CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10541 del 20 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – CONTRATTO DI CESSIONE DI RAMO D’AZIENDA – TRASFERIMENTO DEI LAVORATORI – AUTONOMIA FUNZIONALE DEL RAMO CEDUTO
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano, con la sentenza n. 935 del 2013, confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva rigettato la domanda proposta da C.P. ed altri litisconosrti, per ottenere la dichiarazione d’illegittimità, nullità e/o inefficacia nei loro confronti del contratto di cessione di ramo d’azienda intervenuto tra V.O. N.V. e C.C. s.p.a., già C.C. s.r.l., e, per l’effetto, la permanenza dei rapporti di lavoro subordinato tra i lavoratori e la società V.O., con le conseguenze di ordine ripristinatorio e risarcitorio.
La Corte premetteva che con il suddetto contratto di cessione di ramo d’azienda del 5 novembre 2007, all’esito della procedura di cui all’articolo 47 della legge numero 428 del 1990, V.O. NV cedeva a C.C. s.p.a. i servizi di back office consumer, back office corporate e gestione credito, con il relativo personale presso le sedi di Milano, Ivrea, Padova, Roma e Napoli. In pari data le due società sottoscrivevano un contratto d’appalto dei suddetti servizi dalla prima alla seconda società.
Disattese le argomentazioni con le quali i ricorrenti sostenevano l’intento discriminatorio della cessione, argomentava che il ramo d’ azienda ceduto, in conformità con l’articolo 2112 c.c. e con la direttiva 98/50 ce, trasfusa, con la precedente 77/187, nella Direttiva 2001/23 e con la giurisprudenza della Corte di giustizia, aveva una stabile autonomia funzionale ed organizzativa. Infatti, erano stati ceduti i contratti inerenti il ramo, con la sola esclusione delle locazioni delle sedi di Milano, Roma ed Ivrea, i beni materiali e immateriali necessari per svolgere tale attività e le relative passività; inoltre, era stato trasferito tutto il personale adibito alle attività cedute, ad eccezione di alcuni responsabili rimasti in V. che svolgevano però attività di direzione su reparti più ampi del back office della clientela. Né avevano pregio le considerazioni relative all’utilizzo da parte dei lavoratori del ramo ceduto dei programmi di proprietà V. e delle interconnessioni con personale V., considerato che il servizio back office necessita di informazioni e documenti relativi alla posizione dei clienti del gestore telefonico, imponendo tuttavia la riservatezza dei dati sensibili che deve essere protetta; perciò, necessariamente la cessionaria deve poter accedere ed utilizzare la piattaforma informatica di V., la quale da parte sua deve poter verificare chi accede. Inoltre, i dipendenti trasferiti avevano piena autonomia operativa, essendo limitata a casi eccezionali o alle informazioni su nuovi processi l’ipotesi in cui dovessero contattare gli uffici rimasti alla cedente. Osservava che l’utilizzo da parte dei lavoratori del ramo ceduto dei programmi di proprietà della cedente e le interconnessioni con personale di quest’ultima non contraddicono comunque il concetto di autonomia funzionale, inteso in termini di capacità di produrre un determinato servizio, e ciò nonostante il fatto che per ottenere il medesimo siano necessari coordinamenti e appunto interconnessioni: I’ art. 2112 VI c. legittima del resto il contratto di appalto di servizi relativi al ramo ceduto.
Per la cassazione della sentenza P.C., A.R., F.M., B.C.R., E.S.B., B.G. hanno proposto ricorso, affidato a due motivi, cui hanno resistito con controricorso V.O. BV e C. s.p.a.. I ricorrenti e C. s.p.a. hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. I motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1.1. Con il primo, a sostegno dell’inesistenza di una cessione di ramo d’azienda, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’articolo 2112 c.c. in rapporto all’articolo 29 terzo comma del decreto legislativo 276 del 2003 e all’articolo 1363 c.c., contestuale omesso esame di un punto devoluto e conseguente nullità del procedimento e della sentenza. Ribadiscono che oggetto della cessione ex 2112 c.c. dev’ essere un’attività economica organizzata che si contraddistingue per essere funzionalmente autonoma ed identificabile come tale. La Corte territoriale avrebbe dovuto dunque esaminare il contratto di cessione nella sua interezza, comprensivo di tutte le sue parti compresi gli allegati.
