CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 17866 depositata il 9 settembre 2016

LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO – RISARCIMENTO DEL DANNO PER I CASI DI CONVERSIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO

Svolgimento del processo

Con la sentenza n. 660 del 2011, la Corte d’ appello di L’Aquila, in riforma della sentenza del Tribunale di Pescara, dichiarava la nullità del termine apposto ai contratti intercorsi tra M.L. e A. s.p.a. dal 2 dicembre 2002 in poi e l’esistenza di un rapporto subordinato a tempo indeterminato con decorrenza dal 2 dicembre 2002; condannava la società alla riammissione in servizio del lavoratore con la qualifica di operatore specializzato, posizione economica e organizzativa B1 del C.C.N.L. 1998/2000 e seguenti, nonché al pagamento delle retribuzioni maturate dalla messa in mora del 30 gennaio 2006, detratto quanto già percepito, oltre interessi e rivalutazione.

La Corte argomentava che la causale apposta al primo contratto, stipulato ai sensi del D.lgs n. 368 del 2001 “al fine di far fronte all’attività sgombro neve lungo le statali di competenza di questo compartimento” non rispettava i requisiti previsti dall’art. 1 comma 1 del suddetto decreto legislativo, in quanto si facevano coincidere le esigenze temporanee con il contenuto della mansione, senza menzionare le ragioni di carattere tecnico, produttivo e organizzativo, che devono avere natura eccezionale e transitoria; la transitorietà delle esigenze era inoltre sconfessata dalla circostanza che il M. fosse stato assunto nei prosieguo con altri contratti a termine, pure prorogati di volta in volta, e che anche il primo contratto inizialmente stipulato con la durata di tre mesi, e quindi fino al 1 marzo 2003, fosse stato prorogato al 30 aprile 2003. Sotto il profilo della prova, rilevava poi che le allegazioni fornite dall’A. non rendevano contezza dell’effettivo collegamento causale tra le esigenze indicate in contratto e la specifica assunzione a termine, riguardando la situazione generale dell’azienda e non la posizione del lavoratore in ordine al luogo, al tempo, alle mansioni ed alla natura transitoria, eccezionale od occasionale della ragione legittimante.

Per la cassazione della sentenza A. s.p.a. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso L. M.. Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

All’udienza pubblica, la difesa del controricorrente ha eccepito l’illegittimità costituzionale del comma 7 dell’art. 32 della L. 183/2010, con riferimento all’interpretazione autentica data alla disposizione di cui al comma 5 di detto art. 32 dall’art. 1 comma 13 della L.n. 92/2012, per violazione degli artt. 36, 38 e 117 Cost. in relazione all’art. 6 CEDU e all’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso, la società deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1 comma 2 del D.lgs n. 368 del 2001, sotto il profilo della pretesa genericità della clausola appositiva del termine. Sostiene che la Corte territoriale erroneamente abbia ritenuto che nel contratto di assunzione a termine sarebbe stata omessa l’indicazione della causale specificandosi solo la mansione cui è stato detto il lavoratore, considerato che nel contratto, che produce, si legge che l’assunzione era stata disposta al fine di far fronte all’attività di sgombraneve lungo le statali di competenza del compartimento, e che tali sono le esigenze cui l’assunzione era finalizzata, mentre le mansioni erano quelle corrispondenti alla qualifica indicata nel contratto, di operatore specializzato, posizione organizzativa B1. L’ assunzione quindi si era resa necessaria per far fronte ad esigenze intrinsecamente temporanee, dettate dall’incombere degli agenti atmosferici invernali, attività che comporta necessariamente l’incremento di mezzi e personale proprio in quanto aggiuntiva rispetto a quella ordinaria. Aggiunge che l’articolo 13 del C.C.N.L. del 1999 applicabile ratione temporis, statuisce che ai sensi dell’art. 8 bis della L. n. 79 del 1983 può essere assunto personale con contratto a tempo determinato per sopperire alle maggiori esigenze del servizio e che ai sensi dell’articolo 23 della L. n. 56 del 1987 e successive modificazioni le parti hanno convenuto che si può ricorrere ad assunzioni con contratto a tempo determinato anche nel caso di necessità di svolgere lavori temporanei, quali sono quelle in esame. La sottoscrizione di più contratti a termine, ritenuta dalla Corte prova del fatto che l’assunzione sarebbe stata determinata da stabili carenze di organico, dimostrerebbe invece l’eccezionalità dell’esigenza, trattandosi di contratti tutti aventi durata non superiore a quattro mesi per anno.

