CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 11412 del 1 giugno 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – GIORNALISTI – COMPENSI – TARIFFE PROFESSIONALI – COMPENSI MINIMI – CARATTERE INDICATIVO
Svolgimento del processo
Si controverte del diritto di N.M., iscritto all’ordine dei giornalisti di Teramo, a percepire compensi maggiori di quelli corrispostigli dalla società F.E. s.p.a. per la collaborazione continuativa e coordinata svolta nel periodo febbraio 1995 – aprile 2001 attraverso la redazione di articoli pubblicati sul quotidiano il C.-c. della Val Vibrata.
Decidendo in sede di rinvio da Cassazione la Corte d’appello di Ancona, con sentenza del 24/9/10 – 10/1/11, ha riformato parzialmente la sentenza appellata del giudice del lavoro del Tribunale di Teramo, che aveva riconosciuto al N. la somma di € 152.636,00, determinando nuovamente le spettanze in € 112.898,32 in base al parere dell’associazione professionale, secondo l’ultimo criterio di cui al primo comma dell’art. 2233 cod. civ., facendo in tal modo propria la determinazione del compenso eseguita dal consulente tecnico d’ufficio attraverso l’utilizzazione delle tabelle elaborate dal Consiglio dell’ordine dei giornalisti che prevedeva compensi minimi.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società F.E. s.p.a. con un solo motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Rimane solo intimato N.M.
Motivi della decisione
Con un solo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., delle norme di cui agli artt. 2233 c.c., 2225 c.c. e 115 c.p.c, nonché la nullità della sentenza e del procedimento ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. Inoltre, la ricorrente si duole del vizio di omessa o insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione della sentenza, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.
Nella illustrazione delle proprie censure la ricorrente espone, in sintesi, quanto segue: – La richiesta di parere inoltrata dal consulente d’ufficio all’ordine dei giornalisti su incarico della Corte d’appello, ai fini della determinazione del compenso, non rispondeva ai requisiti di cui all’art. 2233 c.c., in quanto l’ordine professionale avrebbe dovuto essere messo in condizione di visionare i lavori giornalistici elaborati dal N., mentre lo stesso si era limitato a controllare i conteggi eseguiti dal medesimo perito d’ufficio. Inoltre, l’ordine professionale non era stato messo a conoscenza del fatto che il N., dipendente comunale a tempo pieno, non era un professionista e che il suo compenso era stato stabilito nell’ambito di una collaborazione coordinata e continuativa in misura forfettaria mensile, circostanza, questa, che ove conosciuta dal predetto ordine professionale avrebbe influito in modo rilevante sulla formulazione del parere che, tra l’altro, era stato reso sul presupposto erroneo della natura vincolante delle tariffe.
Oltretutto, i giudici anconetani, pur ritenendo non vincolanti le tariffe stabilite dal Consiglio dell’Ordine, al punto da decidere di procedere alla determinazione del compenso secondo quanto previsto dal terzo criterio fissato nell’art. 2233 c.c., primo comma, avevano finito per applicarle integralmente, affermando che in esse era dato ravvisare un criterio orientativo ed aggiungendo, in maniera apodittica, che al di sotto dei valori dalle stesse prefissati la remunerazione era da considerare incongrua e tale da pregiudicare il decoro della professione giornalistica.
Quindi, l’applicazione integrale delle predette tariffe configurava una violazione o falsa applicazione del disposto della norma di cui all’art. 2233 cod. civ. e risultava, altresì, essere supportata da una motivazione inadeguata. In questa non si era tenuto conto della natura della collaborazione coordinata e continuativa offerta dal lavoratore, né della circostanza che non era chiaro se le tariffe deliberate dall’ordine dei giornalisti erano riferibili solo alle collaborazioni rese da giornalisti professionisti o da semplici pubblicisti. Né era dato comprendere il motivo per il quale a parità di quantità e qualità del lavoro reso da un giornalista in regime di subordinazione e da uno in regime di autonomia contrattuale non era possibile utilizzare come parametro di riferimento la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva.
Il motivo è infondato.
