CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 16617 depositata il 8 agosto 2016
SOCIETÀ DI CAPITALI – SOCIETÀ COOPERATIVE – CAPITALE SOCIALE – PARTECIPAZIONE DEI SOCI – ESCLUSIONE DEL SOCIO – DELIBERA DI ESCLUSIONE – GIUDIZIO DI IMPUGNAZIONE – CHIAMATA IN CAUSA DI UN TERZO AD OPERA DELL’ATTORE – AMMISSIBILITÀ – LIMITI
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. – Con atto di citazione notificato il 5 giugno 1995 B.E. convenne in giudizio la Societa’ Cooperativa V. a r.l. dinanzi al Tribunale di Avellino chiedendo dichiararsi la nullita’ ovvero annullarsi la DDelib. consiglio di amministrazione della societa’ 9 maggio 1995 con cui ella era stata esclusa dalla compagine sociale per il mancato pagamento di cinque rate del debito di restituzione di un mutuo contratto dalla societa’ con un istituto bancario, il tutto con condanna della stessa convenuta al risarcimento dei danni.
A fondamento della domanda l’attrice denuncio’ l’illegittimita’ della sua esclusione, sia perche’ deliberata da un organo sociale che non ne aveva il potere, sia perche’ il mancato pagamento da parte sua era stato motivato dall’illegittimita’ delle deliberazioni assembleari, pure impugnate in altro giudizio, che avevano disposto il frazionamento del mutuo in quote uguali tra i soci, invece che in quote proporzionate al valore degli immobili assegnati ai singoli soci.
Con lo stesso atto di citazione la B. chiese ed ottenne di essere autorizzata a chiamare in causa P.N.C., presidente della medesima Societa’, al fine di estendere nei suoi riguardi la domanda risarcitoria.
Tanto la Societa’ Cooperativa V. a r.l. quanto il P. resistettero alla domanda.
2. – Dopo aver sospeso il giudizio in attesa della definizione di quello concernente le impugnazioni delle delibere assembleari collocate a monte del provvedimento di esclusione, e dopo la riassunzione dello stesso giudizio all’esito del passaggio in giudicato della sentenza resa nell’altra causa, il Tribunale di Avellino, revocata l’ordinanza con cui era stata autorizzata la chiamata in causa del P., respinse le domande della B., regolando di conseguenza le spese di lite.
3. – Contro la sentenza la B. propose appello al quale resistettero sia la Societa’ Cooperativa V. a r.l. sia il P. e che la Corte d’appello di Napoli respinse con sentenza del 5 luglio 2012.
La Corte territoriale osservo’:
che, nonostante la conformazione del giudizio di impugnazione della delibera di esclusione del socio, giudizio nel quale la societa’ ricopriva il ruolo di attore in senso sostanziale, nulla ostava a.che l’attore in senso formale operasse la chiamata in causa del terzo direttamente con l’atto di citazione, sicche’ correttamente il Tribunale aveva revocato l’ordinanza con la quale aveva in precedenza autorizzato la chiamata in causa del P.;
che la B. aveva ammesso di essere morosa, all’epoca della deliberazione di esclusione, “nel pagamento di una somma certamente non irrilevante”, tale da esporre la societa’ ad azioni esecutive dell’istituto di credito mutuante;
che le delibere concernenti il frazionamento del mutuo, impugnate dalla B., non erano state sospese, sicche’ ella avrebbe dovuto intanto pagare e quindi eventualmente ripetere quanto versato in piu’ rispetto al dovuto, con conseguente legittimita’ della deliberazione di esclusione.
4. – Per la cassazione della sentenza la B. ha proposto ricorso affidato a sette motivi illustrati da memoria.
La Societa’ Cooperativa V. a r.l. e il P. hanno resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
5. – Il ricorso contiene sette motivi.
5.1. – Il primo motivo e’ rubricato: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2377, 2379 c.c. e art. 2511 c.c. e segg., artt. 2516, 2527, 2533 c.c. e art. 2538 c.c. e segg., artt. 2697 e 2909 c.c., e degli artt. 99, 112, 115, 116 e 324 c.p.c., (art. 360 c.p.c., n. 3)”.