1.1. Il motivo è inammissibile.

Deve rilevarsi, come riferito nello storico di lite, che la motivazione della Corte territoriale, nel ritenere la violazione delle previsioni del D.lgs n. 3609 del 2001, poggia su due distinte rationes decidendi: la prima attiene alla mancata esplicitazione nel testo negoziale delle ragioni giustificative l’apposizione del termine, che ad avviso della Corte coinciderebbero con la mansione affidata, senza esplicitarne la natura temporanea; la seconda attiene al piano della prova, laddove si afferma che neppure risulterebbe provata la sussistenza delle ragioni con riferimento alla specifica assunzione del dipendente, e quindi il nesso di causalità tra quest’ultima e le esigenze assunte a fondamento della stessa – che era stato oggetto di contestazione formulata dall’appellante anche in secondo grado, come si ricava da quanto riferito a pg. 2 della sentenza – la cui mancanza sarebbe confermata dalla proroga del contratto sino al 30.4.2003, che comproverebbe che l’esigenza di assunzione non era temporanea, ma determinata dalla necessità di colmare vuoti ordinari di organico.

Il motivo di ricorso censura la prima ratio decidendi, sostenendo che l’esigenza dell’assunzione sarebbe stata puntualmente indicata in contratto e che non ne sarebbe richiesta la temporaneità, ma non la seconda.

Ed invero, la società non ha contestato la carenza di prova in concreto delle esigenze aziendali ritenuta dalla Corte territoriale, né ha riferito di avere dedotto prove per dimostrare che sussistesse la necessità di utilizzare il lavoratore nella conduzione di mezzi sgombroneve nelle statali di competenza sino a tutto il mese di aprile del 2003.

La seconda ratio decidendi della Corte – coerente con il principio, reteratamente affermato da questa Corte, secondo il quale anche nel regime di cui al D.lgs. n. 368/01 I’ onere di provare le esigenze che giustificavano il ricorso alle assunzioni a termine incombe sul datore di lavoro (v. da ultimo Cass. n. 3845 del 2015 e n. 4468 del 2015) – non è stata quindi oggetto di contestazione.

Ed allora, occorre ribadire il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 7931 del 29/03/2013 (cui hanno fatto seguito molte altre conformi, tra cui da ultimo n. 4259 del 03/03/2015), secondo il quale qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi: ciò in quanto il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti.

2. Come secondo motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del D.lgs n. 368 del 2001, dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, dell’articolo 1362 e seguenti c.c., dell’articolo 1419 c.c. e lamenta che la Corte territoriale abbia fatto discendere dall’accertata nullità del termine la conversione del contratto a tempo indeterminato.

2.1. Il motivo non è fondato.

Al riguardo, basta richiamare la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2499 del 2015, ord., Cass. n. 2279/2010, Cass. n. 12985/2008), cui si è conformata la sentenza impugnata, secondo cui “l’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, anche anteriormente alla modifica introdotta dall’art. 39 della legge n. 247 del 2007, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.

3. Come terzo motivo, fa ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della L. n. 183 del 2010 e lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto inapplicabile al giudizio di secondo grado lo ius superveniens costituito dalla disposizione citata, la cui applicazione era stata invocata dalla società in via di subordine, ed abbia riconosciuto al lavoratore la retribuzione a far data dalla realizzazione della mora credendi del datore di lavoro, individuata nella lettera del 30 gennaio 2006.