Riferisce che dall’esame dei documenti – dei quali i ricorrenti avevano chiesto l’acquisizione in primo grado che avevano prodotto in grado d’appello – emergeva come la cessione d’azienda in realtà si traduceva in un contratto d’appalto, in cui il preteso acquirente era in realtà un appaltatore di servizi relativi a beni immateriali.
1.2. Come secondo motivo, deducono omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti e nullità della sentenza e del procedimento, per non avere la Corte esaminato l’allegato E al contratto – di cui i ricorrenti avevano chiesto l’acquisizione nel corso del giudizio di primo grado e che avevano provveduto a depositare in appello – che avrebbe dimostrato come si era realizzata in effetti l’esternalizzazione di un servizio, con la specificazione che a pagare era I’ appaltante all’appaltatore, con un volume di minimo garantito, canoni mensili di corrispettivo, subentri e analitiche penali.
3. V.O. BV ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per la genericità dei motivi, che accorperebbero al loro interno una pluralità di censure e richiederebbero in sostanza una rivisitazione dell’accerta mento fattuale compiuto dal giudice di merito.
3.1. Il rilievo non può essere condiviso: l’inammissibilità di cui si discute non può infatti sussistere allorquando, com’è nel caso, il ricorso per cassazione, pur presentando congiuntamente in rubrica diversi profili di censura o formulando una titolazione del motivo che non sia esauriente, esibisca sufficiente specificità, cioè la caratteristica che principalmente contraddistingue l’impugnazione in sede di legittimità. Pertanto, se il motivo di ricorso evidenzi i profili attinenti la ricostruzione del fatto e passi con distinte argomentazioni alla trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o alla applicazione delle norme appropriate alla fattispecie (com’è nel caso, ove l’attribuito vizio di motivazione trasmoda in vizio di sussunzione della fattispecie alla norma), non v’è ragione per rilevare vizi del ricorso stesso, dovendosi privilegiare la finalità di consentire al collegio giudicante di cogliere l’impianto della censura (così Cass. n. 9793 del 23/04/2013).
4. C. s.p.a. ha eccepito poi l’inammissibilità del motivo formulato ex art. 360 n. 5, per la preclusione introdotta dal quinto comma dell‘art. 348 ter cod. proc. civ., per il caso in cui la sentenza d’appello abbia confermato la ricostruzione fattuale operata dal primo Giudice.
4.1. L’eccezione non è fondata: la previsione richiamata, introdotta dall’art. 54 comma 1 lett. a) del D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif, nella L. n. 134 dello stesso anno, è infatti applicabile, a norma dell’art. 54 comma 2 del medesimo decreto, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione a far data dal 11 settembre 2012, come chiarito da Cass. n. 26860 del 18/12/2014 e Cass. ord., 24909 del 09/12/2015), mentre nel caso il giudizio di secondo grado è stato introdotto nel 2010.
4.2. Al presente giudizio, in cui la sentenza d’appello è stata depositata in data 5.11.2013, si applica invece ratione temporis la formulazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introdotta dall’art. 54 del citato D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che ha ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 2014, secondo il quale la lacunosità e la contraddittorietà della motivazione possono essere censurate solo quando il vizio sia talmente grave da ridondare in una sostanziale omissione, né può fondare il motivo in questione l’omesso esame di una risultanza probatoria, quando essa attenga ad una circostanza che è stata comunque valutata dal giudice del merito.
5. I due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono fondati nel senso che viene di seguito illustrato, pur dovendosi premettere che il controllo sulla motivazione dev’essere contenuto nei limiti sopra indicati al punto 4.2. e che risulta inammissibile la doglianza avente ad oggetto il mancato esame dell’allegato E al contratto di cessione, considerato che la Corte d’appello in motivazione ha rilevato la tardività della relativa richiesta istruttoria, e tale rilievo non è stato fatto oggetto di specifica censura sotto il profilo del vizio ex art. 360 n. 4 c.p.c.
6. Al fine di individuare quando ricorra la fattispecie della cessione di ramo d’azienda, secondo la Direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha sostituito la direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE, “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23). La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario, ha ripetutamente individuato tale nozione come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C- 13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C-340/2001; Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C-232/04 e C-233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal, C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, punti 51 e 60).
Tale, interpretazione è stata confermata nella recente sentenza 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., in cui la Corte UE – in particolare ai punti 30 e 32 – ha richiamato la propria precedente giurisprudenza, ed ha anzi precisato (pt. 34) che l’impiego del termine «conservi» nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva «implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”, per concludere al pt. 35 che «..qualora risultasse … che l’entità trasferita di cui trattasi non disponeva, anteriormente al trasferimento, di un’autonomia funzionale sufficiente – circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare – tale trasferimento non ricadrebbe sotto la direttiva 2001/23».