Si sostiene in breve che la dichiarazione di nullita’ per illiceita’ dell’oggetto della Delib. 28 febbraio 1992, con la quale la societa’ aveva previsto il riparto paritario del mutuo da rimborsare, nullita’ pronunciata in altro giudizio dal Tribunale di Avellino e confermata con sentenza passata in giudicato dalla Corte d’appello di Napoli, comportava l’insussistenza del credito in dipendenza del quale essa B. era stata esclusa dalla societa’, come era del resto reso manifesto dalla circostanza che lo stesso Tribunale di Avellino, nel corso del procedimento avente ad oggetto l’impugnazione della delibera in discorso, aveva disposto la sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., proprio in attesa della definizione del giudizio sulle delibere a monte.
5.2. – Il secondo motivo e’ rubricato: “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5 vecchio testo, ratione temporis)”.
Si sostiene che la Corte d’appello avrebbe omesso di valutare il fatto decisivo costituito dal passaggio in giudicato della sentenza che aveva travolto la Delib. assembleare 28 febbraio 1992.
5.3. – Il terzo motivo e’ rubricato: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2377, 2379, 2516 e 2533 c.c., artt. 99, 112, 116, 183, 184, 306 e 345 c.p.c., art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3 e 4)”.
La B. sostiene che, all’epoca della esclusione dalla societa’, aveva gia’ versato piu’ del 90% degli importi dovuti, ossia Euro 64.443,05 a fronte di 69.721,68, sicche’, in ogni caso, la somma a debito non poteva essere considerata “non irrilevante” come aveva fatto la Corte d’appello, neppure essendo vero che l’inadempimento avrebbe esposto la cooperativa all’azione esecutiva dell’istituto mutuante, dovendo la medesima cooperativa responsabilmente reperire i fondi necessari al pagamento, tanto piu’ che ella, nel corso del giudizio di impugnazione della delibera di esclusione, aveva versato l’intero importo del mutuo a lei accollato, come risultante da documenti prodotti, che la controparte aveva ingiustificatamente sostenuto essere stati depositati tardivamente e che, comunque, erano stati nuovamente prodotti in sede di appello.
In tale contesto, dunque, doveva escludersi che la condotta di essa B. potesse impedire il raggiungimento dello scopo sociale e, cosi’, potesse giustificare la delibera di esclusione.
5.4. – Il quarto motivo e’ rubricato: “Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
La doglianza e’ volta ad attaccare la valutazione compiuta dalla Corte territoriale in ordine alla misura “non irrilevante” dell’inadempimento posto in essere dalla B. dall’angolo visuale del vizio motivazionale.
5.5. – Il quinto motivo e’ rubricato: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2377, 2379, 2516, 2533 e 2697 c.c., artt. 99, 112, 115, 116, 183, 184, 306 e 345 c.p.c., (art. 360 c.p.c., n. 3 e 4)”.
Il motivo e’ volto a sostenere l’irrilevanza della circostanza, valorizzata invece dalla Corte d’appello, che le delibere concernenti il frazionamento del mutuo non fossero state sospese dal giudice in sede di impugnazione. La tesi svolta si riassume in cio’, che la mancata sospensione delle delibere avrebbe giustificato l’azione esecutiva nei confronti di essa B., ma non la deliberazione di esclusione.
5.6. – Il sesto motivo e’ rubricato: “Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
Il motivo affronta lo stesso punto esaminato con il motivo precedente sotto il profilo del vizio di motivazione.
5.7. Il settimo motivo e’ rubricato:
“Violazione e falsa applicazione degli art. 2377 c.c. e segg., art. 2511 c.c. e segg., artt. 99, 100, 101, 103, 115, 116, 163, 183, 184, 269 e 645 c.c. e segg. (art. 360 c.p.c., n. 4)”.
Sostiene la B. che la Corte d’appello avrebbe errato nel confermare la pronuncia del tribunale nella parte in cui aveva ritenuto legittima la revoca del provvedimento con cui era stata autorizzata la chiamata in causa del P..
