CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10507 depositata il 20 maggio 2016
FALLIMENTO SOCIETÀ E CONSORZI – SOCIETÀ CON SOCI A RESPONSABILITÀ ILLIMITATA – SOCIETÀ DI FATTO – ART. 147, COMMA 5, L.FALL. – APPLICAZIONE, IN VIA ESTENSIVA, ALLA SUPERSOCIETÀ DI FATTO TRA SOCIETÀ DI CAPITALI – POSSIBILITÀ – PROVA – OGGETTO – CONSEGUENZE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Caltanissetta ha respinto il reclamo proposto da MES s.r.l. e da M.R. avverso la sentenza del Tribunale di Gela che ha dichiarato il fallimento della societa’ di fatto da loro costituita con la gia’ fallita Messina s.r.l. e li ha conseguentemente dichiarati falliti, ai sensi dell’art. 147 L. Fall., quali soci illimitatamente responsabili di detta societa’.
La corte territoriale ha ritenuto, quanto alla MES, che fosse irrilevante l’assenza di una deliberazione assembleare autorizzativa della partecipazione della s.r.l. alla societa’ di fatto, atteso che l’art. 2631 c.c., cosi’ come l’art. 2479 c.c., sono norme dirette a tutelare i soci, e non i terzi, la cui violazione puo’ giustificare sul piano interno l’esercizio dell’azione di responsabilita’ nei confronti dell’amministratore, ma che non escludono che nei rapporti esterni la societa’ di fatto, che nasce, agisce e diventa titolare di diritti ed obblighi per effetto della condotta univocamente tenuta dai soci e dai soggetti cui e’ stata delegata la gestione, sia esistente. Ha inoltre escluso che la L. Fall., art. 147, comma 5 limiti il fallimento in estensione della societa’ di fatto all’ipotesi in cui il socio gia’ fallito sia un imprenditore individuale.
Nel merito ha ritenuto pienamente provata l’esistenza della s.d.f. fra i reclamanti e Messina s.r.l. nonche’ il suo stato di insolvenza.
La sentenza e’ stata impugnata da MES s.r.l. e da M.R. con ricorso per cassazione affidato a quattro motivi e illustrato da memoria.
Il Fallimento intimato non ha svolto attivita’ difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo i ricorrenti contestano che possa configurarsi la partecipazione di fatto di una societa’ di capitali ad una societa’ di persone.
Osservano al riguardo che l’art. 2361 c.c., comma 2 – nel prevedere che l’assunzione da parte della s.p.a. della partecipazione in altre imprese, comportante una responsabilita’ illimitata per le obbligazioni delle medesime, deve essere deliberata dall’assemblea e che di tale partecipazione gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa al bilancio – costituisce norma inderogabile, posta a tutela dei soci e dei creditori della s.p.a., che altrimenti vedrebbero la societa’ assumere, a loro insaputa, lo status di soggetto fallibile per obbligazioni altrui, pur in assenza di insolvenza, come avviene per il caso di fallimento in estensione.
Identica conclusione varrebbe, poi, anche per le s.r.l. (che, ai sensi dell’art. 111 duodecies disp. att. c.c. sono annoverate fra le persone giuridiche che possono partecipare a societa’ di persone), stante il disposto dell’art. 2479 c.c., comma 2, n. 5, che riserva alla competenza dei soci la decisione di compiere operazioni che comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale od una rilevante modificazione dei loro diritti.
2) Col secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione dell’art. 147, comma 5, L. Fall. che consente l’estensione del fallimento alla societa’ di fatto solo quando il socio gia’ fallito sia un imprenditore individuale e non anche quando sia una societa’ di capitali e che costituirebbe noma non suscettibile di interpretazione estensiva od analogica.
3) I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, devono essere respinti.
3.1) Questa Corte, con la recente sentenza n. 1095/016, ha gia’ affrontato, risolvendola in senso positivo, la questione dell’ammissibilita’ di una societa’ di fatto (occulta o comunque irregolare, ai sensi dell’art. 2297 c.c.) fra societa’ di capitali, allorche’ la partecipazione sia assunta dall’amministratore in mancanza della previa deliberazione assembleare e della successiva indicazione nella nota integrativa al bilancio, richieste dall’art. 2361 c.c., comma 2.
