CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 11758 del 8 giugno 2016
LAVORO – PREVIDENZA – RIPRISTINO DEL TRATTAMENTO PENSIONISTICO – PRESCRIZIONE DECENNALE – PRESUPPOSTI – REQUISITO REDDITUALE
Fatto e diritto
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 11.5.2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione, redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
“La Corte di appello di Roma, con sentenza del 12.5.2014, accoglieva, nei limiti della prescrizione decennale, il gravame proposto da L.A. avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso della predetta, inteso al ripristino del trattamento pensionistico sospeso, osservando che la previsione dell’art. 8, comma 1 bis, del d.l. 463/1983, richiamante l’art. 68 della legge 30 aprile 1969 n. 153, in favore dei ciechi, della conservazione del trattamento pensionistico nonostante la carenza sopravvenuta di uno dei presupposti, ed in particolare del requisito reddituale, perseguiva la finalità di favorire il reinserimento sociale degli stessi, non distogliendo l’invalido dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa, e che andava tutelato l’affidamento riposto dal cittadino non vedente sull’ammontare del beneficio goduto, in relazione al quale lo stesso aveva costituito il proprio tenore di vita e coltivato i propri progetti, considerato che doveva essere agevolata ed invogliata l’attività lavorativa spiegata in attuazione dei principi costituzionali.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’INPS, affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la L. Il M.E.F. è rimasto intimato.
Con il primo motivo, l’INPS denunzia, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 68 della legge 30.4.1969 n. 153, 6 e 8 del D.L. 12.9.1983 n. 463, conv. con modificazioni dalla legge 11.11.1983 n. 638, e dell’art. 12 delle Preleggi, osservando che la sentenza della S. C. n. 15646/2012 richiamata dal giudice del merito è stata superata da orientamento diametralmente opposto sancito da Cass. n. 24192/2013 la quale ha posto in evidenza la diversità delle misure protettive di invalidità di carattere previdenziale da quelle di natura assistenziale, che giustificano trattamenti legislativi differenti in relazione ai quali va esclusa ogni violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
Osserva che l’irrilevanza del reddito derivante al cieco da lavoro subordinato è limitata alla fattispecie del mantenimento del diritto all’integrazione al trattamento minimo di una prestazione già corrisposta ed erogata dal regime dell’assicurazione generale obbligatoria, prevedendo comunque che la stessa non spetti a colui che percepisca un reddito in misura superiore al limite fissato dalla legge, posto che l’integrazione soccorre a garantire il raggiungimento della soglia di sussistenza, allorché questa non venga più assicurata dal basso importo della pensione. Rileva la similitudine di tale trattamento con la natura e la funzione delle provvidenze di invalidità civile, posto che entrambe vengono corrisposte dallo Stato, sul cui bilancio esclusivamente gravano, mentre sono a carico del bilancio INPS le pensioni collegate ai contributi versati all’istituto.
Aggiunge che all’art. 68 della I. 153/69 ed all’art. 8 del d.I. 463/83 non può attribuirsi la valenza di affermare un principio generale di irrilevanza dei redditi posseduti dai ciechi ai fini dell’erogazione in loro favore di un beneficio, quale appunto la pensione, in relazione alla quale esistono norme che ne subordinano il riconoscimento al mancato superamento di requisiti reddituali.
Con il secondo motivo, l’istituto lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 66 del 10 febbraio 1962, dell’art. 5 della legge 382/1970, dell’art 6 del D. L. 30/74, conv. in I. 114/1974, dell’art. 14 septies del d.l. 663/1979, conv. in I. 33/1980, nell’interpretazione autentica data dall’art. 1 della legge 8.10.1984 n. 660, osservando che la normativa richiamata riguarda esclusivamente l’invalidità pensionabile (cd. invalidità INPS) e non può quindi trovare applicazione nell’ipotesi di riconoscimento di prestazioni di natura assistenziale – quale la pensione in favore dei ciechi civili prevista dalla legge 10.2.1962 n. 66, e ss. integrazioni e modificazioni.
Osserva che, se la sussistenza di uno stato di bisogno è un presupposto per l’insorgere del diritto alla pensione non reversibile di cui alla legge 66/62, non è possibile estendere la deroga, prevista dal legislatore per le pensioni invalidità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, al generale divieto di cumulo della pensione di invalido con il reddito, essendo chiara la finalità di consentire al pensionato di invalidità a carico dell’AGO di conservare la pensione già ottenuta in virtù del versamento di contributi previdenziali.
Chiede, pertanto, con tale motivo, affermarsi che il combinato disposto degli artt. 68, primo comma I. 153/69, 6 e 8, comma 1 bis, d. I. 463 del 1983 che deroga, in favore dei non vedenti, al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità col reddito, non è applicabile ai ciechi titolari di pensione di invalidità civile prevista dalla I. 10.2.1962 n. 66 e ss. modifiche e integrazioni.
Il ricorso è fondato.
