CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 17810 depositata il 9 settembre 2016
TRIBUTI – ACCERTAMENTO – PROFESSIONISTA – EVASIONE MEDIANTE SOTTOFATTURAZIONE DEI COMPENSI – DICHIARAZIONI DEI CLIENTI DEL PROFESSIONISTA – VALORE INDIZIARIO E PROVA PRESUNTIVA VALIDA
Ritenuto in fatto
1. Con processi verbali di constatazione e in particolare a seguito di elementi forniti da clienti del notaio (…) la Guardia di finanza appurava che il professionista operava in evasione d’imposta. Su tali presupposti il fisco emetteva atto impositivo per l’anno 2003, dal quale scaturiva contenzioso giudiziario conclusosi in primo grado in senso favorevole al contribuente, giusta decisione della commissione tributaria provinciale di Caserta n. 240-2006-18.
2. Per la parziale riforma di tale sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto, con successo, appello perché fosse confermata la legittimità della ripresa fiscale limitatamente al maggiori compensi non dichiarati e sottoposti a tassazione. L’impugnazione è stata accolta giusta decisione della commissione tributaria regionale della Campania n. 160-2008-20.
2.1 In estrema sintesi il giudice di secondo grado ha “…rilevato che fa G.d.F. ha provveduto ad interpellare numerosi clienti del notaio (…) sia residenti nel distretto di competenza che extra distretto, accertando nella maggior parte dei casi esaminati (quantificabili nel 39%) il versamento di importi superiori a quelli fatturati sulla base di riscontri oggettivi, costituiti da fotocopie di assegni e da matrici di assegni; per un residuo del 26%. Inoltre, i clienti interpellati hanno indicato il numero dell’assegno mediante il quale avevano provveduto al pagamento, mentre solo nel residuo 35% dei casi i clienti avevano dichiarato di aver pagato per contanti”. Da tutto ciò ha tratto il convincimento che “per la maggior parte dei casi, dunque, non si è in presenza di semplici informazioni, ma ci si trova di fronte a dichiarazione suffragate da ulteriori riscontri – consistenti in elementi di fatto – che hanno consentito una ricostruzione analitica dei redditi non dichiarati”, precisando che “la produzione di dichiarazioni terzi […] non è preclusa ma lasciata al vaglio del giudice per quanto possa concorrere alla formazione dei proprio convincimento”. Di contro il contribuente “si è limitato ad affermare che le differenze tra le somme versategli e quelle fatturate sarebbero da imputare a spese anticipate per i clienti, senza argomentare alcunché suda circostanza che le somme imputate ad onorari risultano sempre molto inferiori alle presunte spese e senza fornire alcun elemento probatorio al riguardo”.
2.2. Sul piano delle forme, il giudice d’appello ha ritenuto che “l’ufficio abbia adempiuto all’onere probatorio su lui gravante, perfezionando tale adempimento con la produzione integrale degli allegati ai p.v.c.” e ha osservato che “tale produzione, da ritenersi ammissibile ai sensi dell’art. 58 comma 2 D.Lgs. 546/92, integra […] l’obbligo di produrre gli atti richiamati nella motivazione per relationem considerato che nel caso di specie l’atto presupposto (il p.v.c. con i relativi allegati) era già a conoscenza del contribuente per averlo confermato e sottoscritto”.
3. Per la cassazione della decisione d’appello, la parte privata propone ricorso affidato a cinque motivi. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Considerato in diritto
0. Preliminarmente, si rileva la carenza di legittimazione processuale dell’altro soggetto evocato dinanzi a questa Corte, li Ministero dell’economia e delle finanze, che non è stato parte nel giudizio di merito (v. sentenza di appello) ed è oramai estraneo al contenzioso tributario dopo la creazione delle agenzie fiscali. La chiamata ministeriale in sede di cassazione è, dunque, inammissibile e il ricorso va esaminato unicamente riguardo all’Agenzia delle entrate che è la sola a essere legittimamente intimata.