6. – Il ricorso va accolto nei limiti che seguono.
6.1. – Il primo motivo e’ fondato.
Con sentenza del 20 marzo 2000 il Tribunale di Avellino ha dichiarato la nullita’ della Delib. assembleare 28 febbraio 1992 con la quale la societa’ aveva approvato la contabilita’ finale, ripartendo in parti uguali tra i soci i costi di costruzione, in violazione del principio mutualistico caratterizzante la disciplina cooperativistica, sensibilmente diverse essendo le dimensioni e le altre caratteristiche delle diverse unita’ immobiliari, con il conseguente valore.
Ora, intanto una morosita’ della B. avrebbe potuto essere configurata, da parte della Corte d’appello, in quanto non fosse venuta a mancare ex tunc, per effetto della dichiarazione di nullita’, la deliberazione che aveva approvato la contabilita’ finale e, con essa, il riparto definitivo delle somme dovute da ciascun socio: nulla rilevando, evidentemente, che la stessa B. non avesse pagato nonostante la mancata sospensione dell’esecutivita’ di detta deliberazione, per l’ovvia considerazione che la socia risulta in definitiva non aver pagato cio’ che non doveva pagare, attesa la nullita’, e dunque la radicale improduttivita’ di effetti, della citata deliberazione.
Ne’ potrebbe obiettarsi, in contrario, come vorrebbe la Societa’ Cooperativa V. a r.l., che il Tribunale di Avellino, e successivamente la Corte d’appello di Napoli, non aveva accolto la domanda di dichiarazione della nullita’ o di annullamento
della precedente Delib. 14 luglio 1991, con cui il presidente del consiglio di amministrazione era stato autorizzato a stipulare l’atto finale di erogazione e di quietanza del mutuo con relativo frazionamento del medesimo.
Il punto, infatti, e’ che la Corte d’appello di Napoli e’ incorsa in un palese errore nel giudicare come se la Delib. 28 febbraio 1992 non fosse stata affatto dichiarata nulla, limitandosi ad osservare che, in mancanza del rilascio di sospensiva, la B. doveva comunque pagare quanto richiestole per poi eventualmente ripetere: viceversa, preso atto che la delibera di esclusione non poteva trovare fondamento sulla Delib. 28 febbraio 1992, travolta dalla dichiarazione di nullita’, la Corte territoriale avrebbe dovuto anzitutto scrutinare se la deliberazione dinanzi ad essa impugnata, ossia la deliberazione di esclusione della B., fosse stata altresi’ motivata dalla violazione di obbligazioni derivanti dalla deliberazione del 14 luglio 1991 e quindi verificare se una simile violazione, ove dedotta a fondamento della deliberazione di esclusione, fosse sussistente oppure no, alla stregua delle prove offerte dalla societa’, avuto riguardo principio secondo cui: “Nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di una societa’ cooperativa, incombe sulla societa’ – che, pur se formalmente convenuta, ha sostanziale veste di attore – l’onere di provare i fatti posti a fondamento dell’atto impugnato” (Cass. 26 settembre 2013, n. 22097; Cass. 6 marzo 2003, n. 3342; Cass. 20 luglio 1993, n. 8096).
6.2. – Il secondo, terzo, quarto, quinto e sesto motivo sono assorbiti.
6.3. – Il settimo motivo e’ infondato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta.
Questa Corte ha recentemente ribadito, come si accennava poc’anzi, che “nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di una societa’ cooperativa, incombe su quest’ultima l’onere di provare i fatti posti a base della deliberazione impugnata. La veste processuale di convenuta e’ infatti puramente formale; non diversamente che in qualsiasi altro giudizio a struttura oppositiva o impugnativa di un provvedimento giudiziale; o anche negoziale, ma a contenuto vincolato a requisiti formali e sostanziali sindacabili nel merito (e dunque, non espressione di autonomia negoziale nella fase dell’an). Costituisce esempio della tipologia in esame l’opposizione a decreto ingiuntivo, in cui l’onere della prova del credito incombe sull’opposta, attrice sostanziale e convenuta formale (giur. costante: Cass. 11 marzo 2011, n. 5915; Cass. 3 marzo 2009 n. 5071; Cass. 17 novembre 2003, n.17371). Analogo riparto dell’onere della prova si verifica nella materia – per certi versi, affine al caso in esame – dell’impugnazione del licenziamento del dipendente per giusta causa o giustificato motivo (Cass. 14 marzo 2013, n. 6501; Cass. 14 maggio 2012, n. 7474)”.
