CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 14617 depositata il 15 luglio 2016
LAVORO – SETTORE DELL’ABBIGLIAMENTO SU MISURA – IMPRESA ARTIGIANA – ACCERTAMENTO – REQUISITO DELLA “PREVALENZA” DEL LAVORO DIRETTO DELL’IMPRENDITORE ARTIGIANO
Fatto e diritto
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 24 maggio 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
“P.M.A. ha proposto ricorso per revocazione avverso la sentenza di questa Corte n. 2463/14 del 4 febbraio 2014 che, decidendo sul ricorso proposto da essa attuale ricorrente contro la sentenza della Corte di Appello di Campobasso del 19 marzo 2008, lo aveva rigettato.
In particolare, la Corte territoriale aveva confermato la declaratoria di inammissibilità della domanda della P. volta ad ottenere, in contraddittorio con l’INPS – in proprio e nella qualità di mandatario della S.C.C.I. s.p.a. – l’accertamento, con effetto ex tunc e con i conseguenti diritti ed obblighi, della natura artigiana dell’impresa di cui essa era titolare (sartoria) sul rilievo che tale domanda, anche se fondata su una normativa sopravvenuta, era identica ad altra precedente pure rigettata e sulla quale si era formato il giudicato (a seguito di pronuncia di questa Corte n. 20943/04) la cui intangibilità era di ostacolo alla applicazione dello ius superveniens costituito dal D.P.R. n. 288 del 25.5.2001.
Questa Corte, con la sentenza di cui viene qui chiesta la revocazione, aveva ritenuto, per quello che rileva in questa sede, con riferimento ai motivi dal secondo al quarto (dei cinque sui quali era fondato il ricorso), che:
“lo “ius superveniens”, ove ne ricorrano i presupposti, è applicabile d’ufficio in ogni stato e grado, salvo che sulla questione controversa non si sia formato il giudicato; ne consegue che qualora, nelle more del giudizio in appello, venga introdotta una nuova norma che modifichi la materia “sub indice”, e di essa il giudice dell’appello non tenga conto, è necessario che la parte, per evitare che si produca una preclusione, alleghi specificamente, con i motivi di ricorso in cassazione, l’applicabilità della nuova normativa (Cass. n. 21382/08, Cass. n.12625/06, Cass. n. 19169/97), cosa nella specie non avvenuta, sicché la questione risulta effettivamente coperta dal precedente giudicato.
Nè può condividersi la tesi per cui il D.P.R. n. 288 del 2001 avrebbe dovuto trovare applicazione quanto meno ex mine. Ed invero il D.P.R. n. 288 del 2001, art. 1, lett. c) (settore dell’abbigliamento su misura), entrato in vigore dal 1 agosto 2001, stabilisce che: “1. Rientrano nell’abbigliamento su misura le attività di confezione e di lavorazione di abiti, capi accessori ed articoli di abbigliamento, militati su misura o sulla base di schifi, modelli, disegni e misure forniti dal cliente o dal committente, anche nei normali rapporti con le imprese committenti. 2. Tali attività vengono svolte secondo tecniche prevalentemente manuali, anche con l’ausilio di strumentazioni e di apparecchiature, ad esclusione di processi di lavorazione integralmente in serie e di singole fasi automatizzate di lavorazione, preservando così il requisito della “prevalenza” del lavoro diretto dell’imprenditore artigiano, inteso come fattore qualificante e distintivo dello stesso fenomeno “artigiano” (cfr in materia, Cass. n. 13648/04), sicché risulta comunque infondata la tesi della ricorrente, stante il pacifico accertamento, passato in giudicato, dello svolgimento dell’attività sartoriale in questione con lavorazione in serie anche se non del tutto automatizzata.
Orbene, la ricorrente a sostegno del ricorso de quo deduce che questa Corte, nella sentenza revocanda, sarebbe incorsa nei seguenti errori di fatto:
a) non avrebbe rilevato che lo “ius superveniens” di cui al D.P.R. n. 288 del 25.5.2001 era intervenuto nel corso della prima controversia (quella conclusasi con la sentenza di questa Corte n. 20943/2004) e che, in quel giudizio, ne era stata chiesta l’applicazione già in appello con memoria depositata il 18.10.2001;
b) avrebbe dichiarato, comunque, infondata la tesi di essa ricorrente sul rilievo che vi era stato il “pacifico accertamento, passato in giudicato, dello svolgimento dell’attività sartoriale in questione con lavorazione in serie anche se non del tutto automatizzata” laddove la decisione di questa Corte n. 20943/2004 aveva invece statuito che soltanto “la totale meccanizzazione del processo produttivo comporta, di per sé, l’attribuzione alle imprese del carattere industriale, a prescindere dalle relative dimensioni”; in altri termini, il precedente giudicato non aveva affatto negato la natura artigiana in base alla “lavorazione in serie non del tutto automatizzata”, bensì aveva ritenuto tale tipo di lavorazione come requisito dell’impresa artigiana, insieme al rispetto del numero dei dipendenti (9 per le imprese in genere ai sensi dell’art. 4, co. 10 lett. b) della legge n. 443/1985).