1. Con il primo motivo di ricorso, il contribuente denuncia la violazione di norme di diritto sostanziali (artt. 32 e 39 d.P.R. 600/1973, art. 51 d.P.R. 633/1972, art. 2697 cod. civ.) censurando la sentenza d’appello laddove non rileva l’asserito difetto di motivazione dell’atto impositivo e ritiene fondata la ricostruzione del reddito mediante l’utilizzo d’informative assunte senza contraddittorio presso clienti e di riscontri costituiti da fotocopie, matrici e numeri di assegni e da asserzioni di pagamenti in contanti, il tutto in assenza di ulteriori elementi volti a conferire certezza al quadro probatorio.
Il motivo non è fondato.
Com’è noto, le dichiarazioni rese da un terzo, inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione e recepite nell’avviso di accertamento, hanno valore indiziario e possono assurgere a fonte di prova presuntiva, concorrendo a formare il convincimento del giudice anche se non rese in contraddittorio con il contribuente, senza necessità di ulteriori indagini da parte dell’Ufficio (conf., ex plurimis, Cass. 6946/15). Il diritto interno, tanto in materia di imposte dirette (d.P.R. 600/1973, art. 39, comma 2, e art. 41 comma 2) quanto in tema d’imposta sul valore aggiunto (d.P.R. 633/1972, artt. 54 e 55, comma 1) consente l’ingresso nell’accertamento fiscale, prima, e nel processo tributario, poi, di elementi comunque acquisiti e, dunque, anche di prove atipiche ovvero di dati acquisiti in forme diverse da quelle regolamentate (d.P.R. 600/1973, art. 32 e 33; d.P.R. 633/1972, art. 51), secondo i canoni caratteristici della prova per presunzioni. Riguardo alla prova dei fatti giuridici la dottrina civilistica ha da tempo chiarito che “un dato incontestabile è che tali elementi non sono predeterminati nè predeterminabili dalla legge, poiché qualunque cosa, documento o dichiarazione può costituire fa base per una inferenza presuntiva idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti della causa. Si può dunque ravvisare nella categoria delle presunzioni semplici (salvo i limiti di cui all’art. 2729 cod. civ.), la via attraverso la quale le prove atipiche possono entrare nel processo civile”. Si è aggiunto nella dottrina tributaria che “i requisiti tipici di una presunzione semplice non può essere stabilita a priori, ma consegue unicamente alla concreta valutazione del contenuto indiziario degli elementi tipici”, con la precisazione giurisprudenziale che gli elementi assunti a fonte di presunzione non devono essere necessariamente plurimi potendosi il convincimento del giudice fondarsi anche su un elemento unico, purché preciso e grave, mentre la valutazione della sua rilevanza, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e non contraddittoria (Cass. 656/2014). A tali principi di diritto s’ispira la sentenza d’appello.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 39 DPR 600/73, censura la sentenza d’appello laddove reputa legittimo l’avviso di accertamento ancorché esso si sia concretato nell’uso contemporaneo di tre diverse metodologie di rettifica, cioè induttiva, analitica e sintetica.
Il motivo va disatteso.
In tesi generale, nulla esclude che l’Amministrazione finanziaria possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni oppure contemporaneamente delle varie metodologie legali (Cass. 13350/09). Peraltro, nella specie, si tratta di inammissibile questione nuova non rientrante nel perimetro impugnatorio dell’atto introduttivo del giudizio (v. ricorso fg. 4-5) e priva di autosufficienza non risultando la trascrizione dei passi salienti dell’atto impositivo (Cass. 9356/16, 8312/13, 11982/11, 15867/04).
3. Con il terzo motivo, denunciando violazione dell’art. 58 proc. Trib., e dell’art. 2719 cod. civ., il contribuente censura la sentenza d’appello laddove trascura la tardlvltà delle produzioni documentali fatte dall’ufficio in appello e per di più senza alcuna attestazione di conformità delle copie esibite agli originali.
Il motivo va disatteso.
Premesso che non è necessaria l’allegazione di tutti gli atti all’avviso, bastando il richiamo dei contenuti essenziali (Cass. 13110/12, 1906/08), si rammenta che, nel grado d’appello, il deposito di detti documenti come «nuovi» è consentito nel rispetto del termine di venti giorni liberi prima dell’udienza di trattazione, analogamente a quanto fissato per le produzioni documentali in primo grado (Cass. 11249/15; conf. 3661/15, 655/14, 20109/12, 13110/12, 1906/08). In ricorso il contribuente paria genericamente di produzione posteriore all’appello senza migliori specificazioni, ne deriva l’assoluto difetto di autosufficienza del rilievo. Analogamente, sempre in difetto di autosufficienza del ricorso, non consta dalla sentenza che vi sia stato tempestivo disconoscimento della produzione documentale fotocopiata, entro la prima udienza o la prima difesa secondo la prescrizione dell’art. 2719 cod. civ. (Cass. 13425/14).
