CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 1095 del 21 gennaio 2016
FALLIMENTO – SOCIETÀ E CONSORZI – SOCIETÀ CON SOCI A RESPONSABILITÀ ILLIMITATA – PARTECIPAZIONE A SOCIETÀ PERSONALE, ANCHE DI FATTO, INSOLVENTE, SENZA LA DELIBERA EX ART. 2361, COMMA 2, C.C. – ESTENSIONE DEL FALLIMENTO QUALE SOCIA ILLIMITATAMENTE RESPONSABILE – FONDAMENTO – ACCERTAMENTO DELLO STATO DI INSOLVENZA – NECESSITÀ – ESCLUSIONE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Foggia con sentenza del 23 marzo 2012 dichiaro’ il fallimento della Daloiso Import Export s.r.l., e, quindi, della societa’ di fatto, riconosciuta insolvente, esistente tra detta societa’ a responsabilita’ limitata, la Daloiso Trade s.r.l. e la Daloiso Produce s.r.l., provvedendo, infine, a dichiarare il fallimento in estensione delle due socie illimitatamente responsabili.
La Corte d’appello di Bari con sentenza del 31 dicembre 2012 ha, respinto il reclamo.
La corte territoriale ha ritenuto che il nuovo testo dell’art. 2361 c.c. e art. 111 duodecies att. c.c. abbia risolto la questione dell’ammissibilita’ della partecipazione di societa’ di capitali a societa’ di persone.
Tuttavia, la prima norma, dettata in tema di s.p.a., non e’ estensibile, quanto alle prescrizioni in essa contenute, anche alla s.r.l., per le quali la partecipazione in esame costituisce atto gestorio proprio degli amministratori, qualora non comporti la modificazione dell’oggetto sociale, a norma dell’art. 2479 c.c., comma 2, n. 5.
Pur ove la norma fosse applicabile, del resto, la deliberazione assembleare, nel contesto dell’art. 2361 c.c., mira a rimuovere un limite ai poteri gestori all’unico fine di esonerare gli amministratori da responsabilita’ sociale, mentre l’assunzione della partecipazione resta valida ed efficace, come in altre fattispecie ove e’ richiesta la previa deliberazione assembleare (azioni proprie o della controllante); l’indicazione nella nota integrativa, dal suo canto, e’ posta a tutela dei soli creditori della societa’ di capitali, avendo i soci altri strumenti a disposizione, di carattere preventivo e sanzionatorio.
La sottrazione a fallimento, invece, costituirebbe un privilegio discendente da un’omissione e non sarebbe ragionevole, nel bilanciamento degli interessi dei creditori della societa’ di capitali e di quelli della societa’ di fatto che sull’unicita’ del centro d’imputazione abbiano confidato, preferire i primi, posto che la deliberazione autorizzativa non e’ soggetta a pubblicita’ (cosi’ come non ricevono alcuna tutela i creditori del socio occulto di societa’ palese).
Ne deriva che, in caso di fallimento della societa’ di persone, la societa’ di capitali dovra’ essere dichiarata fallita.
Nella specie, ha osservato la corte territoriale che non si tratta del fallimento in estensione da societa’ di capitali ad altra societa’ di capitali, avendo invece correttamente il tribunale dichiarato il fallimento della societa’ di fatto, riconoscendone prima l’esistenza e poi l’insolvenza, e, quindi, in applicazione dell’art. 147, comma 1, L. Fall., dichiarato il fallimento di ciascun socio della societa’ di fatto medesima.
Gli elementi raccolti, infine, secondo la sentenza impugnata, confermano la prova piena della sussistenza del vincolo sociale e dell’insolvenza della societa’ di fatto, esistendo plurimi indizi della sussistenza di un’unica struttura economica associativa e dei presupposti della fallibilita’; quanto alle altre s.r.l., il fallimento puo’ essere dichiarato in estensione di quello della societa’ di fatto.
Avverso questa sentenza propongono ricorso la Daloiso Trade s.r.l. e la Daloiso Produce s.r.l., affidato ad un motivo. Resiste la curatela con controricorso. Le parti hanno depositando pure le memorie di cui all’art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con l’unico motivo, le ricorrenti denunziano la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2361, 2384 e 2479 c.c. e dell’art. 147 L. Fall., in quanto l’acquisto della partecipazione, da parte di una societa’ di capitali, in una societa’ di persone e’ di competenza esclusiva dell’assemblea, quale limite legale ai poteri gestori e di rappresentanza degli amministratori, onde esso deve essere necessariamente espresso, restando inefficace ove compiuto senza le condizioni previste dall’art. 2361 c.c..
In sostanza, e’ inammissibile la societa’ di fatto tra societa’ di capitali, essendo consentita solo quella in societa’ regolare, con disposizione applicabile in via diretta alla s.r.l., per la quale l’art. 2479 c.c., da leggere alla luce dell’art. 2361, palesa come vi sia un’area inderogabile di competenze dei soci, fra cui e’ senz’altro da ricondurre l’assunzione della partecipazione in discorso. Cio’, a tutela dei soci e dei creditori di societa’ di capitali, che vedrebbero la propria societa’ assumere, a loro insaputa, lo status di soggetto fallibile per in assenza di insolvenza, come avviene per il fallimento in estensione ai sensi dell’art. 147, comma 4, L. Fall..
Ne’ l’estensione del fallimento iniziale di una societa’ di capitali ad una presunta societa’ di fatto potrebbe fondarsi sull’art. 147, comma 5, L. Fall., norma eccezionale e riferibile solo all’iniziale fallimento di un imprenditore individuale.
2. – Il complesso motivo proposto pone la questione relativa alla fallibilita’ di una societa’ di capitali, nella specie societa’ a responsabilita’ limitata, che si accerti essere socia di una societa’ di fatto insolvente, allorche’ la partecipazione sia stata assunta in mancanza della previa deliberazione assembleare e della successiva indicazione nella nota integrativa al bilancio, richieste dall’art. 2361 c.c., comma 2.
