicata, mediante deposito in cancelleria, il 5 settembre 2012), nei sensi già sopra indicati e per cui non rilevano le aspettative di parte ricorrente in ordine ad una diversa lettura delle risultanze istruttorie (v. Cass. I civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione, che giustifica la cassazione della sentenza, sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti.
Conforme Cass. lav. n. 3881 del 22/02/2006: il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’ “iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., laddove in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità. Conforme Cass. n. 3928/2000.
D’altro canto, secondo Cass. I civ. n. 25927 del 23/12/2015 ed altre di segno analogo, il ricorrente che denunci, quale vizio di motivazione, l’insufficiente giustificazione logica dell’apprezzamento dei fatti della controversia o delle prove, non può limitarsi prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur in possibile o probabile corrispondenza alla realtà fattuale, poiché è necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l’unica possibile. Conforme ex plurimis Cass. n. 261 del 2009).
In sintesi, dunque, la sentenza di appello, che correttamente faceva riferimento a quanto dedotto con il ricorso introduttivo del giudizio (atteso il divieto di novità in sede di gravame ex art. 437 c.p.c.), ha rilevato, con esauriente motivazione, incensurabile sotto il profilo logico-giuridico, l’assenza di puntuali e precise allegazioni, nonché di connessi elementi probatori, da cui poter desumere la sussistenza di altri nocumenti, all’infuori del già riconosciuto danno biologico, meritevoli di risarcimento.
Né d’altro canto nel caso è in esame è ipotizzabile, relativamente alla questione di risarcibilità del danno da demansionamento un’ipotesi di overruling.
Ed invero, affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di “prospettive overruling”, occorre che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo (oltre che il mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso, e che il suddetto “overruling” comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte. V. Cass. lav. n. 28967 del 27/12/2011, secondo la quale, di conseguenza, la prima e la terza condizione non ricorrevano nel caso di mutamento della giurisprudenza in ordine alle garanzie procedimentali di cui all’art. 7, secondo e terzo comma, della legge n. 300 del 1970, non equiparabili a regole processuali perché finalizzate non già all’esercizio di un diritto di azione o di difesa del datore di lavoro, ma alla possibilità di far valere all’interno del rapporto sostanziale una giusta causa o un giustificato motivo di recesso.
V. ancora Cass. civ. sez. 6-3, n. 6862 del 24/03/2014, secondo cui i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di “prospettive overruling”, non si applicano ad una scelta interpretativa di merito, necessariamente retroattiva, in ordine al contenuto di norme sostanziali.
Id. Sez. 6 – 1, n. 20172 del 03/09/2013, che non ravvisava nella specie esaminata alcuna ipotesi di “overruling” a tutela dell’affidamento incolpevole, trattandosi di mutamento di giurisprudenza riguardante norme di carattere sostanziale e non processuale.
In senso analogo Cass. lav. n. 5962 – 11/03/2013, secondo la quale affinché si possa parlare di “prospettive overruling” devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto “overruling” comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte. Di conseguenza, non sussistendo la prima e la terza condizione non ricorrevano nel caso di mutamento della giurisprudenza in ordine alle garanzie procedimentali di cui all’art. 7, secondo e terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 300, non equiparabili a regole processuali, perché finalizzate non già all’esercizio di un diritto di azione o di difesa del datore di lavoro, ma alla possibilità di far valere all’interno del rapporto sostanziale una giusta causa o un giustificato motivo di recesso).
Anche nel caso in esame, in relazione al principio affermato da Cass. sez. un. civ. n. 6572 del 24/03/2006 (secondo cui in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo), non è riscontrabile alcuna ipotesi di overruling, non solo in quanto veniva composto un contrasto di giurisprudenza sul punto, perciò sino ad allora da non consolidata, ma anche perché nel caso in esame non era e non è in discussione l’applicazione di alcuna norma di carattere processuale, per quanto concerne la disciplina codicistiva vigente in materia di risarcimento danni (v. tra l’altro Cass. lav. n. 19785 del 17/09/2010, secondo cui in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio – dall’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.
Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire i la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale).
Non sussiste, dunque, alcuna violazione o erronea applicazione degli artt. 2103, 1362, 132, 180 (?) e 112, citati dal ricorrente, né tanto meno del menzionato CNLG (quest’ultimo peraltro non meglio indicato ed in ogni caso neanche riprodotto).
Nemmeno, infine, è stato chiarito il riferimento all’art. 360 co. I n. 4 c.p.c. (nullità della sentenza o del procedimento), non riscontrandosi ad ogni modo alcun error in procedendo da parte della Corte territoriale, tale da poter inficiare l’iter processuale seguito e quindi anche la stessa validità della sentenza qui impugnata.
Pertanto, nei sensi di cui sopra il ricorso va respinto, con la condanna altresì del soccombente al rimborso delle relative spese. Sussistono, di conseguenza, anche i presupposti di legge per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle relative spese, che liquida, a favore della società controricorrente, in euro tremila/00 per competenze professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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