CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 17247 depositata il 23 agosto 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO – SECONDO LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA O PER GIUSTIFICATO MOTIVO – TUTELA REALE
Svolgimento del processo/Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione eo falsa applicazione dell’art. 1, commi 49 e 51, della L. n. 922012, ex art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, c.p.c.
Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente inammissibile il reclamo, nonostante il provvedimento impugnato fosse stato definito dal Tribunale come sentenza. Evidenzia peraltro che correttamente il Tribunale aveva emesso sentenza, avendo dichiarato l’inammissibilità del ricorso (per difetto di interesse, non avendo ancora il licenziamento prodotto i suoi effetti), e non già accolto o respinto la domanda, come previsto dall’art. 1, comma 49.
Lamenta comunque l’ingiustizia del mancato esame nel merito della controversia per un errore processuale (in tesi) compiuto dal Tribunale.
Il motivo è infondato.
Esso si basa sull’insussistente postulato che nel giudizio di impugnazione di un licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 L. n. 3001970, sussista processualmente un doppio binario: quello di cui commi 47 e seguenti dell’art. 1 L. n. 9212, e quello ordinario per quanto ivi non disciplinato.
La Corte deve tuttavia rimarcare che per il giudizio di impugnazione di un licenziamento, instaurato successivamente al luglio 2012, soggetto alla disciplina di cui all’art. 18 L. n. 3001970, la citata L. n. 9212 prevede un solo procedimento, connotato da indubbia specialità, disciplinato dall’art. 1, commi 47 e segg., che non consente l’applicazione delle norme processuali previste in generale dagli artt. 414 e seguenti del codice di rito, mancando una disposizione che ad esse rinvii per quanto ivi non previsto, come ad esempio stabilito dall’art. 359 c.p.c.
Per tali ragioni non è evidentemente neppure invocabile il principio sul mutamento di rito o di conversione degli atti, invocato dal ricorrente.
Quanto all’obiezione secondo cui la ritenuta inammissibilità del ricorso, da parte del Tribunale, per non sussistere le condizioni di cui all’art. 18 L. n. 30070, ben consentiva la proposizione del giudizio secondo l’ordinario rito del lavoro, deve osservarsi che il ricorrente neppure produce la sentenza del Tribunale (secondo la Corte d’appello contenente il ‘rigetto’ della domanda) e che tale affermazione mal sì concilia con la proposizione del reclamo secondo il cd. rito Fornero in tema di licenziamenti, e non piuttosto la proposizione di autonoma e nuova domanda ex artt. 409 e segg. c.p.c.
Questa Corte ha inoltre già osservato che, giusta il chiaro tenore delle norme in esame, avverso l’ordinanza resa ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 49, è previsto non già l’appello, bensì l’opposizione innanzi allo stesso giudice (L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51), laddove soltanto avverso la sentenza resa a seguito di detta opposizione è ammessa l’impugnazione, a mezzo di reclamo, innanzi alla Corte d’Appello (L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58), conseguentemente avverso l’ordinanza L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 49, non può quindi trovare applicazione il ricorso per saltum di cui all’art. 360 c.p.c., comma 2, siccome contemplato soltanto in relazione a una “sentenza appellabile” (Cass. 9.5.14 n. 10133).
Non v’è dubbio, ed è anzi pacifico, che nella specie sia stata proposta giudizialmente una impugnativa di licenziamento con richiesta di reintegra, ai sensi dell’art. 1, comma 47, L. n. 9212.
E’ dunque evidente che contro il provvedimento, da considerarsi necessariamente, quale che sia il nomea ad esso attribuito, ordinanza ai sensi dell’art. 1, comma 49, L. cit., che decide l’accoglimento o il rigetto (all’interno della cui ultima categoria deve ricondursi anche l’eventuale declaratoria di inammissibilità) del ricorso (di impugnativa del licenziamento), è prevista l’opposizione dinanzi allo stesso giudice (Tribunale), ex art. 1, comma 51, e non già il reclamo dinanzi alla Corte d’appello (di cui al successivo comma 58).
2.- Con il secondo motivo il ricorrente deduce la sopravvenuta inefficacia del licenziamento in questione per effetto di un successivo licenziamento intimatogli in data 31.10.14 per superamento del periodo di comporto. Evidenzia che la stessa società aveva ammesso, nella memoria di costituzione nel ‘giudizio di reclamo’ innanzi alla Corte d’appello di Roma, che la società aveva posto nel nulla il precedente licenziamento.
Il motivo è infondato.