La pronuncia si fonda sostanzialmente sul rilievo che colui che entra in contatto con l’ente – societa’ deve poter confidare sulla spendita del nome dello stesso da parte di coloro che ne hanno la rappresentanza: agli amministratori e’ infatti conferito un potere di rappresentanza generale e le limitazioni ai loro poteri non sono opponibili ai terzi, ai sensi dell’art. 2384 c.c., anche se pubblicate, salvo che si provi che questi ultimi abbiano agito scientemente in danno della societa’. Cio’ vale anche nell’ipotesi di dissociazione del potere di rappresentanza dal potere gestorio: l’eventuale rilevanza esterna di tale dissociazione si porrebbe infatti in contrasto con le finalita’ perseguite dal legislatore della riforma del diritto societario – di incentivare il reperimento di capitale di rischio e di credito favorendo la tutela del mercato, la stabilita’ dell’agire sociale e la certezza dei traffici – in quanto minerebbe alla base ogni possibilita’ di garantire ai terzi la necessaria sicurezza in ordine alla validita’ degli atti compiuti dall’organo che ha formalmente la rappresentanza della societa’ (Cass. 18754/07).
Il rischio delle violazioni commesse dagli amministratori mediante il compimento di atti eccedenti i poteri loro conferiti e’ stato percio’ interamente trasferito sulla societa’, offrendo ai terzi la sicurezza che essa fara’ fronte in ogni caso agli atti posti in essere, in suo nome e per suo conto, dall’organo gestorio.
Non puo’ in conseguenza ammettersi che la societa’ di capitali, la quale abbia svolto attivita’ di impresa operando in societa’ di fatto con altri, possa in seguito sottrarsi alle eventuali conseguenze negative derivanti dal suo agire (ivi compreso il fallimento per ripercussione nel caso in cui sia accertata l’insolvenza della societa’ di fatto) proprio in forza di una violazione di legge perpetrata dai suoi amministratori.
In definitiva, secondo Cass. n. 1095/016, la partecipazione acquisita dall’amministratore senza osservanza dei requisiti legali prescritti e’ pienamente valida: l’inadempimento dell’organo gestorio avrebbe rilevanza meramente interna, giustificando l’adozione dei rimedi rispetto ad esso predisposti (azione sociale di responsabilita’,revoca, denuncia al tribunale), ma non varrebbe a determinare la nullita’ dell’acquisto compiuto o l’inefficacia dell’attivita’ imprenditoriale di fatto svolta.
3.2) In questa sede non appare necessario richiamare ulteriormente l’amplissima motivazione che sorregge la decisione.
Cio’ che preme, piuttosto, sottolineare e’ che, quand’anche si volesse aderire all’opposta opinione dottrinaria e giurisprudenziale, secondo cui il mancato rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 2361 c.c., comma 2, comporta l’invalidita’ o l’inefficacia dell’assunzione della partecipazione o del vincolo associativo, il fenomeno non resterebbe irrilevante per l’ordinamento, in quanto non varrebbe a determinare la caducazione retroattiva dell’esistenza dell’ente, attesa la disciplina peculiare del contratto di societa’, espressa dall’art. 2332 c.c., ritenuto applicabile anche alle societa’ di persone.
Questa Corte ha infatti ripetutamente affermato che la declaratoria di nullita’ del contratto costitutivo di una societa’ di persone e’ equiparabile, “quoad effectum”, allo scioglimento della stessa (Cass. nn. 9124/015, 3166/99, 565/95): trattandosi di un ente collettivo, per il quale vale il principio di effettivita’ dell’attivita’ di impresa svolta, ed il cui agire esula dall’orbita meramente negoziale ed assume una sua autonoma rilevanza, la patologia insanabile che affligge la societa’ si converte in causa di scioglimento, con conseguente necessita’ di nomina dei liquidatori, ai sensi dell’art. 2332 c.c., comma 4.
La societa’ di fatto nulla continua dunque ad esistere sino alla definizione dei rapporti giuridici pendenti, con la conseguenza che rimangono fermi i diritti acquisiti nei suoi confronti dai terzi creditori di buona fede e, soprattutto, che rimane ferma la sua soggezione al fallimento in caso che ne venga accertata l’insolvenza.
3.3) Puo’ aggiungersi, infine, con esclusivo riferimento alle s.r.l., che l’art. 111 duodecies disp. att. c.c. – che detta prescrizioni in tema di bilancio delle societa’ in nome collettivo e in accomandita per azioni i cui soci illimitatamente responsabili siano unicamente societa’ di capitali – si limita ad annoverare le s.r.l. fra le societa’ che possono assumere partecipazioni in societa’ di persone.
Il riferimento contenuto nella norma all’art. 2361 c.c., comma 2, vale ad individuare la fattispecie (partecipazione in impresa comportante l’assunzione della responsabilita’ illimitata) da cui deriva l’obbligo di redazione del bilancio secondo la disciplina richiamata, ma non estende le prescrizioni formali di cui all’art. 2361 cit. alle s.r.l..