Tale riassuntiva questione ne contiene, quali necessari passaggi logico-giuridici, diverse:
1) se sia ammissibile la partecipazione di una societa’ di capitali, nella specie s.r.l., ad una societa’ personale;
2) quale sia il contenuto precettivo dell’art. 2361 c.c., comma 2, in ordine alle prescrizioni, ivi contenute, sulla previa deliberazione assembleare e sulla indicazione della partecipazione nella nota integrativa al bilancio, ed agli effetti dell’inottemperanza;
3) se le prescrizioni di cui all’art. 2361 c.c., comma 2, trovino applicazione anche alle s.r.l.;
4) l’estensibilita’ del fallimento della societa’ di fatto alla societa’ di capitali, nella specie s.r.l., quale socia illimitatamente responsabile.
3. – La prima questione e’ unanimemente reputata risolta in senso affermativo, per tutte le societa’ di capitali, dalla riforma societaria del 2003, con gli art. 2361 c.c. e art. 111 duodecies att. c.c., richiamati pure dalla sentenza impugnata; onde su di essa non occorre oltre soffermarsi.
4. – Essendosi il dibattito processuale tra le parti interamente svolto con riguardo all’interpretazione dell’art. 2361 c.c., comma 2, – norma introdotta dalla riforma del 2003 – si rende opportuno esaminarne la portata precettiva all’interno del sistema della s.p.a., prima di valutare la sua applicabilita’ alla s.r.l..
Nella menzionata disposizione, la “partecipazione in altre imprese” non (necessariamente) snatura l’oggetto (come invece e’ previsto dal comma 1), ma implica il sorgere della responsabilita’ illimitata in capo alla societa’ di capitali che ne sia diventata socia.
Si tratta, dunque, di una partecipazione in societa’ personale, anche di fatto, posto che anche quest’ultima e’ caratterizzata dal regime desunto dall’art. 2297 c.c., e quindi dall’art. 2291 c.c., con la responsabilita’ illimitata e solidale di tutti i soci.
In “tal caso, pero’, il legislatore, a differenza che nel comma 1 – che preesisteva alla riforma del diritto societario (salva la sostituzione della parola “atto costitutivo” con “statuto”) e che e’ precetto imperative preclusivo della partecipazione della societa’ per azioni anche in altra societa’ di capitali “rivolto ad evitare modificazioni tacite e informali dell’oggetto sociale” (cosi’ Cass., sez. un., 17 ottobre 1988, n. 5636) – non ha posto una norma di divieto.
Il legislatore, invero, si e’ qui limitato a prevedere solo due adempimenti formali: che l’assunzione della partecipazione sia “deliberata dall’assemblea” e che riceva una “specifica informazione nella nota integrativa del bilancio”.
Le due condizioni potrebbero non sussistere, anche disgiuntamente l’una dall’altra: come quando gli amministratori, senza affatto chiamare i soci a decidere, acquisiscano la detta partecipazione o senz’altro svolgano in concreto attivita’ d’impresa con altri soggetti, individuali o collettivi, mediante una c.d. societa’ di fatto; e, in aggiunta o indipendentemente dal primo inadempimento, omettano di rendere la dovuta informazione in bilancio.
Reputa il Collegio che simili evenienze lascino sussistere una valida ed efficace assunzione della partecipazione, sia essa formale o sostanziale, nell’altra impresa sul mercato, a tale conclusione inducendo plurime considerazioni.
4.1. – Nessuna disposizione sancisce il divieto di assumere la partecipazione in una societa’ che preveda la responsabilita’ illimitata della societa’ azionaria esistendo, al contrario, una norma di permesso – ne’ commina al riguardo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 3, la nullita’ della partecipazione stessa, sol perche’ manchi la previa deliberazione assembleare o l’indicazione nella nota integrativa; quanto all’inadempimento degli amministratori a detto obbligo di darne notizia nella nota integrativa al bilancio, ancor piu’ dubbio e’ che da cio’ possa derivare, quale adempimento successivo all’assunzione della partecipazione ed in mancanza di espressa previsione contraria, tale conseguenza.
Il legislatore della riforma, invero, aveva di fronte il chiaro testo di divieto previsto al preesistente art. 2361 c.c., comma 1, (“non e’ consentita”), che ben avrebbe potuto mutuare nella sua struttura: ma ha dettato una disposizione abilitativa costruita all’inverso.
Giova inoltre ricordare come la piu’ rilevante pronuncia di legittimita’, la quale aveva definitivamente espunto dall’ordinamento, quale diritto vivente, l’ammissibilita’ della partecipazione di societa’ di capitali in societa’ di persone (cfr. la citata Cass. n. 5636 del 1988), reputasse fra tutti decisivo, nel senso dell’illiceita’, l’argomento del “contrasto che, nell’amministrazione del nuovo ed abnorme ente sociale verrebbe a determinarsi con la normativa dettata per la societa’ azionaria, dove la legge riserva inderogabilmente agli amministratori la gestione del patrimonio sociale, mentre, ammettendosi la partecipazione ad una societa’ di persone e a fortiori di fatto, priva di ogni garanzia di pubblicita’, il patrimonio verrebbe fatalmente gestito, almeno in parte, da soggetti diversi, e, quindi, sottratto ai controlli predisposti per l’amministrazione della societa’ di capitali”.
Tale perplessita’ e’ stata evidentemente superata dal legislatore della riforma, quando ha contemplato espressamente la fattispecie; pur avendo, poi, richiesto la deliberazione assembleare, l’indicazione in nota integrativa e la redazione anche da parte della societa’ personale del bilancio secondo i criteri previsti per le societa’ per azioni, oltre al bilancio consolidato in presenza dei presupposti di legge.
Invece, assai poco rilevanti, dalla sentenza citata e dal legislatore del 2003, sono stati ritenuti gli altri argomenti tradizionalmente addotti contro l’ammissibilita’ della partecipazione, quali la pretesa inconfigurabilita’ di un intuitus personae e il fatto che i soci della societa’ di capitali finirebbero per gestire la societa’ personale senza esporsi a responsabilita’ illimitata.
Se, dunque, la preoccupazione da fugare era quella di una finale gestione extrasociale del patrimonio sociale da parte di soggetti che non sono gli amministratori della societa’ per azioni, con il venir meno dei vincoli e dei controlli che li disciplinano, il legislatore della riforma vi ha fatto fronte: mediante la previsione della sottoposizione ai soci della proposta, che deve essere portata a loro conoscenza e formare oggetto di discussione (la deliberazione assembleare); la trasparenza nel bilancio della s.p.a. (con la nota integrativa); l’imposizione degli stessi vincoli contabili (la redazione del bilancio di esercizio e del bilancio consolidato).
