CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10732 del 24 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO A TEMPO PARZIALE – DATORE DI LAVORO PUBBLICO – LICENZIAMENTO – SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO – ACCERTAMENTO – ONERE DELLA PROVA
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza del 18 luglio 2013 la Corte di Appello di Catanzaro, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato il 29 febbraio 2008 dalla Camera di Commercio Industria e Artigianato (…) nei confronti di (…) per superamento del periodo di comporto.
La Corte territoriale ha innanzitutto considerato che, essendo il rapporto di lavoro a tempo parziale per 18 ore settimanali, pari al 50% delle ore lavorative ordinarie previsto dal CCNL applicabile, il periodo di comporto fissato in 18 mesi di assenze per malattia in un arco triennale doveva essere ridotto, in ragione del principio del riproporzionamento stabilito dalla giurisprudenza di legittimità, a 9 mesi, pari a 273 giorni.
Ha poi affermato che il primo giudice aveva errato a ritenere che non vi fosse stata contestazione dell’avvenuto superamento di detto limite nell’atto introduttivo del giudizio e che l’onere di provare tale superamento gravava sul datore di lavoro.
Infine la Corte, esaminando la documentazione acquisita al giudizio, ha ritenuto che non fosse stata fornita dalla Camera di Commercio la prova del superamento del limite di 273 giorni nel triennio dal 29 febbraio 2005 al 29 febbraio 2008.
2. – Per la cassazione di tale sentenza la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura (…) ha proposto ricorso affidato a tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. (…) ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
3. – I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:
“erroneità ed ingiustizia della decisione d’appello, in relazione all’art. 360 n. 4) c.p.c. per avere la Corte di Appello di Catanzaro, sezione lavoro, accolto l’appello nonostante la mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui avrebbe dovuto fondarsi il ricorso e per mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato” (primo motivo);
“erroneità ed ingiustizia della decisione d’appello, in relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c. per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”(secondo motivo);
“erroneità ed ingiustizia della decisione d’appello, in relazione all’art. 360 n. 5) c.p.c. per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; si sostiene che, poiché i giorni di malattia erano stati riportati nell’atto pubblico di risoluzione del contratto, assistito da fede privilegiata, “l’onere della prova spettava al lavoratore, non certo al datore di lavoro pubblico” (terzo motivo).
4. – Il ricorso non può trovare accoglimento.
Con il primo mezzo di gravame la Camera di Commercio lamenta che l’impugnata sentenza non avrebbe “recepito” le istanze della difesa “volte a far comprendere la “nullità” del ricorso al Giudice del Lavoro, attesa l’evidente genericità della domanda, nonché l’assenza di adeguate prove a riscontro delle domande rassegnate”. Inoltre si sostiene che il lavoratore avrebbe sempre fatto riferimento al “diritto al mantenimento del posto per 18 mesi” per cui la Corte di Appello avrebbe violato il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato delibando la questione con riferimento ai 9 mesi derivanti dal rapporto di lavoro pari time intrattenuto dal (…). Evidentemente si fanno così valere pretese violazioni nell’attività processuale, che dovrebbero determinare la nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c.
Tuttavia anche in questi casi di errores in procedendo, pur divenendo questa Corte giudice del fatto processuale, è comunque necessario che la censura sia proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito e quindi, in particolare, delle prescrizioni dettate dall’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c. (Cass., SS.UU., n. 8077 del 2012).
Si è cosi ribadito che pure in tali casi si prospetta preliminare ad ogni questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di detta valutazione la S.C. può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (cfr. Cass. n. 18 del 2015; Cass. n. 18037 del 2014 con la giurisprudenza ivi richiamata). Pertanto la parte, nel rispetto del canone dell’autosufficienza, deve riportare nel ricorso stesso gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non in modo generico, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di cassazione di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter del procedimento (da ultimo: Cass. n. 19410 del 2015).
Nella specie inammissibilmente il motivo, oltre a non riportare il contenuto complessivo dell’atto introduttivo del giudizio di cui si lamenta la genericità (richiesta da Cass. n. 896 del 2014 e Cass. n. 2886 del 2014), non specifica neanche come la questione sia stata riproposta in appello e quale fosse il contenuto esatto delle domande e delle eccezioni formulate in secondo grado in modo tale da consentire il sindacato circa la denunciata ultrapetizione.
Parimenti inammissibile il secondo motivo di ricorso con cui si invoca “erroneità ed ingiustizia della decisione d’appello, in relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c., per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”.
Invero è ribadito da questa Corte il principio per il quale “in materia di procedimento civile, nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., giusta il disposto di cui all’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione” (tra le tante: Cass. n. 3010 del 2012; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 21083 del 2014; Cass. n. 287 del 2016).
Pertanto non varca la soglia dell’ammissibilità una censura che, genericamente denunciando “erroneità ed ingiustizia” della sentenza impugnata, lamenti la violazione di non adeguatamente precisate norme di legge o di contratto.
Infine infondato l’ultimo motivo di impugnazione con cui si deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti; la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare “che i giorni di malattia contestati sono stati riportati nell’atto pubblico> di risoluzione del contratto, assistito da “; avrebbe altresì errato a ritenere che l’onere della prova spettasse al datore di lavoro e non al lavoratore.
La doglianza è priva di pregio.
La deliberazione del datore di lavoro pubblico con cui si comunica la risoluzione del rapporto di lavoro al dipendente, assumendo che sarebbe stato superato il periodo di comporto, non è assistito, da alcuna fede privilegiata, trattandosi di atto di gestione del rapporto di lavoro di natura privatistica.
Non c’è dubbio poi che grava sul datore di lavoro l’onere di allegare e provare in giudizio, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato (tra le altre Cass. n. 23920 del 2010).
La Corte di Appello, esaminando il materiale istruttorio, ha ritenuto che non era stata fornita dalla Camera di Commercio la prova del superamento del limite di 273 giorni nel triennio dal 29 febbraio 2005 al 29 febbraio 2008.
Si tratta di accertamento di fatto che, essendo la sentenza d’appello pubblicata nel vigore del novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non può essere sindacato da questa Corte ove non adeguatamente censurato – come nella specie – nelle modalità previste da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014.
5. – Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso per cassazione risulta proposto in data 3 settembre 2013 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d. P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.600,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% nonché accessori secondo legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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