In tale sentenza la Corte di Giustizia ha anche evidenziato, in specie al punto 51, che l’obiettivo della Direttiva è di garantire, per quanto possibile, il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo loro di rimanere al servizio del nuovo imprenditore alle stesse condizioni pattuite con il cedente: ha così ritenuto coerente con tale finalità l’allargamento da parte della legge nazionale dell’ambito della protezione del lavoratore ceduto ad ipotesi ulteriori rispetto a quelle di cessione di ramo d’azienda così come sopra individuata, e ciò prescindendo dall’indagine in ordine alla genuinità della cessione ad altri fini, eventualmente concorrenti, di tutela.
6.1. La normativa nazionale non è stata tuttavia rimodellata con il fine di allargare l’ambito della fattispecie astratta della cessione di ramo d’azienda rispetto alla nozione adottata in sede comunitaria, considerato che il legislatore al contrario ha manifestato l’esplicita volontà di adeguarvisi. La legge n. 30 del 2003 all’art. 1, comma 2 lettera p) ha infatti delegato il governo a rivedere il D.lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, (che aveva già modificato l’art. 2112 c.c.), al fine dichiarato di realizzare un “completo adeguamento della disciplina vigente alla normativa comunitaria”, costituita dalla richiamata direttiva 2001/23/CE del Consiglio del 12 marzo 2001, già recepita dalla L. 1 marzo 2002, n. 39, richiedendo poi in particolare al punto 2) la previsione del requisito dell’ “autonomia funzionale del ramo di azienda nel momento del suo trasferimento”.
All’esito dell’esercizio della delega, l’art. 2112 c.c., nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32 applicabile ratione temporis alla presente controversia, ha mantenuto immutata la definizione di “trasferimento di parte dell’azienda” nella parte in cui essa è “intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”, mentre le modifiche normative hanno riguardato la soppressione dell’inciso “preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità” e l’aggiunta testuale “identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”, che richiede che al momento della cessione venga individuato l’ambito dell’ autonomia funzionale del complesso ceduto. Ha altresì introdotto al VI comma un regime di solidarietà tra appaltante ed appaltatore per il caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione.
6.2. L’ intervento normativo del 2003 ha quindi ribadito e sottolineato che costituisce elemento costitutivo della fattispecie della cessione d’azienda I’ autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali ed organizzativi (così come chiarito in più occasioni da questa Corte, v. Cass. n. 5425 del 2015, n. 25229 del 2015, n. 8759 del 2014, n. 2766 del 2013, n. 22613 del 2013, n. 21711 del 2012). Il fatto che la nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario di identificare l’articolazione che ne costituisce l’oggetto non significa che sia consentito di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell’azienda ceduta come ramo, così facendo dipendere dall’autonomia privata l’applicazione della speciale disciplina in questione, ma che all’esito della possibile frammentazione di un processo produttivo prima unitario, debbano essere definiti i contenuti e l’insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo, che realizzino nel loro insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e funzionale apprezzabile da un punto di vista oggettivo. Il requisito della preesistenza del ramo e dell’autonomia funzionale nella previsione si integrano quindi reciprocamente, nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente alla cessione. La disposizione legittima quindi anche la cessione di un ramo “dematerializzato” o “leggero” dell’impresa, ovvero nel quale il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, quando però il gruppo di lavoratori trasferiti sia dotato di un particolare know how, e cioè di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio (Cass. n. 21917/2013 e 15690/2009).
6.3. Tale requisito, letto conformemente alla disciplina dell’Unione, consente di limitare le ipotesi di deroga al principio generale stabilito dall’art. 1406 c.c., secondo il quale la cessione del contratto richiede il consenso della parte ceduta, scongiurando operazioni di trasferimento che si traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto dev’essere dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla struttura cedente dal quale viene estrapolato (in tal senso in particolare v. Cass. n. 5425 del 2015, n. 25229 del 2015, citate) ed essere in grado di offrire sul mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico servizio per il quale è organizzato.