Tutto cio’ a tutela soprattutto dei soci, e poi anche dei terzi che entrano in contatto con le societa’ partecipante e partecipata: ma pur sempre secondo un’opzione legislativa pianamente favorevole alla figura, espressione di autonomia imprenditoriale: favor palesato anche dalla mancanza di una norma di divieto o che ne sancisca la nullita’ in assenza delle descritte cautele; le quali, gia’ per tale aspetto, non paiono percio’ costituirne condizioni di validita’ o di efficacia.
4.2. – E’ vero, peraltro, che la c.d. nullita’ virtuale, di cui all’art. 1418 c.c., comma 1, non e’ necessario sia comminata espressamente dalla legge; dunque occorre svolgere ulteriori argomenti.
La previsione di cui all’art. 2361 c.c., comma 2, come tutti gli interpreti concordano, e’ posta soprattutto a tutela dei soci nella sua prima parte ed anche dei creditori, quanto all’indicazione in bilancio.
Oltre a non porre una norma di divieto – nel difetto dell’autorizzazione assembleare – di acquisire la partecipazione stessa, il legislatore pare qui essenzialmente tutelare gli interessi particolari dei soci.
Ma, ove pure si ritenesse la previsione dettata nell’interesse generale, tuttavia cio’ non basterebbe a dimostrare che la sua violazione comporti la nullita’ dell’assunzione della partecipazione stessa, posto che la nullita’ per contrarieta’ a norme imperative ex art. 1418 c.c., comma 1, “postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto” (cfr., per tutti, Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724): come non e’ nel caso in questione, in cui invece la partecipazione e’ di principio ammessa.
La natura e la valenza della deliberazione assembleare nell’ambito della fattispecie destinata a concludersi con l’assunzione della partecipazione comportante responsabilita’ illimitata in capo alla socia (fondatrice o nuova) per le obbligazioni sociali, in definitiva, deve essere ricostruita alla stregua del complessivo sistema della societa’ per azioni.
4.3. – Per l’art. 2384 c.c., agli amministratori e’ attribuito un potere di rappresentanza generale e le limitazioni ai loro poteri che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della societa’.
L’art. 2380-bis c.c., dal suo canto, precisa che gli amministratori compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale; dunque, sussiste il potere degli amministratori di attuare l’oggetto programmato sotto ogni aspetto, ma anche al di fuori dell’oggetto essi sono in grado di impegnare la societa’.
Tale regime regola lo speciale sottosistema del diritto delle societa’ (si veda infatti pure l’art. 2475-ter c.c., di cui oltre), in rilevante difformita’ dalla disciplina comune dell’art. 1398 c.c. e dalla stessa disposizione generale sull’opponibilita’ degli atti societari, derivante dall’art. 2193 c.c..
Il legislatore del 2003 ha inteso, anzi, modificare il regime dell’opponibilita’ dei limiti ai poteri dell’organo amministrativo nei confronti dei terzi in senso ancor piu’ restrittivo rispetto al testo previgente, pur sempre nell’ambito delle prescrizioni della direttiva CEE n. 151 del 9 marzo 1968 (c.d. prima direttiva in tema di societa’), che agli art. 7-9 ha regolato la materia, ora “codificata” nella direttiva 2009/101/CE, art. 8-10.
Come e’ noto, nella sezione “Validita’ degli obblighi della societa’”, l’art. 9 della dir. 68/151/CEE affermava che “(a)nche se pubblicate, le limitazioni dei poteri degli organi sociali che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi”, e che “(g)li atti compiuti dagli organi sociali obbligano la societa’ nei confronti dei terzi, anche quando tali atti sono estranei all’oggetto sociale, a meno che eccedano i poteri che la legge conferisce o consente di conferire ai predetti organi”. La norma e’ passata invariata nell’art. 10 della direttiva codificata.
Riprendendo analoga premessa della prima direttiva, i considerando 2 e 9 della direttiva codificata, inoltre, sottolineano l'”importanza particolare, soprattutto in ordine alla tutela degli interessi dei terzi”, del coordinamento delle disposizioni nazionali, uniformita’ che “dovrebbe essere assicurata mediante disposizioni che limitino, per quanto possibile, le cause di invalidita’ delle obbligazioni assunte in nome della societa’”.
La riforma del 2003 ha abrogato il vecchio art. 2384-bis c.c., uniformando per tutti i casi il regime nel senso della regola generale della inopponibilita’, proprio riprendendo l’espressione omnicomprensiva della direttiva, e facendo salva unicamente l’exceptio doli; il tutto con la premessa, densa di significato, che “il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina e’ generale”.
Si noti che l’opzione permessa (secondo cui gli Stati potrebbero stabilire che la societa’ non sia obbligata quando il terzo sapeva che l’atto superava i limiti dell’oggetto o non poteva ignorarlo) non e’ stata operata dal legislatore della riforma, a sottolineare l’intento di maggiore certezza per i terzi.
L’ambito stesso dell’agire gestorio in funzione del raggiungimento dell’oggetto programmato, contemplato nell’atto costitutivo e presidiato da numerose e stringenti regole (si pensi alle numerose cautele che sempre circondano per legge la scelta dell’oggetto sociale, la sua liceita’, le sue modificazioni e il suo raggiungimento: art. 2247; art. 2295, n. 5, 2328, comma 2, n. 3, 2521, comma 3, n. 3; art. 2332; art. 2369; art. 2379, comma 1, ultima parte e art. 2479-ter, comma 3; art. 2436; art. 2437, 2473 e 2497- quater, con varie distinzioni; art. 2271, n. 2, e art. 2484, n. 2; tutti gli oggetti riservati a societa’ di dati tipi e caratteristiche; le disposizioni sugli oggetti sociali esclusivi; etc), cosi’, resta di regola inopponibile ai terzi.
Ne deriva che, attesa la ricordata disposizione della direttiva, va valorizzato l’accento ivi posto sull’eccesso dai poteri agli amministratori conferiti per legge ed anche da quelli che essa “consente di conferire” loro: proprio i casi, come quello in esame, in cui l’assemblea e’ chiamata ad assumere la decisione preliminare (ma lo stesso ove fosse richiesta la previa deliberazione consiliare).
