CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 12777 depositata il 21 giugno 2016
SOCIETA’ DI COMODO – NON APPLICABILE LA DISCIPLINA DELLE SOCIETA’ COMODO – MOTIVO DI ANNULLAMENTO DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO RELATIVA AL CONTROLLO AUTOMATIZZATO DELLA DICHIARAZIONE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza depositata in data 6/3/2008 la C.T.P. di Napoli, accoglieva il ricorso proposto dalla società Cartonificio A. V. S.r.l. avverso cartella di pagamento nei confronti della stessa emessa ai sensi dell’art. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione modello unico 2000 presentata per l’anno d’imposta 1999, per l’importo di € 239.169,73 preteso per Irpeg, interessi e sanzioni.
Tale decisione era confermata la C.T.R. della Campania, con sentenza depositata in data 10/3/2010 che rigettava l’appello dell’ufficio, sulla base dei rilievi, qui di seguito schematicamente riportati:
a) “l’ufficio non ha contestato l’affermazione dei primi giudici relativa alla mancata comunicazione”;
b) la circostanza, affermata nell’atto d’appello, che il contribuente sarebbe stato “informato con largo anticipo della pretesa tributaria vantata nei suoi confronti” e soprattutto sarebbe stato “messo in condizione di poter esercitare il suo diritto di difesa” resta indimostrata e, comunque, non varrebbe a integrare il diverso adempimento richiesto dall’art. 3, comma 37, punto 4, legge 23 dicembre 1996, n. 662, a mente del quale l’accertamento “é effettuato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente, anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro sessanta giorni dalla data di ricezione della richiesta”;
c) la stessa norma nel periodo precedente dispone testualmente che “se il reddito dichiarato dalle società o dagli enti che si presumono non operativi risulta inferiore a quello minimo di cui al comma 3, il reddito può essere determinato induttivamente in misura pari a quella presunta, anche mediante l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 41-bis
del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600″; non è quindi previsto il ricorso all’art. 36-bis del medesimo decreto;
d) infine, “considerata la natura della società, che risulta essere un’impresa industriale in stato di crisi, si ritiene che, come osservato anche dai primi giudici, si possa escludere che la stessa rientri nella disciplina delle società di comodo, risultando piuttosto una società che non era temporaneamente in grado di svolgere la propria attività caratteristica”.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, sulla base di due motivi.
La società contribuente, benché ritualmente evocata in giudizio, non ha svolto difese nella presente sede.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Con il primo motivo l’Agenzia ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ.; motivazione insufficiente illogica e contraddittoria sui punti controversi e decisivi della causa; in relazione all’art. 360, comma primo nn. 4 e 5, cod. proc. civ.
Lamenta che le affermazioni trascritte alle lettere a) e b) del paragrafo 1 della superiore parte narrativa sono logicamente incomprensibili, sia in sé che nella loro reciproca connessione. Con riferimento alla prima, e sul presupposto che con la stessa si intenda far riferimento alla formazione di un giudicato interno sulla questione dell’omesso invio della comunicazione, rileva che ad essa in realtà la sentenza di primo grado non fa nessun accenno e che, comunque, la stessa C.T.R. riconosce che nel proprio appello l’ufficio ha dedotto di aver tempestivamente informato il contribuente della propria pretesa.
Osserva inoltre che non è dato comprendere in cosa consisterebbe l’irregolarità commessa dall’ufficio, né quali ne sarebbero le conseguenze. Ove si intenda far riferimento alla comunicazione di irregolarità prevista dall’art. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per il caso di liquidazione automatizzata, rileva che la stessa non è prescritta a pena di nullità; ove invece si intenda far riferimento alla previsione di cui alt’art. 30, comma 4, legge 23 dicembre 1994, n. 724 (invito a fornire i chiarimenti) osserva che tale adempimento riguarda il solo caso in cui occorra procedere a preventivo accertamento.
4. Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 30 legge 23 dicembre 1994, n. 724, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ., censurando l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui la citata disposizione non consentirebbe di iscrivere direttamente a ruolo l’imposta dovuta dalle società di comodo, in base al reddito presuntivamente determinato ai sensi del precedente terzo comma, ma imporrebbe di procedere sempre ad accertamento.
