CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 16614 depositata il 8 agosto 2016
FALLIMENTO – DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO – IMPRESE SOGGETTE – IMPRENDITORE AGRICOLO – ESENZIONE DAL FALLIMENTO – LIMITI – IMPRENDITORE AGRICOLO PER CONNESSIONE – REQUISITI – ONERE DELLA PROVA – FATTISPECIE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 23/02/2012 il Tribunale di Catania dichiarava il fallimento di B.S., titolare dell’omonima ditta individuale, su ricorso della sig.ra S.M.S..
Con ricorso notificato in data 16/04/2012 la sig.ra B.S. proponeva reclamo, L. Fall., ex art. 18, deducendo la natura prettamente agricola dell’attivita’ esercitata ed il difetto, sia, delle qualita’ soggettive per l’assoggettamento a fallimento, L. Fall., ex art. 1, comma 2, sia, dei requisiti oggettivi ai fini della dichiarazione d’insolvenza, L. Fall., ex art. 5.
Con sentenza 8 Giugno 2012, la Corte d’appello di Catania rigettava il reclamo, motivando che l’impresa esercitava attivita’ di commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, freschi e conservati (congelati e surgelati), senza che fosse possibile rilevare l’estensione del terreno destinato a coltivazione, ne’ la consistenza e qualita’ della produzione: ivi compresa quella di agrumi, registrata, significativamente, come attivita’ secondaria;
che non era decisiva, in senso esimente, l’iscrizione nella sezione speciale del Registro delle imprese;
che la parte non aveva assolto l’onere della prova del mancato superamento dei limiti dimensionali di cui L. Fall., art. 1;
che lo stato di insolvenza era dimostrato da iscrizioni ipotecarie giudiziali per debiti erariali di ammontare superiore ad un milione e mezzo di euro (solo in parte contestato in sede giurisdizionale), come pure dal decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, per Euro 70.000,00, emesso dal Tribunale di Catania, sezione distaccata di Giarre, in favore della creditrice ricorrente S..
Avverso la sentenza, notificata il 26 giugno 2012, proponeva ricorso per cassazione la B., articolato in due motivi e notificato il 24 luglio 2012.
Deduceva:
1) la violazione degli artt. 2135 e 2221 c.c., D.Lgs. del 18 maggio 2001, n. 228, art. 1, (Orientamento e modernizzazione del settore agricolo, a norma L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 7) e L. Fall., art. 18, nell’errata qualificazione commerciale e nella mancata ammissione di prove testimoniali sulla natura agricola dell’impresa;
2) la violazione L. Fall., art. 5, e la carenza di motivazione in ordine all’accertamento dello stato di insolvenza.
Resisteva con controricorso la sig. S.M.S..
La causa veniva assegnata alla sesta sezione civile sulla base di una relazione ex art. 380 bis c.c., che proponeva il rigetto del ricorso.
Dopo il deposito di memoria di replica da parte della ricorrente, il collegio rimetteva le parti alla pubblica udienza con ordinanza 26 novembre 2014 e la causa passava in decisione, all’udienza del 19 aprile 2016, sulle conclusioni del P.G. e del difensore della parte ricorrente in epigrafe riportate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione degli artt. 2135 e 2221 c.c., D.Lgs. n. 228 del 2001, art. 1, nonche’ l’insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla qualificazione soggettiva dell’impresa B.S..
Il motivo e’ infondato.
La sentenza non sembra meritevole di censura sotto il profilo della corretta interpretazione delle disposizioni normative, ne’ con riguardo alla motivazione resa.
La corte territoriale ha negato natura di d’imprenditore agricolo alla ricorrente, in mancanza di prova che le attivita’ di conservazione e commercializzazione da lei esercitate, seppur rientranti, in astratto, tra le cd. attivita’ connesse previste dall’art. 2135 c.c., avessero ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del proprio fondo, secondo quanto ivi espressamente richiesto, quale discrimen tra impresa commerciale ed agricola.