In questa prospettiva, che legge l’art. 2384 c.c. secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole e dall’intenzione del legislatore (art. 12 preleggi, comma 1) e non trascura la lettera e la ratio della norma primaria comunitaria, il riferimento alle limitazioni per gli atti conclusi in nome della societa’ senza una previa decisione degli organi competenti puo’ intendersi non solo con riguardo alla fonte della limitazione dei poteri degli amministratori, nel senso che essa sia richiesta ad iniziativa (per quanto ora interessa) dell’assemblea, ma anche con riferimento alla previa deliberazione assembleare tout court, pur quando l’assunzione della stessa fosse (come nel caso in esame) richiesta da fonte legale.
Cio’, in coerenza con il favor generale della riforma, tracciato dalla legge di delega, per la tutela del mercato, la stabilita’ dell’agire societario e la certezza dei traffici, nell’intento di incentivare il reperimento di capitale di rischio e di credito verso gli organismi societari.
Si ricordi pure come, secondo l’interpretazione estensiva dell’art. 2384 c.c. gia’ espressa da questa Corte nel testo previgente (Cass. 7 febbraio 2000, n. 1325) e ribadita dopo la riforma (Cass. 4 settembre 2007, n. 18574; 26 gennaio 2006, n. 1525), la norma va applicata altresi’ alle ipotesi di dissociazione del potere rappresentativo dal potere di gestione: anche l’eventuale rilevanza esterna di tale dissociazione, cosi’ come le limitazioni al potere rappresentativo derivanti dallo statuto, si porrebbe in contrasto con la finalita’ perseguita dal legislatore, “minando alla base ogni possibilita’ di garantire ai terzi la necessaria sicurezza in ordine alla validita’ degli atti compiuti dall’organo che ha formalmente la rappresentanza della societa’” (cosi’ Cass. n. 18574 del 2007, cit.).
Come questa Corte ha osservato (Cass. n. 1525 del 2006, cit.), in tal modo “il rischio delle violazioni commesse dagli amministratori, mediante il compimento di atti eccedenti i poteri loro conferiti, e’ stato trasferito sulla societa’, offrendo ai terzi la sicurezza che essa avrebbe fatto fronte agli atti posti in essere, nel suo nome, dagli amministratori, anche se in violazione dei limiti posti”, principio “che, come non si e’ mancato di rilevare, lungi dal penalizzare le societa’, consente una piu’ intensa valorizzazione delle loro potenzialita’, eliminando una possibile remora alla instaurazione di rapporti con esse”.
La riserva posta dall’art. 2384 c.c., comma 2 post riforma rappresenta un rimedio diretto ad evitare che il terzo possa abusare della tutela offertagli dal principio dell’inopponibilita’, attribuendo alla societa’ una vera e propria exceptio doli, volta a garantire che la regola del contenuto inderogabile della rappresentanza non sia utilizzata per finalita’ contrastanti con gli interessi tipici che il legislatore ha inteso tutelare.
In sostanza, qui la soluzione prescelta per la tutela dei terzi, come gli interpreti hanno osservato, non utilizza il criterio della tutela dell’affidamento incolpevole, ma e’ piu’ radicale, ricorrendo il legislatore ad un’astrazione del potere di rappresentanza dal sottostante potere di gestione.
4.4. – Sul piano definitorio, puo’ parlarsi di autorizzazione (sulla falsariga della previsione generale di cui all’art. 2364 c.c., comma 2, n. 5), quale atto che integra poteri gia’ esistenti in capo all’organo amministrativo; ma cio’ potrebbe non risolvere ancora la questione, posto che non dice se essa, nel diritto privato societario, costituisca una condizione di efficacia dell’atto dell’organo autorizzato opponibile a chiunque, o se abbia solo una valenza organizzativa interna: fine al quale provvede allora il ricordato art. 2384 c.c..
Previsioni analoghe, le quali richiedono la previa autorizzazione assembleare per il compimento di un atto degli amministratori, sono peraltro dalla legge configurate nel senso di non attribuire all’assemblea il potere gestorio e della loro efficacia puramente interna.
Cosi’ e’ l’art. 2343 bis c.c., che sanziona l’acquisto dei beni dei promotori, soci o amministratori, privo della necessaria autorizzazione assembleare, con la responsabilita’, fra di loro solidale, dell’organo amministrativo e del dante causa per i danni cagionati a societa’, soci e terzi.
Per gli artt. 2357, 2359-bis e 2359-ter c.c. e art. 121 t.u.f., l’acquisto di azioni proprie o della controllante contro i divieti di legge comporta unicamente l’obbligo dell’alienazione, o in subordine di annullamento delle azioni.
L’art. 2390 c.c., dal suo canto, si segnala per la preminenza di un’attivita’ materiale nella sua fattispecie, proprio come nel caso di partecipazione a societa’ personale di fatto; peraltro, qui si tratta di attivita’ compiuta dall’amministratore nell’ambito della sua sfera giuridica. L’autorizzazione dell’assemblea, in tal caso e come si evince dal comma 2, e’ dichiaratamente mera condizione di esonero da responsabilita’ sociale e dalle altre conseguenze, impedendo di qualificare la condotta del medesimo come inadempimento.
L’esplicita disposizione, che rimette all’assemblea dei soci la decisione su alcuni atti di amministrazione – art. 2364 c.c., comma 1, n. 5, – non implica il trasferimento dei poteri gestori in capo all’assemblea, ne’ la valenza invalidante, o condizionante l’efficacia, dell’autorizzazione assembleare, la cui mancanza si riflette unicamente nei rapporti interni. In quei casi, il socio concorre alla formazione di una decisione gestoria, che resta pur sempre propria degli amministratori. Anche per le materie sottoposte all’assemblea dei soci deve, quindi, ritenersi che il potere gestorio e rappresentativo permanga in capo agli amministratori. La pronuncia assembleare lascia in capo agli amministratori il potere-dovere di valutare essi stessi l’operazione e la sua conformita’ all’interesse sociale. Proprio questo e’ stato l’intento del nuovo art. 2364 c.c.: evidenziare l'”uscita” delle competenze degli azionisti dal governo dell’impresa sociale, affidata agli amministratori da loro scelti secondo le direttrici ed i valori che all’impresa i primi intendano imprimere.
Il sistema ordinamentale della societa’ azionaria esclude, in via di principio, la nullita’ o l’inefficacia dell’atto negoziale compiuto dagli amministratori in violazione delle disposizioni sull’autorizzazione assembleare, nelle fattispecie che la richiedano in occasione di determinati negozi: tutto cio’ in coerenza con la scelta di fondo della riforma del 2003 in favore di una tutela di tipo obbligatorio, piuttosto che caducatoria.