Il ricorso è inammissibile se vengono condivise le argomentazioni che seguono.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, idoneo a determinare la revocazione delle sentenze, comprese quelle della Corte di cassazione, deve consistere in un errore di percezione risultante dagli atti o dai documenti della causa direttamente esaminabili dalla Corte, vale a dire quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità e positivamente stabilita, sempre che il fatto del quale è supposta l’esistenza o l’inesistenza non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunziare. E quindi, deve: 1) consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente ed immediatamente rilevabile, tale da avere indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile; 2) essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa; 3) non cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata; 4) presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche; 5) non consistere in un vizio di assunzione del fatto, né in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo. Sicché detto errore non soltanto deve apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, ma non può tradursi, in un preteso, inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, ovvero di norme giuridiche e principi giurisprudenziali: vertendosi, in tal caso, nella ipotesi dell’errore di giudizio, inidoneo a determinare la revocabilità delle sentenze della Cassazione (fra le tante Cass. sez. un. 7217/2009, nonché 22171/2010; 23856/2008; 10637/2007; 7469/2007; 3652/2006; 13915/2005; 8295/2005).
Ciò detto, vale precisare che, entrambi gli errori denunciati non sono errori revocatoli nei termini sopra indicati.
Ed infatti, quanto alla doglianza sub a) si osserva che la sentenza di cui è stata chiesta la revocazione ha rilevato che alla applicazione ex tunc del D.P.R. n. 288/2001 ostava il giudicato formatosi nel giudizio conclusosi con la sentenza di questa Corte n. 20943/2004. Tale giudicato, peraltro, coprendo il dedotto ed il deducibile con riferimento al periodo pregresso, rendeva non più valutabile – nel presente giudizio – la circostanza che era stata chiesta l’applicazione dello ius superveniens (di cui al D.P.R. n. n. 288 del 2001 cit. ) già in grado di appello nel precedente giudizio. Del resto, dalle stesse affermazioni della ricorrente (“..la seconda tornata procedimentale è stata diretta ad ottenere quell’esame ed accertamento di merito che la Corte di Cassazione non aveva potuto fare.. “) emerge che con il giudizio de quo era stato chiesto anche il riesame della questione alla luce della normativa sopravvenuta.
Cosi pure l’errore sub b), essendo fondato sulla interpretazione della decisione di questa Corte n. 20943/2004, non presenta le caratteristiche, sopra indicate, per poter essere ritenuto errore revocatorio.
Per tutto quanto esposto, si propone la declaratoria di inammissibilità del ricorso con ordinanza, ai sensi dell’art. 391 bis cod. proc. civ.”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
La P. ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c. in cui si ribadisce: a) che non può ritenersi formatosi il giudicato sul periodo oggetto del giudizio conclusosi con la sentenza di questa Corte n. 20943/04 in quanto in tale decisione non vi era stata una pronuncia sul motivo in cui si lamentava la violazione dello ius superveniens di cui al D.P.R. 25.5.2001 integrativo dell’art. 4, co. 10, lett. c) della L n. 443/1985; b) che la relazione non si era pronunciata sul secondo motivo di revocazione costituito dalla violazione del giudicato di cui alla precedente sentenza n. 20943/2004.
Osserva il Collegio che le conclusioni di cui alla riportata relazione sono pienamente condivisibili.
Quanto alle argomentazioni esposte nella memoria ex art. 380 bis c. p.c., non può che ribadirsi quanto già chiarito nella relazione con riferimento al rilievo sub a). Riguardo all’osservazione sub b) è opportuno ricordare — in aggiunta al rilievo che l’interpretazione di un giudicato non integra un errore di fatto – che, comunque, il contrasto di giudicati non è previsto come motivo di revocazione delle sentenze di questa Corte (per tutte, cfr. Sez. U, Sentenza n. 23833 del 23/11/2015).
Alla luce di quanto esposto, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014), Inoltre, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d. P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in euro o 100,00 per esborsi, euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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