Va escluso, poi, che la partecipazione della s.r.l. ad una societa’ di persone rientri nelle operazioni comportanti “una rilevante modificazione dei diritti dei soci che, ai sensi dell’art. 2479 c.c., comma 2, n. 5, sono riservate alla competenza dell’assemblea: la modifica derivante dall’acquisto della partecipazione consiste infatti nell’assunzione da parte della s.r.l. della responsabilita’ illimitata per le obbligazioni della partecipata, mentre non muta la posizione dei soci, che continuano ad essere vincolati nei limiti del conferimento.
L’operazione di acquisto potrebbe piuttosto rientrare fra quelle, sempre riservate alla competenza dell’assemblea dei soci, che comportano “una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo”, ma in questo caso occorrerebbe accertare che la partecipazione in una societa’ personale sia cosi eterogenea rispetto ai fini sociali da modificare in concreto l’oggetto.
Al di la’ di tale ipotesi, nella specie non dedotta dai ricorrenti, l’acquisto resta dunque un atto gestorio riservato agli amministratori, efficace sino al limite dell’agire intenzionale dannoso dei terzi, di cui all’art. 2475-ter c.c..
Va, in conclusione, ribadito che, accertata l’esistenza di una societa’ di fatto insolvente della quale uno o piu’ soci illimitatamente responsabili siano costituiti da societa’ di capitali, il fallimento di queste ultime costituisce una conseguenza “ex lege” prevista dalla L. Fall., art. 147, comma 1, senza necessita’ dell’accertamento della loro specifica insolvenza (Cass. n. 1095/016 cit.).
3.4) Quanto alla questione sollevata col secondo motivo, appare opportuno premettere che, nell’ipotesi contemplata dalla L. Fall., art. 147, comma 5, l’indagine del giudice deve essere indirizzata all’accertamento sia dell’esistenza di una societa’ occulta (o di fatto) cui sia riferibile l’attivita’ dell’imprenditore gia’ dichiarato fallito, sia della sua insolvenza, posto che il fallimento di tale societa’ costituisce presupposto logico e giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci illimitatamente responsabili. Va escluso, in sostanza, che il fallimento di questi ultimi possa essere dichiarato in forza di un accertamento meramente incidentale della ricorrenza fra gli stessi e il fallito di una c.d. supersocieta’ di fatto, non solo perche’ la sentenza dichiarativa ha natura costitutiva ed efficacia ex nunc (onde non si vede come il fallimento dei soci possa conseguire ad una dichiarazione di fallimento meramente virtuale, od implicita, della societa’) ma anche perche’ all’insolvenza del socio gia’ dichiarato fallito potrebbe non corrispondere l’insolvenza della s.d.f. (cui gli altri soci potrebbero, in tesi, conferire le liquidita’ necessarie al pagamento dei debiti). 3.4) La censura offre anche lo spunto per alcune precisazioni, che si rendono necessarie onde evitare il rischio che l’art. 147, comma 5 L. Fall. venga utilizzato. per aggirare le disposizioni dettate dall’art. 2476 c.c., comma 7 e art. 2497 c.c. ed evitare l’esercizio di un’azione di responsabilita’ dai profili assai piu’ complessi e dagli esiti incerti.
Come e’ stato correttamente rilevato in dottrina, la norma non si presta, infatti, all’estensione al dominus (societa’ o persona fisica) dell’insolvenza del gruppo di societa’ organizzate verticalmente e da questi utilizzate in via strumentale, ma piuttosto all’estensione ad un gruppo orizzontale di societa’, non soggetto ad attivita’ di direzione e coordinamento, che partecipano, eventualmente anche insieme a persone fisiche, e controllano una societa’ di persone (la c.d. supersocieta’ di fatto). La prova della sussistenza di tale societa’ deve poi essere fornita in via rigorosa, in primo luogo attraverso la dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci.
Il fatto che le singole societa’ perseguano invece l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce, piuttosto, prova contraria all’esistenza della supersocieta’ di fatto e, viceversa, prova a favore dell’esistenza di una holding di fatto, nei cui confronti il curatore potra’ eventualmente agire in responsabilita’ e che potra’ eventualmente essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di un creditore.
3.5) Cio’ precisato, il collegio condivide l’orientamento, maggioritario in dottrina, secondo cui un’interpretazione dell’art. 147, comma 5 L. Fall., che conducesse all’affermazione dell’applicabilita’ della norma al solo caso (di fallimento dell’imprenditore individuale) in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.: invero, una volta ammessa la configurabilita’ di una societa’ di fatto partecipata da societa’ di capitali e la conseguente sua fallibilita’ ai sensi della L. Fall., art. 147, comma 1, non v’e’ alcuna ragione che, nell’ipotesi disciplinata dal ridetto 5 comma – in cui l’esistenza della societa’ emerga in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno solo dei soci – possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilita’ a seconda che il socio gia’ fallito sia un imprenditore individuale o collettivo.