4.5. – Nel bilanciamento fra gli interessi dei creditori e dei soci partecipanti alla societa’ azionaria (e dei loro creditori) e quelli esistenti in capo ai creditori della societa’ di fatto, non e’ contrario ai principi del diritto societario riformato che prevalgano questi ultimi, a tutela della sicurezza dei traffici, in coerenza con la storia del diritto dei commerci, piu’ sensibile al dato fattuale ed alle esigenze di protezione dell’affidamento dei terzi.
Il soggetto che entra in contatto con la societa’ personale, partecipata dalla societa’ di capitali, non ha modo di verificare da pubblici registri la previa deliberazione assembleare, posto che di essa non e’ prevista l’iscrizione ex artt. 2193 e 2436 c.c.. Dunque, il terzo sa solo, in caso di societa’ registrata, che la controparte societa’ personale e’ partecipata da una societa’ di capitali, dato che potra’ risultare dal registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2300 c.c.; ove si tratti di mera societa’ irregolare o di fatto, il terzo sa cio’ che vede, ossia l’esistenza del rapporto di svolgimento in comune di attivita’ economica, in ipotesi, tra persone fisiche e giuridiche.
Pertanto, coglie solo una frazione della situazione reale chi afferma che la deroga agli effetti della pubblicita’ legale ex art. 2193 c.c., posta dall’art. 2384 c.c. a tutela dell’affidamento dei terzi, non potrebbe sussistere per le limitazioni di natura legale in quanto queste sarebbero conoscibili da chiunque: ed invero, cio’ che chiunque conosce e’ l’art. 2361 c.c., ossia una norma, per la quale solo potrebbe valere quindi il principio ignorantia legis non excusat (e si ricordi che perfino con riguardo al rigido disposto dell’art. 5 c.p. la Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364 ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale della disposizione “nella parte in cui non esclude dall’inescusabilita’ dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile”, ossia la buona fede con efficacia scusante; per l’art. 47 c.p., l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilita’, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato); mentre cio’ che dovrebbe essere oggetto di pubblicita’-notizia ex art. 2193 c.c., perche’ possa valere la ricordata obiezione, e’ la deliberazione assembleare, ove esistente; laddove essa non e’ soggetta affatto ad iscrizione nel registro delle imprese.
La stessa omessa indicazione, nella nota integrativa, della partecipazione nella societa’ personale -pur richiesta dal legislatore – non sarebbe, per i terzi, decisiva o suppletiva di un’apposita pubblicita’ legale della deliberazione autorizzativa: perche’ dall’omessa iscrizione (o pubblicita’) di un evento non potrebbe trarsi la prova della sua inesistenza, ben potendo comunque sussistere la deliberazione assembleare, pur in assenza degli adempimenti contabili. Onde l’omessa informazione in bilancio potrebbe solo mettere il terzo sull’avviso, inducendo un indizio, ma non costituire una prova sicura della (perorata) inefficacia di quella partecipazione.
Ne’ sembra possibile riversare sul terzo, sol percio’ qualificandolo in stato di mala fede, l’onere di esigere chiarimenti anche documentali circa l’esistenza della deliberazione assembleare di cui all’art. 2361 c.c., comma 2, dal cui inadempimento far derivare allora l’insussistenza della responsabilita’ della socia illimitatamente responsabile.
Cio’ che vale, in definitiva, e’ il ricordato regime intra-societario dell’art. 2384 c.c.: le limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori non operano nei confronti dei terzi, salva la prova che essi abbiano intenzionalmente agito in danno della societa’: onde si “esclude sia la sussistenza di un onere del terzo di accertarsi preventivamente dell’esistenza di tali limitazioni, sia la rilevanza della mera conoscenza delle stesse da parte del terzo” (cfr. Cass. 6 febbraio 1993, n. 1506, nel confronto della passata locuzione “agire intenzionalmente in danno” con la diversa disciplina cambiaria ex art. 12 L. camb.). Il terzo deve poter confidare sull’efficace spendita del nome della societa’ da parte di chi ne abbia la rappresentanza, senza onere di accertare se, nel caso contingente, esistano i presupposti procedimentali “interni” previsti dalla legge: cio’ in presenza di tutte quelle attivita’ ed operazioni gestorie che gli amministratori, sia pure a certe condizioni (come appunto la previa deliberazione assembleare), potrebbero efficacemente realizzare con terzi. Il sistema normativo esclude che sul terzo gravi l’onere di attivarsi, in quanto e’ proprio al regime ordinario degli effetti della pubblicita’ degli atti societari che la direttiva 151/68/CEE ha inteso derogare.
Infine, una tutela nient’affatto equivalente forniscono gli artt. 2497 c.c. e ss., pur richiamati da taluni in alternativa all’efficacia della partecipazione nella societa’ personale, anche di fatto, non accompagnata dagli adempimenti di legge, trattandosi di mera responsabilita’ della capogruppo e solo in presenza di un abuso dell’attivita’ di direzione e coordinamento: laddove, per lo piu’, nelle vicende concrete sussiste, all’opposto, proprio l’intento di collaborare e svolgere attivita’ in comune.
Ne’ va dimenticato che una tutela della quota di patrimonio conferita nella societa’ personale puo’ essere comunque ricercata nella disciplina di questa, sia nell’ambito delle norme sul potere di veto nell’amministrazione disgiuntiva (art. 2257 c.c.), sia in quelle sulla revoca dell’amministratore e l’esclusione dei soci inadempienti (artt. 2259 e 2286 c.c.), sia nell’obbligo di rendiconto (art. 2261 c.c.).
Quanto all’interesse dei creditori della s.p.a. partecipante, che pure si voglia richiamare nel bilanciamento degli interessi coinvolti, per essi parimenti non e’ dato accertare l’esistenza della deliberazione dal registro delle imprese, onde tale adempimento non rileva ai fini della loro situazione di affidamento; l’indicazione della partecipazione in societa’ personale nella nota integrativa, invece, fornirebbe tale informazione, ma successiva all’assunzione di essa.
4.6. – Tutto quanto esposto va riferito anche alla partecipazione concreta della societa’ azionaria in un’impresa esercitata da societa’ di fatto.