Appare decisivo, al riguardo, il rilievo della corte d’appello di Catania – contrastato con richiami non verificabili, e comunque inammissibili in questa sede, a rogiti prodotti in sede istruttoria che l’imprenditore non abbia nemmeno dimostrato l’estensione del terreno impegnato e la qualita’ della produzione, in modo da mettere in evidenza un reale rapporto di connessione fra il commercio dei prodotti ortofrutticoli e l’attivita’ agraria espletata.
Sul punto e’ opportuno precisare, in tesi generale, che la parte che insti per il fallimento di un soggetto deve allegare e dimostrare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi idonei, in astratto, a dimostrarne l’assoggettabilita’ alla procedura concorsuale: e cioe’, la qualita’ di imprenditore e l’incapacita’ a soddisfare i debiti, ammontanti alla misura minima di legge, con mezzi ordinari di pagamento.
All’esito, resta invece a carico del debitore l’onere della prova di eventuali circostanze esimenti, quali la carenza dei requisiti dimensionali (L. Fall., art. 1), o l’esistenza di uno status imprenditoriale speciale che lo sottragga al fallimento.
Al riguardo, premesso che la riforma del diritto fallimentari ha ridefinito, con ricorso a parametri di natura quantitativa (attivo patrimoniale, ricavi lordi e indebitamento), l’ambito soggettivo della fallibilita’, abbandonando il ricorso alla nozione di piccolo imprenditore – e dunque, il criterio codicistico attinente all’attivita’ svolta ed alla prevalenza del lavoro proprio della famiglia sul capitale (artt. 2083 e 2221 c.c., Cass., sez. 1, 28 maggio 2010 n.13.086) – resta escluso dal fallimento (e dal concordato preventivo; ma non dagli accordi di ristrutturazione dei debiti, D.L. del 6 luglio 2011, n. 98, ex art. 23, comma 43, ne’ dallo strumento di cui alla L. n. 3 del 2012)) l’imprenditore agricolo, nonostante la sua relazione con il fondo si sia fortemente ridotta, nel tempo, in favore di aspetti prettamente commerciali e produttivi.
L’esenzione, storicamente giustificata con il rischio climatico ed ambientale, ha natura sostanzialmente implicita, desumibile “a contrario” dalla dizione della L. Fall., art. 1 e art. 2221 c.c., riferiti espressamente all’imprenditore commerciale (da intendere, appunto, contrapposto all’imprenditore agricolo).
In particolare, l’art. 2135 c.c., emendato dal D.Lgs. del 18 maggio 2001, n. 228, (che ha superato il vaglio di legittimita’ costituzionale, “in parte qua”: Corte Cost. del 20 aprile 2012, n. 104) ricollega alla nozione di impresa agricola anche l’attivita’ diretta alla fornitura di beni o servizi mediante utilizzazione prevalente di attrezzature e risorse dell’azienda.
E tuttavia, l’esonero dall’assoggettamento alle procedure fallimentare non puo’ ritenersi incondizionato: venendo meno quando sia insussistente, di fatto, il collegamento funzionale con la terra, intesa come fattore produttivo, o quando le attivita’ connesse di cui all’art. 2135 c.c., assumano rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura.
L’apprezzamento concreto della ricorrenza dei requisiti di connessione tra attivita’ commerciali ed agricole e della prevalenza di queste ultime, da condurre alla luce dell’art. 2135 c.c., comma 3, e’ rimesso al giudice di merito; restando insindacabile in sede di legittimita’, se sorretto da motivazione adeguata, immune da vizi logici.
Va cosi’ negata la qualita’ di impresa agricola quando non risulti la diretta cura di alcun ciclo biologico, vegetale o animale; pur se debba ritenersi superata una nozione meramente “fondiaria” dell’agricoltura, basata unicamente sulla centralita’ dell’elemento terriero (Cass., 10 novembre 2010 n. 24995; Cass. 28 aprile 2005 n.8849).
Entro questa cornice concettuale, il problema del riparto dell’onere della prova si risolve, in ultima analisi, sulla base della consueta distinzione tra fatti costitutivi – a carico della parte istante per il fallimento – ed impeditivi: questi ultimi, riconducibili alla connessione della trasformazione e commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli con l’attivita’ tipica di coltivazione di cui all’art. 2135, c.c., comma 1.
