CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 11354 depositata il 31 maggio 2016
REATI TRIBUTARI – EVASIONE FISCALE – INDAGINE DELLA G.D.F. – ELEMENTI RACCOLTI A CARICO DEL CONTRIBUENTE SENZA IL RISPETTO DELLE FORMALITà DI GARANZIA DIFENSIVA PRESCRITTE PER IL PROCEDIMENTO PENALE – UTILIZZABILITA’ NEL PROCEDIMENTO DI ACCERTAMENTO FISCALE – LEGITTIMITA’
Svolgimento del processo
A seguito di p.v.c. redatti dalla GdF vennero emessi nei confronti di V.M. due avvisi di accertamento, l’uno per il 2003 per indebita deduzione di componenti negativi di reddito e per la contabilizzazione di una fattura passiva emessa dalla ditta B.B. per operazione soggettivamente inesistente, l’altro per il 2004 per indebita deduzione di componenti negativi di reddito e per la contabilizzazione di quattro fatture passive emesse dalla ditta B.B. per operazioni inesistenti, nonché per omessa indicazione di componenti positivi di reddito per prestazioni di servizi forniti alla B. s.r.l., a quest’ultima fatturate dalla ditta B.B.. La CTP, previa riunione dei ricorsi, li rigettò. L’appello del contribuente venne rigettato dalla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte sulla base della seguente motivazione.
Non emergono violazioni della procedura dal punto di vista dell’accertamento tributario e nel p.v.c. si dà ampio risalto ai diritti riconosciuti al contribuente, che è stato pure assistito da consulente. Quanto all’eccepita mancata allegazione del p.v.c., dal medesimo p.v.c. risulta che esso è stato consegnato al contribuente e sottoscritto da costui; il p.v.c. è stato poi espressamente richiamato nell’avviso. In ordine alla fatture del 2003 il soggetto emittente è un muratore senza beni strumentali e personale dipendente che effettua lavori fatturati “per importi che non rispondono alle possibilità orarie e remunerative di tali lavori”. Circa le fatture emesse nel 2004 da altro soggetto in luogo del contribuente, “dall’esame delle dichiarazioni delle aziende coinvolte nel giro delle fatture emerge che non conoscevano l’emittente ma attestavano che il lavoro era stato svolto dall’appellante. Inoltre il B., muratore ed evasore totale, dichiara di non aver mai effettuato i lavori fatturati e di comportarsi come ‘cartiera’ che fatturava anche in luogo di aziende che effettivamente svolgevano i lavori ma non emettevano fatture, come nella fattispecie, nei confronti della società B. s.r.l., che confermava che i rapporti e i contratti erano intrattenuti esclusivamente con l’appellante. Per l’interposizione il B. percepiva un importo pari all’IVA della fattura emessa…Non si rileva al contrario una difesa in contrapposizione ai fatti del p.v.c. e a supporto di un effettivo lavoro svolto a giustificazione delle fatture contestate. Era sufficiente dimostrare dove il B., per il 2003, aveva svolto la prestazione e con quale accordo. Parimenti per l’anno 2004 poteva dimostrare l’impossibilità di operare per la soc. B. s.r.l. con i mezzi e i dipendenti (che pure dichiara di non avere) già impegnati con altri documentati committenti”.
Ha proposto ricorso per cassazione il contribuente sulla base di due motivi. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 220 norme di coordinamento del c.p.p. e dell’art. 112 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. Osserva il ricorrente che, nonostante avesse rilevato elementi tali da far ritenere sussistenti indizi di reato, la GdF non si è avvalsa delle norme del c.p.p. ma ha proseguito la verifica sulla base delle disposizioni tributarie, determinando così l’invalidità derivata degli avvisi di accertamento e che nonostante la doglianza fosse stata riproposta con l’appello la CTR ha omesso di pronunciare, avendo ritenuto illegittimamente che inconferente era il richiamo all’art. 220 norme di coordinamento del c.p.p. e che non era stato violato il diritto di difesa.
Il motivo è infondato. Sotto il profilo della denuncia di omessa pronuncia va osservato che lo stesso ricorrente riporta il contenuto della statuizione sul punto del giudice tributario, sicché deve concludersi che sulla questione dell’applicabilità dell’art. 220 norme di coordinamento del c.p.p. la CTR ha pronunciato. Ad ogni buon conto, ove si ravvisi nel motivo la denuncia non di omessa pronuncia, ma di pronuncia illegittima per non essere stata riconosciuta la violazione dell’art. 220 citato, va rammentato che gli elementi raccolti a carico del contribuente dai militari della Guardia di Finanza senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale, non sono inutilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello di accertamento tributario, secondo un principio oltre che sancito dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. 10 luglio 1982, n. 429 successivamente confermato dall’art. 20 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 cod. proc. pen., ed espressamente previsto dall’art. 220 norme di coordinamento del c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” (Cass. 12 novembre 2010, n. 22984; 7 febbraio 2013, n. 2916).
Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 39 e 42 d.p.r. n. 600/1973 e 2697 c.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. Osserva il ricorrente che l’onere della prova in ordine all’inesistenza delle operazioni incombeva sull’Ufficio, e non sul contribuente come diversamente opinato dalla CTR, e che nel p.v.c., recepito dall’Ufficio, si adducevano solo elementi presuntivi privi di riscontri, come le dichiarazioni di terzi costituenti meri indizi (peraltro il B. aveva tutto l’interesse a dichiarare che le fatture erano relative a prestazioni da lui mai effettuate), senza svolgere alcun controllo sui flussi finanziari sui conti correnti bancari e senza provare l’esistenza dell’accordo simulatorio fra la ditta B., B.W. ed il contribuente. Aggiunge che il p.v.c. doveva essere allegato all’avviso di accertamento e che era stata eccepita innanzi alla CTR la tardività della costituzione dell’Agenzia delle Entrate.
Il motivo è inammissibile. La censura risulta articolata in quattro submotivi. Con il primo sub-motivo si denuncia la violazione della regola sull’onere della prova. La CTR non ha addossato in via prioritaria sul contribuente l’onere di provare l’effettività delle operazioni economiche in quanto ha, in primo luogo, valutato l’esistenza di elementi tali da far ritenere la fittizietà dell’operazione documentata dalla fattura, considerando in tal modo l’onere probatorio a carico dell’Ufficio, e solo in secondo luogo ha aggiunto che tali elementi non sono stati contrastati sul piano probatorio dal contribuente, facendo così retta applicazione della regola sull’onere della prova, che vuole che l’onere per il contribuente sorga solo in presenza del positivo riscontro degli elementi probatori a carico dedotti dall’Ufficio (qualora l’amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, relative ad operazioni inesistenti, spetta alla stessa, adducendo la falsità del documento e quindi l’inesistenza di un maggior imponibile, provare che l’operazione commerciale in realtà non è stata mai posta in essere, anche attraverso elementi presuntivi, che il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, e solo qualora li ritenga dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, consentirà al contribuente, che ne diviene onerato, di provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate – Cass. 24 luglio 2013, n. 17977).
Il secondo sub-motivo è inammissibile in quanto vertente sulla congruità probatoria degli elementi alla base della pretesa tributaria, che è profilo di merito non valutabile nella presente sede di legittimità. Inammissibile è l’ulteriore sub-motivo sulla questione dell’allegazione del p.v.c. all’atto impositivo: l’accertamento di fatto del giudice di merito è stato di segno diverso. Secondo la CTR dal medesimo p.v.c. risulta che esso è stato consegnato al contribuente e sottoscritto da costui; il p.v.c. è stato poi espressamente richiamato nell’avviso. La censura muove pertanto da un presupposto di fatto non accertato dalla CTR. Infine si denuncia la tardività della costituzione dell’Agenzia delle Entrate in sede di appello.
Trattasi di submotivo anch’esso inammissibile.
Il ricorso per cassazione che prospetti l’essersi erroneamente tenuto conto, nella sentenza impugnata, delle difese della parte appellata, costituitasi tardivamente, deve indicare lo specifico e concreto danno derivato al ricorrente dalla suddetta tardiva costituzione, non tutelando l’ordinamento il semplice interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantendo solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato “error in procedendo” (Cass. 27 settembre 2013, n. 22289). L’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela infatti l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato “error in procedendo” (Cass. 30 giugno 1997, n. 5837). Non vale osservare in senso contrario che in tal modo si renderebbe facoltativa l’osservanza delle norme procedimentali previste dalla legge, condividendosi a riguardo le considerazioni svolte in motivazione da Cass. n. 9163/95, secondo cui “principio generale del nostro ordinamento processuale è quello della tassatività delle cause di nullità, per cui non può essere dichiarata la nullità per l’inosservanza di una determinata norma, ove tale nullità non sia espressamente prevista, temperato dall’altro, per cui la nullità può pronunciarsi qualora l’inosservanza impedisca all’atto di raggiungere il proprio scopo malgrado non esista un’espressa comminatoria di legge. I principi ora enunciati comportano, quindi, la inidoneità della dedotta inosservanza a determinare, di per se stessa ed in difetto di espressa previsione, la nullità del procedimento, ove, ciò malgrado, lo scopo voluto dalla legge sia comunque stato raggiunto” (così Cass. 27 settembre 2013, n. 22289). In mancanza quindi della concreta deduzione di un pregiudizio subito dal diritto di difesa la doglianza non è ammissibile.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali che liquida in euro 4.100,00 per compenso, oltre le spese prenotate a debito.
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