La societa’ di fatto si caratterizza per la mancanza di forme e formalita’, pur essendo effettivo lo svolgimento di attivita’ economica in comune, ossia l’impresa collettiva; questa poi, per definizione, consiste nel materiale e continuo esercizio di attivita’ economica organizzata.
Si ricordino, al riguardo, le previsioni organizzative, economiche e materiali degli artt. 2247 e 2082 c.c., ma anche il rilievo che l’attivita’ svolta in se’ assume negli art. 2497 c.c., nell’art. 10, comma 2, L. Fall. od ai fini della giurisdizione in ipotesi di fittizio trasferimento all’estero, ove appunto rileva il luogo in cui sia effettivamente esercitata attivita’ economica ed esista il centro dell’attivita’ direttiva, amministrativa ed organizzativa dell’impresa (e multis, Cass., sez. un., 11 marzo 2013, n. 5945).
Non sarebbe, dunque, giustificabile ammettere che la societa’ di capitali, la quale abbia svolto attivita’ d’impresa operando in societa’ di fatto con altri, possa in seguito sottrarsi alle relative conseguenze proprio in forza di una violazione di legge perpetrata dai suoi amministratori. Se tale condotta di inadempimento e’ tale da giustificare i rimedi che l’ordinamento rispetto a cio’ predispone (azioni di responsabilita’, revoca, denunzia al tribunale), non rende pero’, essa stessa, invalido l’atto compiuto o inefficace l’attivita’ imprenditoriale di fatto svolta. Al potere di scegliere liberamente la persona che rivesta la carica di organo amministrativo vanno ricondotte, se si vuole, le conseguenze di un eventuale errore in capo alla societa’ che lo abbia nominato.
Del resto, come si e’ osservato da molti, sarebbe assai semplice, per gli amministratori della societa’, aggirare le norme sulla responsabilita’ patrimoniale e quelle a cio’ collegate, invocando la mancata autorizzazione in caso di risultati negativi e, invece, acquisire gli effetti favorevoli di quella partecipazione.
La verita’ e’ che lo svolgimento di un’attivita’ economica comune con altra societa’, di capitali o di persone, o con una persona fisica e’ fatto ormai avvenuto, condividendo esso la natura materiale ed empirica dell’attivita’ d’impresa, per il c.d. principio di effettivita’.
E’ concetto acquisito, invero, che la c.d. impresa illecita sia, tuttavia, pur sempre impresa: un’attivita’ imprenditoriale “illegale”, in quanto svolta in violazione delle regole che ne disciplinano l’esercizio, non necessariamente comporta la nullita’ degli atti posti in essere nell’esercizio della stessa; comunque, la situazione di illegalita’ dell’impresa non impedisce l’acquisto della qualita’ d’imprenditore con i relativi effetti (si pensi alla c.d. banca di fatto, che svolga cioe’ attivita’ bancaria senza la prescritta autorizzazione della Banca d’Italia), specie ove sfavorevoli all’impresa stessa, che sarebbe ingiustificato escludere in virtu’ di violazioni proprio ad essa imputabili.
Non puo’ dirsi, in definitiva, che l’attivita’ di partecipazione a societa’ personale, anche di fatto, resti giuridicamente irrilevante in assenza di decisione assembleare.
4.7. – Sembra improponibile, inoltre, discorrere di opponibilita’ della violazione dei limiti legali ai poteri di rappresentanza solo in presenza della conoscenza, da parte dei soci, dell’attivita’ svolta in fatto dagli amministratori (quasi una sorta di loro consenso tacito), che non giustificherebbe piu’, in tesi, l’esenzione dalle conseguenze dell’assunzione della partecipazione nella societa’ personale.
Infatti, da un lato, sul piano pratico cio’ sarebbe forse possibile per una societa’ a responsabilita’ limitata a stretta base personale, ma e’ assai piu’ difficilmente realizzabile nella societa’ azionaria, di regola di dimensioni medio-grandi; dall’altro lato, non puo’ ammettersi per essa la deliberazione tacita o per comportamento concludente (cfr. art. 2375 c.c.; altro e’ il tema della deliberazione implicita, che non e’ qui indagabile, ma che comunque presenta connotati estranei al caso in discorso).
Lo stesso dovrebbe dirsi con riguardo alla prospettata opponibilita’ del difetto di deliberazione solo ai terzi in mala fede: soluzione che, a tacer d’altro, confligge con l’art. 2384 c.c..
4.8. – Cio’ che va raccomandata, piuttosto, e’ la ricerca di una prova rigorosa dell’esistenza di una societa’ di fatto.
Questa si caratterizza per il patrimonio e l’attivita’ comune, l’effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati, il vincolo di collaborazione tra i soci (con quote che, si ricorda, si presumono uguali: artt. 2253 e 2263 c.c.).
Sara’, dunque, necessario accertare scrupolosamente e con uso prudente dello strumento specie indiziario l’esistenza di una societa’ di fatto e la sua situazione di insolvenza.
4.9. – Esula dal discorso il tema della societa’ apparente, che ricorre quando non esiste il patto sociale, ma solo un comportamento esteriore, tale da ingenerare nei terzi il ragionevole convincimento incolpevole circa la esistenza di essa; ed, infatti, la vicenda in esame attiene all’effettiva collaborazione d’impresa tra piu’ soggetti, non a situazione meramente apparente per i terzi.
4.10. – In conclusione, l’esplicita attribuzione agli amministratori della societa’ per azioni di poteri di rappresentanza “generale”, in una con la mancanza di diversa disposizione per il caso di limiti legali ed, al contrario, la costante tutela del mercato e dei terzi che colora tutta la riforma, inducono a ritenere inopponibile l’assenza della deliberazione assembleare ai terzi, a meno che si provi che questi abbiano agito intenzionalmente a danno della societa’ (anche collusi con l’amministratore). Gli amministratori pur in presenza della deliberazione assembleare in discorso restano peraltro responsabili dell’assunzione della partecipazione, posto che essa rimuove un ostacolo all’acquisto, ma non li sottrae alla responsabilita’ per le loro azioni.
5. – A questo punto, occorre esaminare il profilo dell’applicabilita’ dell’art. 2361 c.c., comma 2, alla s.r.l., sia per dare ragione del discorso svolto, sia per valutare se poi, all’interno della disciplina del tipo, sia rinvenibile una prescrizione analoga.