Tale criterio distributivo in parte e’ previsto dalla stessa legge, per quanto concerne i requisiti dimensionali che delimitano la “no failure zone” (L. Fall., art. 1, comma 2); in parte, dev’essere enucleato nel rispetto del canone della prossimita’ della prova, che identifica, nella specie, nell’imprenditore la parte onerata della dimostrazione di fatti o qualita’ esimenti a lui propri: a pena, in caso contrario, di imposizione di una probatio diabolica, inesigibile dal creditore, impossibilitato ad accedere ad informazioni interne allo svolgimento della vita aziendale (cfr. Cass., sez. 6, 31 maggio 2011 n. 12023; Cass., sez. 1,
20 agosto 2004, n. 16356, in tema di eccezione di esenzione da fallimento di impresa artigiana, secondo la previgente disciplina).
E’ bene chiarire, peraltro, che l’allegazione della natura agricola non integra un’eccezione in senso stretto; cosicche’ al giudice competono pur sempre poteri istruttori officiosi, con ruolo di supplenza, anche in grado d’appello, giustificati dagli interessi di natura pubblicistica sottesi alla dichiarazione di fallimento (Cass., sez. 1, 18 novembre 2011 n.24310; Cass., sez. 1, 17 marzo 1997, n. 2323).
Ma resta il fatto che, in assenza di prova della causa esimente, soccombe il soggetto che appaia rientrare, secondo i dati acquisiti nell’istruttoria prefallimentare, nel novero degli imprenditori commerciali.
Nel caso in esame, la natura agricola dell’impresa B. giustamente ritenuta dalla corte territoriale non desumibile dalla sola iscrizione nella sezione speciale del Registro delle Imprese, di valore non costitutivo e la cui attivita’ primaria, accertata sulla base di una visura C.C.I.A., consisteva nel commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, freschi e conservati, in astratto identificante un imprenditore commerciale – non e’ stata dimostrata, sotto il profilo della connessione con la coltivazione del proprio fondo; e vi sono anzi elementi di prova contraria, messi in evidenza in sentenza, che i prodotti venduti provenissero, in realta’, da una societa’ B., distinta ed autonoma dalla ditta individuale dichiarata fallita.
Una volta ricondotta quest’ultima nel novero delle imprese commerciali, la corte territoriale ha correttamente rilevato altresi’ la mancanza di prova – incombente a suo carico per espresso dettato normativo – dell’assenza dei presupposti dimensionali di cui L. Fall., art. 1.
Per il resto, le censure inerenti al vizio di motivazione circa la qualificazione soggettiva dell’impresa si palesano inammissibili, perche’ tendenti ad un riesame, nel merito, degli elementi istruttori apprezzati dalla corte territoriale; ed il ricorso appare altresi’ difettare di autosufficienza laddove lamenta, nel titolo riassuntivo della censura, la mancata ammissione di prove testimoniale, non riprodotte, poi, analiticamente, cosi’ da consentirne la valutazione del requisito di decisivita’.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione L. Fall., art. 5, e la contraddittorieta’ della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza dello stato di insolvenza.
Anche tale motivo e’ infondato.
E’ irrilevante, ai fini dei presupposti per la dichiarazione di insolvenza, la deduzione difensiva che la pretesa creditoria sottesa all’istanza di fallimento, ammontante ad Euro 73.596,84, sia stata tempestivamente contestata e sia tuttora sub judice nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo: essendo, a tal fine, sufficiente un accertamento incidentale da parte del tribunale fallimentare, all’esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell’istante (Cass.,sez. unite, 23 gennaio 2013 n. 1521).
Nella specie, la corte territoriale ha valorizzato, con argomentazione immune da vizi logici, la provvisoria esecutivita’ del decreto ingiuntivo ottenuto dalla S.; oltre che, in via presuntiva, l’omessa produzione, in sede prefallimentare, dello stesso atto di opposizione, impeditiva di una delibazione di probabile fondatezza.
Il ricorso e’ dunque infondato e va respinto.
L’obbiettiva incertezza giuridica della fattispecie giustifica l’integrale compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese di giudizio.
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