Invero, premesso che la Corte d’appello ha chiaramente spiegato che non poteva più discutersi dell’applicabilità della norma di cui all’art. 2233 cod. civ., essendo stata accertata in sede rescindente la mancanza di un accordo sul corrispettivo delle prestazioni rese dal N., lo stesso collegio giudicante ha logicamente tenuto conto degli altri criteri stabiliti dalla predetta norma ed è giunto alla conclusione che in assenza di usi in materia la determinazione giudiziale del predetto compenso non poteva che essere eseguita in base all’ultima opzione di cui alla predetta norma, vale a dire previa acquisizione del parere dell’associazione professionale di appartenenza del professionista. Al riguardo la Corte territoriale ha ritenuto di dover tener conto dell’adeguatezza del compenso in ragione dell’importanza dell’opera e del decoro della professione, una volta precisato che il suddetto parere non poteva considerarsi vincolante e che le tariffe approvate dall’Ordine dei giornalisti non trovavano fonte in alcun atto normativo primario o secondario, poiché le norme alle quali le delibere che le contengono fanno riferimento (artt. 2, 11 e 35 della legge n. 69/1963 e 20-ter lett. a) del d.p.r. n. 115/1965 aggiunto dall’art. 4 del d.p.r. n. 212/1972) non delegano l’Ordine ad approvarle.
Va aggiunto che la circostanza per la quale le tabelle elaborate dal Consiglio dell’ordine non erano vincolanti non impediva alla Corte di merito, nell’ambito del potere di determinazione giudiziale del compenso ai sensi dell’art. 2233 cod, civ., comma 1, di ritenerle indicative in considerazione del fatto che le stesse fornivano elementi utili ai fini della individuazione dei minimi inderogabili a garanzia dell’attività svolta dal lavoratore.
Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. 2 n. 5111 del 22/5/1998) che “l’art. 2233 cod. civ., nello stabilire che la liquidazione del compenso spettante al professionista, in difetto di espressa pattuizione tra le parti, debba essere eseguita a termini di tariffa e, quando questa manchi (o non sia vincolante: cosiddetta tariffa obbligatoria, direttamente integrativa del contratto), essere determinata “ope iudicis”, secondo un criterio discrezionale, previo parere obbligatorio (anche se non vincolante) della competente associazione professionale, impone al giudice l’obbligo della richiesta, e della conseguente acquisizione, del detto parere, dal quale egli può, poi, legittimamente discostarsi a condizione di fornire adeguata motivazione e di non ricorrere al criterio dell’equità.” (conf. a Cass. Sez. 2 n. 9514 del 30/10/1996).
Si è, altresì, statuito (Cass. Sez. 2 n. 7510 del 31/3/2014) che “per le prestazioni giornalistiche non esistono tariffe professionali, agli effetti dell’art. 2233 cod. civ., ma solo una tabella dei “compensi minimi”, varata di anno in anno, ai sensi della legge 3 febbraio 1963, n. 69, la quale, in assenza di specifiche disposizioni legislative che attribuiscano all’ordine dei giornalisti il potere di fissare compensi minimi inderogabili, ha carattere indicativo e non vincolante.”
Orbene, la Corte territoriale ha mostrato di attenersi sia ai principi fissati nella sentenza rescindente che a quelli di legittimità sopra richiamati nel momento in cui ha proceduto a far eseguire la consulenza tecnica d’ufficio per la determinazione giudiziale del compenso oggetto di causa, spiegando, all’esito della stessa, che non sussistevano elementi che giustificavano l’applicazione dì compensi in misura inferiore a quelli determinati dal perito d’ufficio, il quale aveva tenuto conto di quelli minimi elaborati nella tabella del Consiglio dell’ordine. Ciò in quanto questi ultimi rappresentavano un criterio orientativo della valutazione giudiziale in ragione del fatto che al di sotto di tali valori la remunerazione era incongrua e considerato, altresì, che dalle deposizioni testimoniali non emergeva una qualità scadente della prestazione resa, eventualità, questa, che appariva improbabile, visto che il rapporto si era protratto per ben sette anni. Inoltre, la Corte ha aggiunto che nemmeno si era avuta la prova che il compenso così riconosciuto fosse estraneo alla realtà di mercato e che, comunque, l’applicazione dello stesso nella misura minima era giustificata sia dalla minore competenza del pubblicista rispetto al professionista, sia dalla qualità non sempre perfetta del servizio reso dal N.
Sotto quest’ultimo aspetto si rivela, pertanto, infondata anche la doglianza attraverso la quale si è dedotta la mancata considerazione sia della natura che della qualità delle prestazioni rese dal N. ai fini della determinazione del compenso.
In definitiva, nella sentenza impugnata non è dato ravvisare la sussistenza dei lamentati vizi di violazione di legge, né di quello della motivazione, atteso che la Corte di merito ha esercitato correttamente il proprio potere di determinazione giudiziale dei compenso di cui trattasi alla luce della previsione di cui all’art. 2233 c.c. e di quanto stabilito nella sentenza rescindente, provvedendo, nel contempo, ad illustrare adeguatamente le ragioni del proprio convincimento in maniera tale da sfuggire ai rilievi di legittimità.
Ne consegue che il ricorso va rigettato.
Non va adottata alcuna statuizione in ordine alle spese del presente giudizio in quanto il N. è rimasto solo intimato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
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