5.1. – L’art. 111-duodecies att. c.c. e’ stato introdotto in adeguamento alle prescrizioni della Direttiva 90/605/CEE del Consiglio dell’8 novembre 1990, che ha modificato le direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE relative ai conti annuali e ai conti consolidati ed al loro ambito d’applicazione (un considerando precisa che cio’ si e’ reso necessario perche’ “all’interno della Comunita’ esiste un numero considerevole e in continuo aumento di societa’ in nome collettivo e di societa’ in accomandita semplice, di cui tutti i soci illimitatamente responsabili sono organizzati in societa’ per azioni o in societa’ a responsabilita’ limitata”).
La norma, con la sua formulazione ambigua, non sembra affatto contenere un’estensione alle s.r.l. anche del precetto relativo all’autorizzazione assembleare ed alle indicazioni in nota integrativa, di cui all’art. 2361 c.c., comma 2.
Da un lato, la fattispecie e’ incentrata sulle figure della societa’ personale (s.n.c. e s.a.s.) in cui tutti i soci siano societa’ di capitali (s.p.a., s.a.p.a., s.r.l.), senza che pero’, all’interno di essa, l’inciso “di cui all’art. 2361 c.c., comma 2” risulti in una corretta collocazione grammaticale, posto che si riferisce ai “soci illimitatamente responsabili” invece che alla partecipazione da essi detenuta, come sarebbe stato logico. Onde l’inciso sembra dettato al puro scopo di instaurare un raccordo con la disposizione del codice civile.
Dall’altro lato, l’effetto della norma – vera ragione per cui e’ stata dettata – e’ la prescrizione della redazione del bilancio di societa’ personale secondo i criteri di redazione di cui agli artt. 2423 c.c. e ss.; salvo poi aggiungere il legislatore, nell’ultima proposizione, che “esse” – cioe’, grammaticalmente, le societa’ personali controllate, ossia il soggetto della proposizione principale coordinata che precede – devono redigere il bilancio consolidato: il quale, pero’, e’ notoriamente un obbligo, semmai, della societa’ controllante. Ad ulteriore conferma dell’approssimazione lessicale della disposizione, la quale rende incerta qualsiasi sua interpretazione puramente letterale.
5.2. – Il riferimento contenuto nell’art. 111-duodecies att. c.c. sembra valere, piuttosto, unicamente ad individuare la fattispecie – partecipazione in impresa implicante la responsabilita’ illimitata per le obbligazioni sociali – da cui deriva l’obbligo di redigere il bilancio secondo quella disciplina, che non ad estendere le prescrizioni formali dell’art. 2361 c.c., comma 2, alle societa’ a responsabilita’ limitata.
La norma, in sostanza, intende solo dire che la societa’ personale interamente partecipata da societa’ di capitali sara’ soggetta alle medesime prescrizioni di bilancio, mentre le partecipanti avranno altresi’ l’obbligo del consolidamento.
La costruzione di una disciplina autonoma ad hoc delle societa’ a responsabilita’ limitata, la mancanza di un’analoga previsione nel suo ambito dettata e la struttura personalistica inducono a tale conclusione.
5.3. – Si noti che a cio’ non osterebbe la considerazione secondo cui, in tal modo, verrebbe escluso anche l’obbligo informativo concernente l’indicazione della partecipazione comportante la responsabilita’ illimitata nella nota integrativa, di cui all’art. 2361 c.c., comma 2: posto che essa discendera’ sovente gia’ dall’art. 2427 c.c., nn. 2, 5, 11 e 22-bis, il quale impone di indicare “i movimenti delle immobilizzazioni”, “l’elenco delle partecipazioni, possedute direttamente o per tramite di societa’ fiduciaria o per interposta persona, in imprese controllate e collegate, indicando per ciascuna la denominazione, la sede, il capitale, l’importo del patrimonio netto, l’utile o la perdita dell’ultimo esercizio, la quota posseduta e il valore attribuito in bilancio o il corrispondente credito”, “l’ammontare dei proventi da partecipazioni, indicati nell’art. 2425, n. 15), diversi dai dividendi” e “le operazioni realizzate con parti correlate”.
Inoltre, nello stato patrimoniale devono essere indicate separatamente, fra le immobilizzazioni finanziarie, le partecipazioni in imprese controllate, collegate, controllanti e (dal 1 gennaio 2016, in forza del D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 139) imprese sottoposte al controllo delle controllanti e genericamente “le altre imprese” (art. 2424 c.c.). Correlativamente, occorre indicare, nel conto economico, i proventi da partecipazioni (art. 2425 c.c.).
Con la relazione sulla gestione si completa poi il quadro delle informazioni sulle situazioni di controllo e collegamento societario (art. 2428 c.c.).
Infine, gli amministratori dell’impresa controllante hanno l’obbligo di redigere il bilancio consolidato, introdotto dal D.Lgs. n. 127 del 1991, in attuazione della 7 Direttiva CEE, secondo i principi di redazione del bilancio di esercizio, al fine di fornire appunto un’informazione completa delle imprese variamente collegate; bilancio nel quale rileva una nozione di controllo lata, inclusiva del controllo c.d. contrattuale (art. 26 d.lgs. citato).
Insomma, e’ la disciplina del bilancio, di esercizio e consolidato, come dettata dal complesso sistema dato da altre disposizioni, il punto di emersione essenziale della partecipazione in societa’ personale, cui l’art. 111-duodecies ha aggiunto un ulteriore tassello.
5.4. – Giova anche osservare come non sarebbe fondato sostenere che, ai sensi dell’art. 2479 c.c., comma 2, n. 5, la partecipazione della societa’. a responsabilita’ limitata a societa’ personale rientri sempre nelle operazioni idonee a comportare una “rilevante modificazione dei diritti dei soci”, quale attribuzione riservata alla competenza dei soci stessi.
La partecipazione di una societa’ di capitali in una societa’ di persone non tanto comporta una modificazione dei diritti dei soci, quanto della societa’ partecipante stessa, che diviene illimitatamente responsabile. I soci di questa, invece, continuano ad essere vincolati nei limiti del conferimento.
Cio’ che muta, in sostanza, e’ l’intensita’ del rischio che quel conferimento corre in dipendenza dell’assunta responsabilita’ illimitata per le obbligazioni della societa’ personale in capo alla societa’ partecipante; ma non muta, invece, alcun diritto del socio, da interpretare come diritti speciali al medesimo attribuiti ex art. 2468 c.c..
