CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 11508 del 3 giugno 2016
LAVORO – OPERAI AGRICOLI A TEMPO DETERMINATO – INDENNITA’ DI DISOCCUPAZIONE – LIQUIDAZIONE – SALARIO MEDIO CONVENZIONALE
Svolgimento del processo
1. – Il Tribunale di Lecce ha accolto il ricorso proposto da L.D.B. nei confronti dell’Inps, avente ad oggetto la riliquidazione dell’indennità di disoccupazione agricola del 2011 con riferimento al salario medio convenzionale degli operai agricoli a tempo determinato della provincia di Lecce e ha condannato l’Istituto al pagamento delle relative differenze.
2. – Contro la sentenza l’Inps ha proposto appello e la Corte territoriale, con sentenza depositata in data 7 febbraio 2015, lo ha rigettato, condividendo “l’esame della normativa applicabile alla liquidazione della disoccupazione agricola” come effettuato dal giudice di primo grado e rilevando altresì che “anche la più recente giurisprudenza della corte di cassazione ha confermato che il riferimento aI salario medio convenzionale costituisce tuttora il criterio costituzionalmente corretto per la liquidazione della disoccupazione agricola degli OTD agricoli”.
3. – Contro la sentenza, l’Inps propone ricorso per cassazione fondato su due motivi.
La D.B. resiste con controricorso. Le parti depositano memorie ex art. 378 cod.proc.civ.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo l’Inps denuncia la nudità della sentenza per violazione degli artt. 132 cod.proc.civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., rilevando l’inidoneità della motivazione della Corte a rendere palesi le ragioni della decisione, in quanto si sostanzia in un mero rinvio alla motivazione dei Tribunale.
2. – Con il secondo motivo l’Inps denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 4, comma 1, del d.lgs. 16/4/1997, n. 146, dell’art. 01, commi 4 e 5 del d.l. 10/1/2006, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 11/3/2006, n. 81, dell’art. 1, comma 1, del d.l. 9/10/1989, n. 338, convertito con modificazioni dalla legge 7/12/1989, n. 389, dell’art. 8, comma 1, legge 12 marzo 1968, n. 334, come autenticamente interpretato dall’art. 1, comma 785 della legge 27/12/2006, n. 296.
Assume che l’art. 01 del d.l. citato, ai commi 4° e 5°, ha stabilito che “a decorrere dal 1 gennaio 2006 la retribuzione imponibile per il calcolo dei contributi agricoli unificati dovuti per tutte le categorie di lavoratori a tempo determinato e indeterminato è quella indicata all’art. 1, comma uno, del DL 9 ottobre 1989, n. 338, convertito in legge 7 dicembre 1989, n. 389”, mentre il 5° comma ha previsto che “la retribuzione di cui al 4° comma, con la medesima decorrenza, vale anche al fine del calcolo delle prestazioni temporanee in favore degli operai agricoli a tempo determinato”. Sulla base di tale norma, trova applicazione anche agli operai agricoli a tempo determinato l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 338/1989, senza più la necessità di verificare, come richiesto dall’art. 4 del d.lgs. n. 146/1997, l’eventuale superamento del salario medio convenzionale rilevato nell’anno 1995.
3. – Il primo motivo è fondato e assorbe l’esame del secondo motivo del ricorso. Come si è esposto nella parte narrativa, la Corte ha ritenuto di condividere l’opzione interpretativa operata dal giudice di primo grado, ma non ha esplicitato né quale normativa il tribunale ha esaminato né quale disposizione ha di fatto applicato; non ha indicato quali elementi fattuali (come ad esempio la qualifica rivestita dalla lavoratrice, il misura del salario reale, la eventuale diversa misura prevista dalla contrattazione collettiva, il salario medio convenzionale applicabile) sono stati accertati e presi in esame al fine di giustificare il processo di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta; neppure ha esplicitato i motivi di doglianza sollevati dall’appellante e le ragioni del dissenso dell’altra parte.
3.1- Ora, il nostro ordinamento conosce la motivazione “per relationem” e la ritiene ammissibile, dovendosi giudicare la sua completezza e logicità sulla base degli elementi contenuti nell’atto al quale si opera il rinvio e che, proprio in ragione dello stesso, diviene parte integrante dell’atto rinviante.
Si afferma tuttavia che, secondo un principio generale dell’ordinamento, desumibile dagli artt. 3 della legge n. 241 del 1990, e 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000, per gli atti amministrativi (e valido, a maggior ragione, in forza dell’art. 111 Cost., per l’attività del giudice), il rinvio deve essere operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione “per relationem” (Cass., 22 maggio 2012, n. 8053; Cass. 11 febbraio 2011, n. 3367).
3.2. – Con particolare riguardo al rinvio alla sentenza impugnata, questa Corte ha ritenuto legittima la motivazione “per relationem” della sentenza pronunciata in sede di gravame, purché il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Deve viceversa essere cassata la sentenza d’appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass., 11 giugno 2014, n. 13148; Cass., 16/12/2013, n. 28113; Cass., 11 maggio 2012, n. 7347; Cass., 12 agosto 2010, n. 18628; Cass., 11 giugno 2008, n. 15483; Cass., 2 febbraio 2006, n. 2268; Cass., 21 ottobre 2005, n. 20454).