Cio’, tuttavia, non comporta affatto l’integrale applicazione all’impugnazione della delibera assembleare di esclusione del socio delle regole processuali dettate per l’opposizione a decreto ingiuntivo e, in particolare, di quella, piu’ volte ribadita da questa Corte, secondo cui: “L’opponente a decreto ingiuntivo che intenda chiamare in causa un terzo non puo’ direttamente citarlo per la prima udienza ma deve chiedere al giudice, nell’atto di opposizione, di essere a cio’ autorizzato, determinandosi, in mancanza, una decadenza rilevabile d’ufficio ed insuscettibile di’ sanatoria per effetto della costituzione del terzo chiamato, ancorche’ questi non abbia, sul punto, sollevato eccezioni, in quanto il principio della non rilevabilita’ di ufficio della nullita’ di un atto per raggiungimento dello scopo si riferisce esclusivamente all’inosservanza di forme in senso stretto, e non di termini perentori, per i quali vigono apposite e distinte norme” (da ultimo tra le tante Cass. 29 ottobre 2015, n. 22113).
Ed infatti, detta regola discende dalla circostanza che, nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudizio e’ introdotto dal ricorso per ingiunzione, cui segue l’adozione del provvedimento giurisdizionale che mediante l’opposizione si intende demolire, sicche’ l’opponente, con l’atto di opposizione, deve rivolgersi al soggetto che ha ottenuto il decreto ingiuntivo, non potendo le parti originariamente essere altre che il soggetto istante per l’ingiunzione di pagamento ed il soggetto nei cui confronti la domanda e’ rivolta: tale la ragione per cui l’opponente deve necessariamente chiedere al giudice, con lo stesso atto di opposizione, l’autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritiene comune la causa (Cass. 27 giugno 2000, n. 8718; Cass. 27 gennaio 2003, n. 1185; Cass. 1 marzo 2007, n. 4800; Cass. 19 ottobre 2015, n. 21101).
Evidentemente tale esigenza non ricorre nell’ipotesi di impugnazione della deliberazione di esclusione del socio, che non e’ volta a demolire un preesistente provvedimento giurisdizionale, sicche’ senz’altro colui che propone l’impugnazione puo’, avvalendosi della disciplina dettata dall’art. 103 c.p.c., cumulare la domanda di annullamento della deliberazione ad altra domanda nei confronti di un terzo, a condizione che fra le cause proposte vi sia connessione per l’oggetto o per il titolo.
Per converso, una volta introdotto il giudizio, l’attore non ha altra possibilita’ di chiamare in causa un terzo se non nei limiti stabiliti dall’art. 183, comma 5, il quale gli consente di effettuare la chiamata, previa autorizzazione, ai sensi degli artt. 106 e 269, comma 3, solo se l’esigenza e’ sorta dalle difese del convenuto.
Sicche’ correttamente la Corte d’appello, sebbene con motivazione errata, ha confermato la statuizione del Tribunale che aveva revocato l’autorizzazione alla chiamata in causa del P..
7. – In conclusione la sentenza deve essere cassata in relazione al motivo accolto, mentre il ricorso proposto nei confronti del P. va respinto, potendosi in proposito le spese compensare in considerazione della novita’ della questione.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo del ricorso proposto nei confronti della Societa’ Cooperativa V. a r.l., assorbiti il secondo, terzo, quarto, quinto e sesto, e rigetta il settimo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese, nei rapporti tra la B. e la cooperativa, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione. Compensa le spese tra la B. ed il P..
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