Non puo’ infatti concepirsi diversita’ di trattamento fra due fattispecie che presentano identita’ di ratio.
Va escluso, d’altro canto, che il carattere eccezionale della disposizione (che, secondo quanto si legge nella relazione ministeriale di accompagnamento al D.Lgs. di riforma della legge fallimentare, ha recepito l’orientamento giurisprudenziale in tema di fallibilita’ della c.d. societa’ occulta) ne impedisca un’applicazione piu’ ampia di quella consentita dalla sua formulazione letterale: e’ stato infatti correttamente rilevato che il divieto di applicazione analogica delle leggi eccezionali, sancito dall’art. 14 preleggi, non comporta anche il divieto di una loro interpretazione estensiva, volta ad individuare tutte le ipotesi in esse disciplinate e che ne sono fuori solo in apparenza, perche’ non esplicitamente menzionate.
Va allora considerato che, anteriormente all’entrata in vigore, nel 2003, del D.Lgs. di riforma del diritto societario, la giurisprudenza negava la possibilita’ della partecipazione di societa’ di capitali in societa’ di persone (per tutte: Cass. n. 5636/88) e che il dibattito intorno alla configurabilita’ di una societa’ di fatto o occulta fra societa’ di capitali, ed alla conseguente fallibilita’ di queste ultime quali soci illimitatamente responsabili, si e’ sviluppato solo dopo la riforma della legge fallimentare: appare dunque evidente che il legislatore della riforma ha codificato l’orientamento giurisprudenziale che ammetteva il fallimento delle societa’ occulte tenendo conto che esso si era formato sul presupposto (dato per scontato) che le societa’ in questione potessero essere costituite solo fra persone fisiche.
Tali considerazioni appaiono sufficienti ad attribuire al riferimento all’imprenditore individuale contenuto nella L. Fall., art. 147, comma 5 valenza meramente indicativa dello “stato dell’arte” dell’epoca in cui la norma e’ stata concepita, che non puo’ essere di ostacolo ad una sua interpretazione estensiva che, tenuto conto del mutato contesto nel quale essa deve attualmente trovare applicazione, ne adegui la portata in senso evolutivo, includendovi fattispecie non ancora prospettabili alla data della sua emanazione.
Cio’ che, del resto, trova indiretta conferma nell’ordinanza n. 15/016 della Code Costituzionale che, nel dichiarare inammissibile la q.l.c. dell’art. 147, comma 5, ha fra l’altro evidenziato come i giudici rimettenti abbiano omesso di verificare previamente la possibilita’ di un’interpretazione costituzionalmente adeguata della disposizione censurata.
4) Con il terzo motivo i ricorrenti, lamentando violazione dell’art. 2697 c.c., sostengono che le circostanze di fatto sulle quali la corte del merito ha fondato il proprio convincimento risulterebbero indicative non gia’ dell’affectio societatis, ma dell’affectio familiaris di M.R. nei confronti della madre e della moglie (amministratrici uniche, rispettivamente, di Messina s.r.l. e di MES s.r.l.), che l’avrebbero indotto a svolgere attivita’ esecutive per conto delle due societa’, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro.
Il motivo, che sembra contestare il solo accertamento concernente la qualita’ del M. di socio della s.d.f., e’ inammissibile, in quanto si limita ad affermare l’errata valutazione da parte della corte del merito del complesso degli elementi probatori acquisiti, senza pero’ specificare quali di essi siano stati in concreto travisati, ne’ indicare le ragioni che avrebbero dovuto condurre ad una loro diversa interpretazione.
5) Parimenti inammissibile, infine, e’ l’ultimo motivo del ricorso, con il quale si contesta che il curatore abbia fornito la prova dell’insolvenza della MES e di M.R..
Come gia’ rilevato dalla corte territoriale i ricorrenti sono infatti privi di interesse al predetto accertamento, atteso che il loro fallimento e’ stato dichiarato per ripercussione del fallimento della societa’ di fatto da essi costituita con Messina s.r.l., di cui sono soci illimitatamente responsabili e della quale non pongono in dubbio l’insolvenza.
Il ricorso va, in conclusione, interamente rigettato.
Non v’e’ luogo alla liquidazione delle spese in favore del fallimento intimato, che non ha svolto attivita’ difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
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