4. Con il quarto motivo il ricorrente censura, sotto il profilo della violazione di disposizione statutarie (artt. 6-7), la sentenza d’appello laddove non rileva l’illegittimità dell’avviso di accertamento notificato ai contribuente senza l’integrale allegazione del p.v.c. e ritiene questo noto al contribuente.
II motivo è infondato dovendosi richiamare le considerazioni già svolte in punto di allegazione nel terzo motivo.
Quanto al resto si osserva che “nel caso di specie l’atto presupposto (il p.v.c. con i relativi allegati) era già a conoscenza del contribuente per averlo confermato e sottoscritto”, così come ha appurato il giudice di merito con insindacabile accertamento di fatto. Pertanto le disposizioni statutarie, laddove prevedono che debba essere allegato all’atto dell’Amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non trovano applicazione per gli atti di cui il contribuente abbia già avuto integrale e legale conoscenza per effetto di precedente comunicazione e sottoscrizione (Cass. 407/15) .
5. Con il quinto motivo, il ricorrente censura la sentenza d’appello per omessa motivazione laddove, limitandosi ad indicare mere percentuali di pretesi ricavi non contabilizzati dal contribuente sganciate da qualsiasi analisi contabile e da qualsiasi riscontro probatorio per sostenere la legittimità nel merito dell’atto impositivo, non dà contezza delle carenza di riscontri probatori, ammessa dallo stesso ufficio, in merito all’accertamento del 35% dei pretesi maggiori introiti riferiti ai soggetti interpellati extra distretto e del 60% dei pretesi maggiori introiti riferiti ai soggetti interpellati intra distretto”.
Il motivo non è fondato.
Esso non coglie il senso dell’accertamento di fatto compiuto dal giudice di secondo grado laddove ha “…rilevato che fa G.d.F. ha provveduto ad interpellare numerosi clienti del notaio (…) sia residenti nel distretto di competenza che extra distretto, accertando nella maggior parte dei casi esaminati (quantificabili nel 39%) il versamento di importi superiori a quelli fatturati sulla base di riscontri oggettivi, costituiti da fotocopie di assegni e da marcia di assegni; per un residuo del 26%, inoltre, i clienti interpellati hanno indicato il numero dell’assegno mediante il quale avevano provveduto al pagamento, mentre solo nel residuo 35% dei casi i clienti avevano dichiarato di aver pagato per contanti”. Da ciò ha tratto il convincimento, insindacabile sul piano logico, che “per la maggior parte dei casi, dunque, non si è in presenza di semplici informazioni, ma ci si trova di fronte a dichiarazione suffragate da ulteriori riscontri – consistenti in elementi di fatto – che hanno consentito una ricostruzione analitica dei redditi non dichiarati”, precisando che “fa produzione di dichiarazioni terzi […] non è preclusa ma lasciata al vaglio del giudice per quanto possa concorrere alla formazione del proprio convincimento”.
DI contro il contribuente nel ricorso non impugna la statuizione della sentenza laddove si afferma che egli “si è limitato ad affermare che le differenze tra le somme versategli e quelle fatturate sarebbero da imputare a spese anticipate per i clienti, senza argomentare alcunché sulla circostanza che le somme imputate ad onorario risultano sempre molto inferiori alle presunte spese e senza fornire alcun elemento probatorio al riguardo”. Quanto poi all’efficacia di prova presuntiva delle dichiarazioni dei terzi anche se prive di riscontri esterni, si richiama quanto già argomentato sul punto nella disamina del primo motivo.
6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo a favore dell’agenzia contro ricorrente; nessun’altra statuizione in punto di spese va adottata, non avendo l’intimato ministero svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile nel confronti del Ministero dell’economia e delle finanze; rigetta il ricorso nei confronti dell’Agenzia delle entrate e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità liquidate, a favore dell’agenzia controricorrente, in € =10.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
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