CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 17303 depositata il 24 agosto 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO – INDENNITA’ DI DISOCCUPAZIONE – RISOLUZIONE CONSENSUALE – NON SPETTA
Fatto
Con sentenza depositata il 4.6.2009, la Corte d’appello di Torino rigettava l’appello proposto da S.F.B. avverso la pronuncia con cui il giudice di prime cure gli aveva negato l’indennità di disoccupazione.
La Corte in particolare riteneva che, essendo esclusa la spettanza dell’indennità in questione nel caso di dimissioni, ad analoga soluzione dovesse pervenirsi per il caso in cui il rapporto di lavoro fosse cessato a seguito di risoluzione consensuale, tanto più che nella specie non era stata provata la sussistenza di alcuna giusta causa di recesso.
Contro questa pronuncia ricorre S.F.B. affidandosi a due motivi. Resiste l’INPS con controricorso, illustrato da memoria.
Diritto
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 34, comma 5, I. n. 448/1998, per avere la Corte di merito ritenuto che la disposizione citata, nella parte in cui prevede che il diritto all’indennità di disoccupazione non sorga per il caso di dimissioni, potesse applicarsi analogicamente all’ipotesi di risoluzione consensuale consacrata in una transazione.
Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della medesima disposizione dianzi cit., per avere la Corte territoriale ritenuto che l’impossibilità di progressione in carriera e di crescita professionale non costituissero giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro.
Entrambi motivi possono trattarsi congiuntamente, stante l’intima connessione delle censure svolte, e sono infondati.
L’art. 34, comma 5, l. n. 448/1998, abrogando le previgenti disposizioni di cui agli artt. 75 e 76, r.d.l. n. 1827/1935, ha stabilito, per quanto qui interessa, che la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni non dà diritto all’indennità di disoccupazione ordinaria, e sulla scorta di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione cit., che induce a ritenere che l’esclusione dal beneficio non si estenda alle ipotesi in cui le dimissioni non siano riconducibili alla esclusiva e libera scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione della improseguibilità del rapporto (v. in tal senso Corte cost. n. 269 del 2002), questa Corte di legittimità ha già avuto modo di ritenere che codesta esclusione riguarda essenzialmente chi, avendo la possibilità di proseguire il proprio rapporto di lavoro, rinunzia al posto, ponendosi in tal caso spontaneamente nella posizione di disoccupato (cfr. Cass. n. 1590 del 2004).
Se dunque per un verso deve convenirsi con la sentenza impugnata allorché afferma che, ai fini in discorso, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, nessuna differenza concettuale sussistendo fra la dichiarazione di volontà necessariamente recettizia con cui il lavoratore pone unilateralmente fine al rapporto di lavoro e quella destinata a confluire, in uno con la speculare dichiarazione del datore di lavoro, nell’accordo relativo ad un contratto di transazione, deve per altro verso escludersi che il mero condizionamento derivante dalla sussistenza di trattative volte a prevenire o por fine ad una lite possa di per sé solo inficiare la libera determinazione del volere del lavoratore: ciò che conta è la sussistenza in concreto della possibilità che egli prosegua il rapporto di lavoro. E se ciò spiega in positivo il motivo per cui l’indennità in questione ben può essere riconosciuta allorché risulti provato che l’adesione del lavoratore alla proposta risolutiva del rapporto, intervenuta nel corso di un processo di ristrutturazione aziendale della società datrice di lavoro, fosse da ricollegarsi allo scopo di prevenire il licenziamento (come nel caso deciso da Cass. n. 1590 del 2004, cit.), induce a contrario a ritenere che, in assenza di prova in concreto di una giusta causa di dimissioni, nessun diritto al trattamento di disoccupazione possa pretendere il lavoratore che sia unilateralmente receduto dal rapporto o vi abbia comunque posto negozialmente (e dunque volontariamente) fine.
Vale piuttosto precisare che una siffatta giusta causa, contrariamente a quanto assunto da parte ricorrente, non è certamente ravvisabile nell’asserita impossibilità per il lavoratore di progredire in carriera e di crescere professionalmente in conseguenza della legittima determinazione aziendale di chiudere il reparto di cui egli era responsabile: la nozione di giusta causa, infatti, è da ricollegare o ad un gravissimo inadempimento (cfr. da ult. Cass. n. 25384 del 2015) ovvero ad un’altra causa oggettivamente idonea a ledere il vincolo fiduciario (v. in tal senso Cass. n. 3136 del 2015) e tanto non può dirsi per la lesione delle pur legittime aspettative di progressione in carriera e di crescita professionale che un lavoratore normalmente ricollega allo svolgersi del rapporto di lavoro, trattandosi – almeno fintanto che la condotta datoriale non sconfini in una violazione dell’art. 2103 c.c. – di aspettative di mero fatto.
Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi € 2.100,00, di cui € 2.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
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