Una conferma di tale ultima interpretazione viene dall’art. 2473 c.c. in tema di recesso, che con maggiore chiarezza precisa trattarsi della “rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci a norma dell’art. 2468, comma 4”, ossia dei particolari diritti riguardanti l’amministrazione della societa’ o la distribuzione degli utili.
E sembrerebbe, anche per coloro che non reputano la nozione in materia di assemblea sovrapponibile con quella in tema di recesso, troppo a-letterale un’interpretazione che volesse ricondurvi il maggior rischio di perdere il conferimento (ma anche di moltiplicarlo) in conseguenza della responsabilita’ illimitata assunta dalla societa’ partecipata in una societa’ terza.
5.5. – Semmai, e’ l’altra previsione contenuta nella fattispecie del menzionato n. 5 – le operazioni che comportano una “sostanziale modificazione dell’oggetto sociale” – ad attingere la ratio di mantenere inalterato il livello di rischio investito (come afferma Cass. 12 luglio 2002, n. 10144, sulla facolta’ di recesso): ma dovrebbe accertarsi che la partecipazione in societa’ personale sia cosi’ eterogenea rispetto ai fini sociali da modificare l’oggetto in concreto.
E resterebbe comunque da considerare se, nel sottosistema costituito dalla disciplina ad hoc di questo tipo sociale, in forza dello speciale dettato derivante dal combinato disposto dell’art. 2473 c.c. e art. 2479 c.c., comma 2, n. 5, il recesso spetti al socio sia quando la relativa decisione sia stata assunta dall’assemblea senza il suo consenso, sia allorche’ quella decisione sia mancata e l’organo amministrativo abbia senz’altro posto in essere l’atto.
Perche’, allora, ove il socio avesse solo il diritto di recedere dalla societa’ di fronte al “compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto della societa’ determinato nell’atto costitutivo” (oltre che per il cambiamento della clausola statutaria sull’oggetto), il legislatore avrebbe inteso che la societa’ sia divenuta titolare della partecipazione cosi’ assunta, avendo sancito la piena validita’ dell’acquisto, costituente l’evidente presupposto del successivo recesso.
E resterebbe, altresi’, da considerare il tema generale dell’art. 2475-bis c.c., che esclude l’opponibilita’ ai terzi dei limiti ai poteri gestori, salva l’exceptio doli, da porre in relazione all’art. 2479 c.c., comma 2, n. 5: dovrebbe, cioe’, qualora la partecipazione nella societa’ personale integrasse la fattispecie della sostanziale modificazione dell’oggetto -vicenda estranea a quella ora all’esame, e dunque non esaminabile in questa sede – valutarsi se la soluzione, posta l’unica fonte comunitaria della 1 direttiva CEE che regola la rappresentanza nelle societa’ di capitali, debba poi essere la stessa della societa’ azionaria.
Al di la’ di tale ipotesi, non sussistente nel caso di specie e da non esaminarsi, la partecipazione resta dunque efficace, quale atto gestorio degli amministratori, sino al limite dell’agire intenzionale dannoso dei terzi, di cui all’art. 2475-ter c.c..
6. – L’efficace assunzione della partecipazione ne comporta tutte le implicazioni, ivi compreso il possibile fallimento della societa’ di fatto, cui quella di capitali abbia partecipato, e dei suoi soci illimitatamente responsabili.
Accertata l’esistenza di una societa’ di fatto e la sua insolvenza, i soci possono essere dichiarati falliti in estensione, ai sensi dell’art. 147, comma 1, L. Fall.. La norma, nel testo derivante dal D.Lgs. n. 5 del 2006, e’ coerente con la disciplina della riforma societaria, operando un riferimento al capo 3 del titolo 5 del libro 5 del codice civile, ivi compreso l’art. 2297 c.c. sulla societa’ in nome collettivo irregolare, strutturalmente analoga alla societa’ di fatto esercente attivita’ d’impresa commerciale.
Si tratta del fallimento ex lege – in estensione di quello della societa’ di fatto, che invece va accertata nei suoi elementi costitutivi e nello status di soggetto imprenditore insolvente – dei soci illimitatamente responsabili, che non richiede l’accertamento diretto anche della loro insolvenza, ma unicamente della loro qualita’ di soci.
7. – Deve, in conclusione, essere enunciato il seguente principio di diritto: La partecipazione di una societa’ a responsabilita’ limitata in una societa’ di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell’art. 2361 c.c., comma 2, dettato per la societa’ per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell’organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorche’ l’assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell’oggetto sociale, fattispecie peraltro estranea al caso di specie – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell’art. 2479 c.c., comma 2, n. 5.
8. – Essendosi la corte d’appello pienamente uniformata all’enunciato principio, il motivo, nella sua prima parte, va respinto.
Con riguardo alla parte finale del motivo, la quale censura l’applicazione degli art. 147, comma 5, L. Fall., le ricorrenti non colgono la ratio decidendi della decisione impugnata, la quale ha invece affermato che il tribunale ha dichiarato il fallimento della stessa societa’ di fatto, della quale ha accertato sia l’esistenza e sia l’autonomo status di insolvenza, facendo quindi applicazione del 1 comma dell’art. 147 L. Fall..
Le ricorrenti muovono dunque dal presupposto che la corte d’appello abbia dichiarato il fallimento della gia’ piu’ volte menzionata societa’ di fatto, e dei soci di essa illimitatamente responsabili, in quanto ha interpretato in senso analogico l’art. 147, comma 5, L. Fall., censurando tale interpretazione.
Senonche’, la lettura della sentenza impugnata non convalida affatto il suindicato presupposto, sul quale il riferito motivo di censura per tale parte si basa: la corte d’appello si e’ limitata, confermando la sentenza di primo grado, a dedurre dall’insolvenza della societa’ di fatto la sussistenza delle condizioni per dichiarare il fallimento anche delle societa’ a responsabilita’ limitata di essa socie.
Cio’ rende questa parte del motivo inammissibile.
9. – Le spese, attesa la novita’ della questione, sono interamente compensate.
Deve provvedersi all’accertamento di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, applicabile ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge, avvenuta il 30 gennaio 2013.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, compensando per intero le spese di lite.
Da atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio, n. 115, art. 13, comma 1 quater.