3.3. – E’ quanto avvenuto nei caso di specie, in cui anche il richiamo alla “più recente” giurisprudenza di questa Corte è meramente assertivo, non essendo sorretto dall’indicazione di sentenze che avrebbero deciso nel senso ritenuto dal Tribunale.
La motivazione che richiama un orientamento giurisprudenziale consolidato deve ritenersi correttamente esposta da tale richiamo, che rinvia appunto alla motivazione risultante dai provvedimenti richiamati, – sicché il dovere costituzionale di motivazione risulta adempiuto “per relationem”, per essere detta motivazione espressa in provvedimenti il cui contenuto è conoscibile (Cass., 30 marzo 2007, n. 7943).
Ciò in ossequio al principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, che giustifica la mancata ripetizione delle argomentazioni di un orientamento giurisprudenziale, ove condivise dal giudicante e non combattute dal litigante con argomenti nuovi (in tal senso, da ultimo, Cass., 3 luglio 2015, n. 13708).
Vi deve tuttavia essere un esplicito riferimento al precedente che, anche se non ritrascritto nelle sue parti significative, sia tale da consentire di enucleare, attraverso la sua lettura, il percorso logico-giuridico seguito per pervenire ad una certa decisione.
3.4. – Nel caso in esame, la Corte leccese non cita alcuna sentenza, tanto meno ne riporta le argomentazioni, sicché il suo assunto, – secondo cui la giurisprudenza di legittimità avrebbe di recente confermato che “Il riferimento aI salario medio convenzionale costituisce tuttora il criterio costituzionalmente corretto per la liquidazione della disoccupazione agricola degli OTD agricoli”, – è privo di ogni riscontro oggettivo, non rivenendosi peraltro nella giurisprudenza di questa Corte precedenti specifici relativi alte questioni poste con il secondo motivo di ricorso dall’Istituto previdenziale.
3.5 – Infine deve aggiungersi che anche la narrativa dello svolgimento del processo si presenta estremamente carente sì da non potersi dire integrato neppure il requisito della succinta esposizione dei fatti di causa che è richiesto dal modello processuale cui ogni sentenza deve ottemperare (in tal senso, Cass., 30 ottobre 2015, n. 22242; Cass., 14 ottobre 2015, n. 20648).
4. – Tali omissioni rendono la motivazione meramente apparente, perché tale è una motivazione che non permetta di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da esse al risultato enunciato, sì che ne riesce integrata una sostanziale inosservanza dell’obbligo imposto al giudice dall’art. 132 c.p.c., n. 4, di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione atteso che le brevi proposizioni che si sono su riportate sono assolutamente inidonee allo scopo, che è quello di evidenziare un ragionamento che, partendo da determinate premesse, pervenga con un certo procedimento enunciativo a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi. (Cass., 25 febbraio 2014, n. 4448).
4.1 – Va qui richiamato il principio espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui la “mancanza della motivazione” con riferimento al requisito della sentenza di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, si configura quando la motivazione “manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione, ovvero quando essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio o da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).
5. – Infine, non sembra superfluo ricordare che il dovere di motivazione è imposto al giudice dall’art. 111, comma 6°, Cost., a garanzia del corretto esercizio dei suoi poteri decisori in conformità delle regole fondamentali che lo disciplinano, a partire dal principio di legalità fino alla garanzia della difesa e a tutti gli altri principi che attengono alla giusta e corretta amministrazione della giustizia.
Tale dovere trova altresì consacrazione nell’art. 6 CEDU che, nonostante non contenga un riferimento letterale alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, è comunemente considerato come il fondamento normativo dell’obbligo della motivazione nell’ordinamento sovranazionale. L’art. 6, sotto la rubrica “Diritto ad un equo processo”, sancisce infatti che “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e delle sue obbligazioni di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente (…)”.
Ma la Corte di Strasburgo, organo giurisdizionale volto ad assicurare il rispetto della CEDU da parte degli Stati contraenti, competente a pronunciarsi su “tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli” (art. 32, par. 1 CEDU), alla cui giurisdizione l’Unione si assoggetta, afferma che il requisito che la pronuncia della decisione sia pubblica comporta, quale normale conseguenza, che la decisione debba essere motivata.
Tali principi sono ora ribaditi nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
La Corte costituzionale italiana, con la sentenza n. 349/2007, cit., ha poi precisato che: “La Corte di Strasburgo garantisce l’esatta ed uniforme applicazione delle norme della Convenzione, essendone ad essa attribuita l’interpretazione centralizzata, ed avendo una competenza che si estende a tutte te questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli, ciò che solo garantisce l’applicazione del livello uniforme di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri”.
La motivazione della decisione giudiziaria, pertanto, nella giurisprudenza della Corte Edu, è la una delle garanzie dell’equo processo il quale esige che la causa sia esaminata e decisa correttamente, ragionevolmente e secondo diritto.
6. – In forza di queste considerazioni la sentenza deve essere annullata e la causa deve essere rinviata alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione, perché riesamini la controversia alla luce dei principi qui espressi. La Corte leccese provvedere anche sulle spese del presente giudizio ai sensi dell’art. 385 cod. proc. civ.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito l’altro; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione.
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