Posto che la norma citata prevede espressamente l’ufficio debba procedere all’accertamento, previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente, “se il reddito dichiarato dalle società o dagli enti che si presumono non operativi risulta inferiore a quello minimo di cui al comma 3”, se ne desume, secondo la ricorrente, che nessun accertamento si rende invece necessario se il contribuente abbia dichiarato il proprio credito in misura pari a quello presunto, adeguando a tale importo i dati risultanti dal conto economico. Ipotesi questa che – sostiene l’Agenzia – ricorre nella specie dal momento che: la contribuente non ha barrato la casella contenuta nel rigo RF 55 del modello di dichiarazione che le avrebbe consentito di dichiararsi operativa e di sottrarsi, sotto sua responsabilità, alla presunzione di non operatività; ha quindi compilato la sezione di cui al quadro RF denominata “verifica dell’operatività e determinazione del reddito imponibile minimo dei soggetti non operativi”, così facendo emergere la condizione di soggetto non operativo; ha quindi calcolato il reddito presunto (da porre a base della liquidazione) in lire 875.248.000 (rigo RF 59, col. 5), pari al 12% del valore delle immobilizzazioni dell’esercizio, in piena conformità con le previsioni dell’art. 30, comma 3, legge 724/94.
5. Entrambe le censure non possono condurre all’accoglimento del ricorso in quanto dirette a contrastare solo alcune delle alternative rationes decidendi
poste a fondamento della sentenza impugnata ma non tutte, essendo rimasta invero ad esse estranea l’affermazione – indipendente dalle altre e in sé sufficiente a sorreggere la statuizione di rigetto dell’appello proposto dall’ufficio – sopra trascritta alla lettera d) del par. 1 della parte narrativa e che qui conviene riportare secondo cui “considerata Ia natura della società, che risulta essere un’impresa industriale in stato di crisi, si ritiene che, come osservato anche dai primi giudici, si possa escludere che la stessa rientri nella disciplina delle società di comodo, risultando piuttosto una società che non era temporaneamente in grado di svolgere la propria attività caratteristica”.
Affermazione questa che riguarda evidentemente il fondamento sostanziale della pretesa impositiva (ossia, l’applicabilità nel caso di specie della disciplina sulle società non operative, o “di comodo”, e della conseguente presunzione di reddito imponibile minimo) e che – varrà incidentalmente rilevare – non può considerarsi preclusa dall’essere la pretesa medesima fondata, ai sensi dell’art. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sui dati dichiarati dalla stessa contribuente nella dichiarazione dei redditi da essa presentata.
Come questa Corte ha infatti chiarito con ferma giurisprudenza, in caso di cartella di pagamento emessa ai sensi del d.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, l’atto non rappresenta la mera richiesta di pagamento di una somma definita con precedenti atti di accertamento, autonomamente impugnabili e non impugnati, ma riveste anche natura di atto impositivo, trattandosi del primo ed unico atto con cui la pretesa fiscale è stata esercitata nei confronti del dichiarante, con conseguente sua impugnabilità, ex art. 19 d.P.R. n. 546 del 1992, anche per contestare il merito della pretesa impositiva.
La cartella esattoriale emessa ex art. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1913, n. 600, può dunque essere impugnata, ai sensi del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, non solo per vizi propri ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva, poiché non rappresenta la mera richiesta di pagamento di una somma definita con precedenti atti di accertamento, autonomamente
impugnabili e non impugnati, ma riveste anche natura di atto impositivo, trattandosi del primo ed unico atto con cui la pretesa fiscale è stata esercitata nei confronti del dichiarante (v. ex aliis Cass., Sez. 5, n. 12288 del 12/06/2015, non mass.; Sez. 5, n. 1263 del 22/01/2014, Rv. 629155).
Ebbene tale ipotesi, alla stregua di ogni altra nella quale il contribuente contesti la fondatezza della pretesa impositiva, vede l’amministrazione gravata dell’onere di provare la sussistenza dei relativi presupposti.
Onere che la C.T.R. ha ritenuto evidentemente non assolto alla stregua di convincimento non fatto segno in questa sede di alcuna censura.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, in quanto diretto a contrastare solo alcune delle rationes decidendi e, per tal motivo, inidoneo comunque a privare di fondamento giustificativo la sentenza impugnata.
Non avendo controparte svolto difese nella presente sede, nessun provvedimento è da adottare in ordine alle spese.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
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