CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 11592 del 6 giugno 2016
LAVORO – LICENZIAMENTO – IRREGOLARITA’ IN UNA PRATICA – LAVORATORE NEL MIRINO – IL PROCEDIMENTO PENALE NON BLOCCA IL LICENZIAMENTO
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Potenza, riformando la sentenza del Tribunale di Matera, rigettava la domanda di S.A., proposta nei confronti dell’Agenzia del Demanio, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimatogli dalla predetta Agenzia per irregolarità nella istruzione della pratica concernente la stipula di un contratto di concessione d’immobile.
A base del decisum la Corte del merito poneva il fondante rilievo secondo il quale i fatti giuridici contestati al dipendente in sede disciplinare non erano i “medesimi” di quelli di cui al rinvio a giudizio in sede penale sicché non operava la regola contrattuale della necessaria sospensione del procedimento disciplinare. Nel merito, poi, la predetta Corte riteneva provati i fatti addebitati e di gravità tale da fare venire meno irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Avverso questa sentenza S.A. ricorre in cassazione sulla base di tre censure, illustrate da memorie.
Resiste con controricorso la parte intimata.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso S.A., deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 58, comma 7, del CCNL 2004-2008 per il personale non dirigente dell’agenzia del Demanio, critica la sentenza impugnata per non aver ritenuto “medesimi” i fatti addebitati i sede disciplinare ed in sede penale e tanto ai fini della sospensione del procedimento il disciplinare.
Il motivo è infondato.
I giudici di appello hanno accertato che “i fatti contestati in sede disciplinare attengono specificamente alla corretta esecuzione della prestazione lavorativa da parte del dipendente sotto il profilo della correttezza e diligenza nella sua esecuzione e, quindi, non opera la regola della pregiudizialità penale introdotta dall’art. 58 CCNL prescindendo tali fatti dalla loro rilevanza penale e dal fatto che da essi possano scaturire fattispecie integranti reato”.
Si tratta di un accertamento di fatto che in quanto congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità. Né, e vale la pena di sottolinearlo, il ricorrente, critica l’interpretazione fornita dalla Corte del merito del provvedimento di recesso e sulla cui esegesi la stessa Corte fonda, appunto, l’accertamento in questione. Con la seconda censura parte ricorrente, denunciando vizio di motivazione, sostiene la insussistenza dei fatti posti a base del licenziamento.
La censura è infondata.
Il dedotto vizio motivazionale inerisce, infatti, ad una diversa valutazione di risultanze istruttorie puntualmente esaminate dalla Corte del merito che come tale è inammissibile in sede di legittimità in quanto si tende con la critica in esame sostanzialmente ad una diversa valutazione del merito.
Né può sottacersi che, nella specie, trattandosi di sentenza di appello pubblicata in data 8 maggio 2014, trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, cpc, riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 che secondo l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite deve intendersi al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cfr Cass. Cass. S.U. 7 aprile 2014 n. 8053).
Il terzo motivo del ricorso con cui parte ricorrente invoca l’applicazione dell’art. 384, 2 comma, ultima parte cpc, rimane assorbito.
In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115 del 2002 introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012 per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente la pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in E. 3000,00 per compensi oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115 del 2002 introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012 si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
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