Il ricorrente non produce la memoria di costituzione in sede di reclamo della società ASA, sicché non può che prendersi atto di quanto dichiara la medesima società in questa sede circa l’insussistenza di qualsiasi manifestazione di volontà nel senso della sopravvenuta cessazione della materia del contendere. Deve infatti considerarsi che la mancata adesione della società a tale conclusione (cfr. Cass. 22 dicembre 2006 n. 27460; Cass. 9 agosto 2002 n. 12090; Cass. 24 giugno 2000 n. 8607; Cass. 22 gennaio 1997 n. 622), risulta decisiva, posto che la cessazione della materia del contendere costituisce una fattispecie di sopravvenuta carenza di interesse delle parti alla naturale conclusione del giudizio, la quale può essere dichiarata soltanto quando i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento della situazione e sottopongano al giudice conclusioni conformi; pertanto, deve escludersi che possa dichiararsi siffatta cessazione della lite per avere una delle parti allegato e provato l’insorgenza di fatti astrattamente idonei a privare essa stessa o la controparte dell’interesse alla prosecuzione del giudizio e quando, come nella specie, nelle rispettive conclusioni ciascuno abbia insistito sulle originarie domande (Cass. 13 giugno 2008 n. 16017; Cass. 8 novembre 2007 n. 23289). Ed infatti se è pur vero che la cessazione della materia del contendere, dedotta da una sola delle parti, non necessita di accettazione (come la rinuncia agli atti del giudizio), essa può essere dichiarata, anche d’ufficio, solo nel caso in cui risulti chiaramente acquisito in causa che non sussiste più contestazione tra le parti sul diritto sostanziale azionato (Cass. 20 marzo 2009 n. 6909; Cass. 21 agosto 1991 n. 9007; Cass. 19 marzo 1990 n. 2267).
Deve poi rimarcarsi che secondo il più recente e condiviso orientamento di legittimità (cfr. Cass. n. 2739013, Cass. n. 124411, Cass. n. 197709), “il licenziamento illegittimo intimato ai lavoratori ai quali sia applicabile la tutela reale non è idoneo ad estinguere il rapporto al momento in cui è stato intimato, determinando solamente una interruzione di fatto del rapporto di lavoro senza incidere sulla sua continuità e permanenza. Ne consegue che, ove venga irrogato un secondo licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, fondato su fatti diversi da quelli posti a sostegno del primo provvedimento di recesso, i relativi effetti si produrranno solo nel caso in cui il precedente recesso venga dichiarato illegittimo. Con l’ulteriore conseguenza che il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo, con la conseguenza che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente”. In particolare, nel disattendere il precedente diverso indirizzo (ora invocato dal ricorrente) in base al quale, nell’area della stabilità reale, un secondo licenziamento, ove irrogato prima dell’annullamento del precedente licenziamento, sarebbe privo di effetto, in quanto interverrebbe su un rapporto non più esistente, questa Corte (v. giurisprudenza sopra citata, cui adde Cass. n. 6055/2008) ha rilevato che tale impostazione non appare condivisibile poiché si limita a considerare solamente l’aspetto degli effetti caducatori della pronunzia di illegittimità del licenziamento per carenza di giusta causa o giustificato motivo, enfatizzando il dato testuale della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1 (nel testo introdotto dalla L. n. 108 del 1990), a proposito della qualificazione di azione di annullamento dell’impugnazione del recesso per giusta causa o giustificato motivo (“il giudice, con la sentenza con cui… annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo…”), senza tenere conto del significato complessivo della norma. La norma, infatti, prevede che nel caso di annullamento del recesso disposto dal giudice per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, scattino a favore del lavoratore una serie di conseguenze favorevoli per il lavoratore (reintegrazione nel posto di lavoro, pagamento di un’indennità pari alla retribuzione di fatto che sarebbe maturata tra il licenziamento e la reintegrazione, versamento dei contributi previdenziali per il periodo tra licenziamento e reintegrazione) che postulano che il rapporto medio tempore sia continuato, seppure solamente de iure. In altre parole, non può negarsi che l’annullamento abbia natura costitutiva e che gli effetti della pronunzia abbiano effetto ex tunc; tuttavia, esso interviene in una situazione in cui il rapporto non è stato interrotto dal licenziamento (si veda in tal senso Corte Cost. 14.1.86 n. 7).
Può ritenersi, dunque, che il licenziamento illegittimo, intimato a lavoratori per i quali è applicabile la tutela cosiddetta reale, determina solo un’interruzione di fatto del rapporto di lavoro, ma non incide sulla sua continuità, assicurandone la copertura retribuiva e previdenziale, di modo che “il recesso illegittimo non può valere ad escludere la debenza, dei contributi previdenziali sulle retribuzioni dovute al lavoratore reintegrato” (cfr. Cass. 1.3.05 n. 4261).
La continuità e la permanenza del rapporto rende quindi ammissibile l’irrogazione di un secondo licenziamento, pur chiaramente destinato ad operare solo in caso di annullamento di quello precedente.
3.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 1152, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.100,00 per esborsi, €.5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 1152, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente (principale), dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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