6.4. L’analisi non deve quindi basarsi sull’ organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi o successivi contratti di appalto, ma all’organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto. Il sistema normativo è infatti ben chiaro nel distinguere I’ appalto (anche di servizi) dalla cessione di ramo d’azienda. L’attuale VI comma dell’art. 2112 c.c., valorizzato dalla Corte territoriale ed anche dalla parte ricorrente, ha introdotto un regime di solidarietà tra appaltante ed appaltatore (quello di cui all’art. 29 comma 2 del D.lgs. n. 276 del 2003, in virtù della modifica apportata dall’art. 9, comma 1, D.Lgs. 6 ottobre 2004, n. 251) per il caso in cui il cedente stipuli con il cessionario un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, così manifestando come la consistenza del ramo d’azienda utilizzato e il contratto di appalto del servizio ceduto restino su due piani distinti. Il comma 3 del citato art. 29, poi, chiarisce che l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda, in tal modo nettamente chiarendo che, anche quando il cedente stipuli con il cessionario un contratto d’appalto per la fornitura del servizio ceduto, si può configurare una cessione di ramo d’azienda (solo) quando al trasferimento del personale si accompagni quella del complesso degli altri elementi che lo rendeva autonomamente idoneo allo svolgimento del servizio.
6.5. Dal punto di vista processuale, poi, occorre rilevare che incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall’art. 2112 c.c. che costituiscono eccezione al principio del necessario consenso del contraente ceduto stabilito dall’art. 1406 c.c., fornire la prova dell’esistenza di tutti i requisiti che ne condizionano l’operatività: grava, cioè, sulla società cedente l’onere di allegare e provare l’insieme dei fatti concretanti un trasferimento di ramo d’azienda (Cass. n. 4500 del 8.3.2016 e Cass. n. 206 del 2004).
6.6. Il principio di diritto che regola la fattispecie è dunque il seguente: “Costituisce elemento costitutivo della cessione di ramo d’azienda prevista dall’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, I’ autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione, indipendentemente dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti. Incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall’art. 2112 c.c. che costituiscono eccezione al principio del necessario consenso del contraente ceduto stabilito dall’art. 1406 c.c., fornire la prova dell’esistenza di tutti i requisiti che ne condizionano l’operatività”.
7. Ciò posto, occorre rilevare che la Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione di tale principio.
In particolare, laddove ha descritto quale fosse la dotazione del complesso ceduto, ha indicato “i contratti inerenti il ramo – con la sola esclusione delle locazioni delle sedi di Milano, Roma e Ivrea – come pure i beni materiali e immateriali necessari per svolgere tali attività, nonché tutto il personale adibito alle attività cedute alla cessionaria” (ad eccezione di due responsabili). Al fine poi di disattendere il motivo d’appello che valorizzava l’utilizzo da parte dei lavoratori del ramo ceduto dei programmi di proprietà della cedente e delle interconnessioni con il personale di, quest’ultima, ha argomentato che tali aspetti “non contraddicono il concetto di autonomia funzionale, inteso in termini di capacità di produrre un determinato servizio, e ciò nonostante il fatto che per ottenere il medesimo siano necessari coordinamenti e appunto interconnessioni”.
In tal modo, la Corte territoriale non ha però risposto al quesito che la stessa aveva ritenuto necessario risolvere per qualificare il contratto intercorso tra V. e C. come cessione di ramo d’azienda, non risultando da quali elementi risulterebbe l’autonomia funzionale del ramo ceduto, e quindi la capacità di esso, indipendentemente dal coevo contratto di appalto, di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui risultava finalizzato al momento della cessione. Allo scopo non era infatti sufficiente che i beni materiali e immateriali ceduti fossero “necessari” per lo svolgimento delle attività inerenti il ramo, in quanto la Corte non ha esaminato se essi fossero anche sufficienti, né ha argomentato specificamente in ordine al rilievo, formulato dalla parte appellante e riferito dalla stessa Corte, che fra i contratti ceduti non risultasse quello dell’immobile in cui i lavoravano a Milano, né fossero stati ceduti gli arredi ed i sistemi operativi già utilizzati presso tale sede, né le infrastrutture tecnologiche necessarie per l’attività, hub e router, né il personale fosse dotato di particolare know how o di specifica elevata professionalità.
Non poteva del resto essere sufficiente l’autonomia organizzativa e funzionale assunta della cessionaria nello svolgimento dell’attività, non risultando chiarito quanto di tale autonomia derivasse dalle sole potenzialità del complesso ceduto e quanto invece fosse frutto delle integrazioni strutturali e organizzative adottate da C. e di quelle fornite in virtù del contratto d’appalto.
7. Segue la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che dovrà rinnovare l’esame in applicazione dei principi sopra indicati.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.
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