CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 11596 del 6 maggio 2016

LAVORO – PREVIDENZA – CONTRIBUTI PREVIDENZIALI OMESSI – CARTELLA ESATTORIALE – TARDIVITA’ DELLA OPPOSIZIONE – DECADENZA

Svolgimento del processo

Con la sentenza n.423/2010, depositata il 29.6.2010, la Corte d’Appello di Bologna, respingeva l’appello proposto M.E., in proprio e quale legale rappresentante della M.A. di M.E. & C. s.a.s., avverso la sentenza resa dal tribunale di Forlì che aveva rigettato nel merito l’opposizione avverso la cartella esattoriale notificata il 16 febbraio 2001 con la quale era stato richiesto loro il pagamento della somma di € 156.163.877 per contributi previdenziali omessi.

La Corte d’Appello a fondamento della decisione accoglieva, in via preliminare, l’eccezione dell’INPS sulla decadenza per tardività della opposizione svolta con ricorso depositato il 10 aprile 2004 dopo il decorso del termine di 40 giorni dalla notifica della cartella; ed osservava che nessun effetto poteva avere sul rispetto del termine processuale il fatto che l’INPS in data 28 marzo 2001 avesse in un primo tempo sospeso la riscossione del credito compreso nella cartella (allo scopo di verificare in sede di autotutela l’an ed il quantum dei crediti stessi) e poi revocato, con provvedimento del 22 marzo 2004 avente effetto dal 13 aprile 2004, la sospensione precedentemente concessa. Ciò in quanto il provvedimento sospensivo in questione era previsto ai sensi dell’art. 25 del d.lgs. n. 46 del 1999, come espressione di un potere discrezionale che incideva solo sull’azione esecutiva promossa dall’esattore per la riscossione coattiva del credito e che non aveva alcuna incidenza sull’opposizione del debitore disciplinata dal precedente comma 5 dell’art. 24.

Per la cassazione di questa sentenza, ha proposto ricorso M.E., in proprio e quale legale rappresentante della M.A. di M.E. & C. s.a.s., con tre motivi di impugnativa. L’INPS resiste con controricorso. M.E., nella qualità ut supra, ha presentato memoria ex 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1. – Preliminarmente va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa dell’INPS per avere la ricorrente impugnato la sentenza nei confronti del solo INPS e non della SCCI cessionaria ed effettiva titolare del credito, rispetto alla quale avrebbe prestato acquiescenza. L’eccezione è infondata siccome l’impugnazione è validamente proposta nei confronti di più parti anche se notificata in un’unica copia allo stesso procuratore che le rappresenta tutte. Inoltre in questo giudizio l’INPS si è pure costituito per la SCCI, confermando così di averla rappresentata anche in precedenza ai fini della notifica del ricorso.

2. – Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 25 comma 5 d.lgs. 46/1999 dell’art. 21 quater e 21 quinquies della L. 241/1990, nonché del principio del legittimo affidamento avendo la Corte errato nel giudicare di nessuna rilevanza il provvedimento di sospensione dell’INPS ai fini della decorrenza del termine di opposizione.

2.1 II primo motivo è infondato. Va premesso che l’art. 24 del d.lgs. 46/1999 stabilisce che contro l’iscrizione a ruolo il contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte si tratta di un termine perentorio previsto a pena di decadenza (Cass. 17978/2008; 21365/2010).

L’art. 25, comma 2 d.lgs. 46/1999 prevede che dopo l’iscrizione a ruolo l’ente, in pendenza di gravame amministrativo, può sospendere la riscossione con provvedimento motivato notificato al concessionario ed al contribuente. Il provvedimento può essere revocato ove sopravvenga fondato pericolo per la riscossione.

2.2. Come risulta dalla lettera della legge, e dalla sua lettura sistematica, la sospensione in discorso incide soltanto sulla riscossione del credito (ovvero sugli effetti esecutivi successivi alla formazione del ruolo) e non ha invece alcun effetto sul termine per impugnare in giudizio il ruolo, in seguito alla notifica della cartella. Il provvedimento di sospensione viene emesso in sede di autotutela dall’Ente, a prescindere dall’esercizio o meno della stessa facoltà di impugnazione del ruolo (già esercitata oppure no). Esso in base alla legge non ha perciò alcun raccordo con la facoltà di impugnazione da esercitare entro il termine di decadenza.

2.3. D’altra parte venendo in questione un termine di impugnazione previsto a pena di decadenza, vale pure il principio stabilito dall’art. 2964 c.c. secondo il quale la decadenza non può essere sospesa, salvo che sia altrimenti disposto. E nella fattispecie non è previsto che il termine per impugnare il ruolo possa ritenersi a sua volta sospeso a seguito dell’esercizio del potere di sospensione in questione. Non avendo effetti sulla facoltà di impugnazione, il debitore dovrà perciò provvedere nei termini alla contestazione della pretesa dell’INPS all’interno del giudizio di cognizione, nell’ambito del quale l’INPS dovrà comprovare la fondatezza della pretesa contributiva.