La Corte di merito ha applicato principi in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, che, nella recente decisione n. 24192 del 25 ottobre 2013 e nella successiva 15.4.2014 n. 8752 (conforme a Cass. 5 agosto 2000, n. 10335 e Cass. 22 novembre 2001, n. 14811), valorizzando la natura di prestazione assistenziale della pensione non reversibile per i ciechi assoluti, di cui alla legge n. 66 del 1962 (già erogata dall’Opera Nazionale Ciechi Civili, prima della generale attribuzione all’I.N.P.S. anche delle prestazioni di natura assistenziale), ha escluso che ad essa si possano applicare disposizioni quali l’art. 68 della I. n. 153 del 1969 (come, del resto, quella di cui all’art. 10, comma 2, del R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636) e l’art. 8, comma primo bis, del d.l. n. 463 del 1983, dettate nella materia delle prestazioni previdenziali erogate dall’I.N.P.S. ed a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, presupponenti un rapporto contributivo (in particolare l’art. 9 del R.D.L. n. 636/1939 fa riferimento alla pensione riconosciuta all’invalido a qualsiasi età quando siano maturati determinati requisiti contributivi) ed aventi quale presupposto non uno stato di invalidità generica, bensì di invalidità lavorativa, da considerare norme di stretta interpretazione e il cui fondamento è da rinvenirsi nell’art. 38, comma secondo, Costituzione (più che nel comma primo dello stesso articolo della Carta fondamentale).
E’ stato così affermato (in consapevole dissenso rispetto a Cass. n. 15646 del 18 settembre 2012), che non è possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale (nella specie previsto dalla legge n. 66 del 1962) il beneficio riconosciuto a favore di chi gode di trattamento previdenziale, con la conseguenza che l’erogazione della pensione di cui a tale legge resta subordinata al permanere del soggetto beneficiario in stato di bisogno. L’indicata sentenza n. 24192 del 2013 ha, inoltre, escluso che possa essere considerato quale precedente specifico la sentenza a Sezioni Unite n. 3814 del 24 febbraio 2005 (richiamata dal ricorrente) perché resa con riferimento a fattispecie concreta del tutto diversa in quanto afferente all’integrazione al minimo di un trattamento pensionistico disciplinato dagli artt. 68 I. n. 153/69 e 8 d.l. n. 463/83.
Questa Corte ritiene di dare continuità ai principi poc’anzi affermati, ritenendo che quanto argomentato nella sentenza della Cassazione a s. u. 3814/2005 conforti l’orientamento richiamato, in quanto l’integrazione al trattamento minimo, seppure correlata alla pensione di natura previdenziale, mira a garantire il minimo vitale, con ciò evidenziandosi la sua natura e funzione assistenziale al pari delle provvidenze di invalidità civile, che, per gravare sul bilancio dello Stato, sono sensibili alla esistenza di redditi dell’assistito superiori ai limiti di legge.
Infine, deve rilevarsi come, nella sostanza, si è in presenza di differenti misure protettive dell’invalidità in cui diverse sono le modalità di finanziamento delle prestazioni: quelle previdenziali – che trovano fondamento nella previsione di cui all’art. 38 Cost., comma 2 – sono alimentate dai contributi gravanti sugli specifici soggetti obbligati ed i datori di lavoro; quelle assistenziali – che fanno capo all’art. 38 Cost., comma 1 – sono finanziate dallo Stato attraverso il ricorso alla fiscalità generale. Se pure è vero che lo Stato partecipa anche al sostegno della previdenza qualora i mezzi raccolti con i versamenti contributivi siano insufficienti (come nel caso della integrazione al minimo), i due territori rimangono concettualmente e giuridicamente ben distinti e questo giustifica trattamenti legislativi differenti in relazione ai quali va esclusa ogni violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
Da tanto consegue che il ricorso deve essere accolto, evidenziandosi che nella pronuncia impugnata la valutazione della situazione reddituale (evidentemente sfavorevole all’assistita) deve ritenersi implicitamente effettuata nel senso della sua irrilevanza, non avendo ragion d’essere, in caso contrario, l’affermazione dell’estensibilità alla prestazione assistenziale di principi validi in materia previdenziale, che presuppongono proprio l’avvenuto superamento dei limiti reddituali – oltre i quali non è configurabile lo stato di bisogno -, ciò che nella specie aveva determinato la revoca della prestazione in sede di revisione. Peraltro, non va mancato di considerare che nel ricorso dell’INPS si afferma che la circostanza che la L. percepisse redditi superiori ai limiti di legge era pacifica e non contestata, che la controparte non aveva fornito prova contraria al riguardo, e che tali affermazioni non sono contrastate in controricorso dalla difesa della assistita, che, anzi, espressamente dichiara che la domanda verteva sul riconoscimento del diritto al ripristino del trattamento pensionistico di invalidità, riconosciuto, erogato e successivamente non più erogato perché sospeso in forza del sopravvenuto superamento dei limiti di reddito.
Si propone, pertanto la cassazione della decisione impugnata e, non essendo necessari, per quanto detto, ulteriori accertamenti di fatto, la decisione della causa nel merito, ai sensi dell’art. 384, 2° co., 2° parte, c.p.c., nel senso del rigetto della domanda della L., con compensazione delle spese dell’intero processo”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio. L’INPS ha depositato memoria adesiva al contenuto della relazione.
Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla richiamata giurisprudenza di legittimità, e che le stesse conducano all’accoglimento del ricorso, con decisione della causa nel merito, ai sensi dell’art. 384, 2° comma, c.p.c., nel senso indicato.
La controvertibilità delle questioni trattate e l’esistenza di precedenti difformi di questa stessa Corte di legittimità giustificano la compensazione tra le parti delle spese processuali dell’intero processo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda della L.. Compensa tra le parti le spese dell’intero processo.
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