2.4. Neppure conta ai fini del rispetto del termine di impugnazione del ruolo la motivazione del provvedimento di sospensione che, secondo la sentenza impugnata, era stato assunto in attesa di verificare l’an ed il quantum dei crediti stessi. Tale motivazione non può rilevare in quanto diretta a supportare l’esercizio di un potere che ha, in base alla legge, effetti sospensivi soltanto della riscossione del ruolo e che non implica alcuna rinuncia della pretesa sostanziale; e nemmeno il riconoscimento della non attualità del credito contributivo, come infondatamente si sostiene in ricorso.

2.5. Il provvedimento di sospensione non era perciò idoneo a prorogare il termine di impugnazione sine die oppure all’esito della sua revoca. Pertanto, e per le stesse ragioni, esso era pure inidoneo a suscitare alcun legittimo affidamento in tal senso.

2.6 Nessun rilievo hanno inoltre i richiamati artt. 21 quater e 21 quinquies della legge 241/1990 dai quali non si ricava alcuna proroga del termine per l’impugnazione di un ruolo esecutivo di cui sia stata sospesa la sola fase esecutiva della riscossione.

3. – Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c. e 345 c.p.c. in materia di onere probatorio ed omessa motivazione; per avere la Corte accolto l’eccezione dell’INPS circa la presunta decadenza del termine di impugnativa di cui all’art. 24 del d.lgs. 46/1999 benché l’INPS non avesse dato prova della regolarità della notifica in quanto aveva allegato soltanto in appello una nuova produzione documentale per provare l’asserita regolare notifica e, quindi, l’eccezione di decadenza formulata solo in appello che, invece, andava rigettata, non avendo l’INPS provato che la notifica fosse stata effettuata da un soggetto abilitato.

3.1. Il motivo è inammissibile e comunque infondato. In primis perchè la pronuncia d’appello è corretta laddove ha dichiarato la decadenza dall’opposizione ex art. 24 d.lgs. 46, siccome è stato accertato che a fronte della notifica della cartella avvenuta il 16 febbraio 2001 l’opposizione è stata promossa soltanto con ricorso depositato il 10 aprile 2004. E la relativa questione poteva essere dedotta anche in appello.

3.2. Nessun valore può avere poi l’eccezione di irritualità della notifica della cartella (perché l’INPS non avrebbe provato che era stata effettuata da un soggetto abilitato) sollevata per la prima volta in questa sede dalla ricorrente) avendo la sentenza di appello affermato che la notifica stata effettuata e che il ricorrente aveva contestato solo la tardività dell’eccezione di decadenza, senza alcuna contestazione né della ritualità della notifica, né della tempestività delle produzioni documentali che sarebbero state effettuate dall’INPS allo scopo.

Si tratta peraltro di un motivo inammissibile in quanto avrebbe dovuto riprodurre testualmente l’atto (la relata di notifica; cfr. Cass. sentenza 17424/2005) da cui risulta la irritualità della notifica e prima ancora avrebbe dovuto indicare quando ed in che termini fossero state sollevate le questioni qui dedotte. Ciò in conformità alla giurisprudenza di questa Corte la quale (sentenza n. 20518 del 28/07/2008) ha statuito che “Ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa”.

Si tratta inoltre di un motivo lacunoso che viola il principio di autosufficienza del ricorso nei termini declinati da questa Corte fin dalla sentenza 5656/1986 (ed in seguito puntualizzati dalle S.U. 8077/2012; e da Cass. SS. UU., 20 giugno 2007, n. 14297; e Cass., SS.UU., 23 dicembre 2009, n. 27210) ed ora accolto nell’art. 366 n.6 e nell’art. 369 n. 4 c.p.c.; ed in base al quale il ricorrente per Cassazione che deduca un vizio di motivazione, ma anche una violazione o falsa applicazione di legge, ha l’onere di indicare in ricorso – a pena di inammissibilità – in modo adeguato e specifico, gli atti e i documenti cui ha fatto riferimento nell’esporre la propria censura, senza che sia possibile al giudice procedere ad integrazioni che vadano aldilà della semplice verifica delle deduzioni contenute nell’atto.

4. – Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c. in materia di onere probatorio circa la sussistenza della pretesa contributiva. Il terzo motivo essendo condizionato all’accoglimento dei primi due motivi, risulta infondato e va pertanto disatteso.

5. – Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di rigettare il ricorso e di condannare la parte ricorrente, rimasta soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in €. 3100, di cui € 3000 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed agli accessori di legge.