3.1. Tale motivo è fondato.

Nel corso del giudizio di merito è intervenuta la L. 4 novembre 2010, n. 183, che all’ art. 32, commi 5 e 6 ha dettato i criteri per la liquidazione del danno da illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro. Tale disciplina, applicabile in virtù della previsione del comma 7 a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (v. Cass. ord. n. 2112 del 28/1/2011, Cass. n. 1409 del 31/01/2012, Cass. n. 26840 del 29/11/2013) è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, che nella sentenza interpretativa di rigetto n. 303 del 2011 ha premesso che essa è fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente”. La norma, che “non si limita a forfettizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, in base ad un’ “interpretazione costituzionalmente orientata” va intesa nel senso che il danno risarcito dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto (così come peraltro chiarito con la norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1 comma 13 della L. n. 92/2012), con la conseguenza che a partire da tale sentenza il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva, altrimenti risultando “completamente svuotata” la “tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato”. Nel contempo, il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum, sicché l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria; essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno per il avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione (Cass. n. 1409 del 31/01/2012, Cass. n. 3056 del 29/02/2012). La garanzia economica in questione, attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti). Così interpretata, la nuova normativa – risultata “nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi” – ha superato il vaglio di costituzionalità sotto i vari profili sollevati con le ordinanze di rimessione con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost., comma 1 (v. in senso conforme, C. Cost., ord., n. 112 del 2012) nonché con riferimento all’ipotizzato contrasto con la clausola 8.3 dell’accordo quadro europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Corte Cost. n. 226 del 2014).

3.2. La disciplina richiamata deve quindi essere applicata al caso in esame, essendone stata richiesta l’applicazione in sede d’appello ed avendo la parte ricorrente formulato un ammissibile e specifico motivo per censurare la decisione di diniego della Corte territoriale; sussiste inoltre in proposito l’interesse ad agire, in quanto la Corte ha riconosciuto a titolo risarcitorio un importo superiore al massimo che poteva essere liquidato in applicazione dell’art. 32.

3.3. All’udienza pubblica, la difesa del controricorrente, come anticipato nello storico di lite, ha eccepito l’illegittimità costituzionale del comma 7 dell’art. 32 L. 183/2010, con riferimento all’interpretazione autentica data alla disposizione di cui al comma 5 di detto art. 32 dall’art. 1, comma 13 della 92/2012, per violazione degli artt. 36, 38 e 117 Cost. in relazione all’art.6 CEDU e all’art. 1 Protocollo n. 1 CEDU, così come interpretato dalla Corte Europea, ed ha richiamato il passaggio della sentenza del 7 giugno 2011 – Ricorsi nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09 – Agrati ed altri c. ITALIA, nel quale la Corte di Strasburgo si è così espressa: “Alla luce della giurisprudenza dei giudici nazionali, la Corte ritiene, contrariamente a quanto sostenuto dal Governo, che i ricorrenti fossero titolari, prima dell’intervento della Legge Finanziaria 2006, di un interesse economico che costituiva, se non un diritto di credito nei confronti della controparte, quanto meno un “legittimo affidamento” di ottenere il pagamento degli importi contestati, e che aveva, pertanto, il carattere di “bene” ai sensi della prima frase dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (v. in particolare Lecaipentier e altri c. Francia, n. 67847/01, § 38, 14 febbraio 2006, e S.A. Dangeville c. Francia, n. 36.677/9 7, § 48, CEDU 2002-III). L’ articolo 1 del Protocollo n. I è pertanto applicabile al caso di specie” “… La Corte ritiene che la legge in questione, regolamentando in maniera definitiva le controversie, si sostanzi in un ‘ingerenza nell’ esercizio del diritto di proprietà che i ricorrenti potevano rivendicare in virtù della legislazione previgente e della giurisprudenza”.

Secondo la parte controricorrente, quindi, la retroattività della disciplina determinerebbe la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione il quale recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei propri beni.

Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende».

3.4. Deve però rilevarsi che nella stessa richiamata sentenza Agrati la Corte EDU, al punto 79, ha affermato che il concetto di «pubblica utilità» che devono avere le ragioni che giustificano le limitazioni del diritto di proprietà è ampio per natura, e che la relativa decisione di adottare leggi che comportino la privazione della proprietà implica l’esame di questioni politiche, economiche e sociali, e che le autorità nazionali sono in via di principio in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale per determinare le ragioni di “pubblica utilità” che giustificano una limitazione del diritto di proprietà.

La soluzione della questione posta dal ricorrente si rinviene quindi già nella motivazione delle sentenze sopra citate della Corte Costituzionale, laddove, nel richiamare la ratio legis sottesa all’introduzione della nuova disciplina anche con riferimento all’operatività quale ius superveniens sui giudizi in corso, ne ha ritenuto la conformità ai parametri costituzionali valorizzandone la finalità perequativa, nonché di semplificazione e certezza applicativa di interesse generale, che si accompagna all’ effettività della tutela ed alla sua perdurante dissuasività. In tal senso, risultano esplicitate le ragioni di pubblica utilità che giustificano l’intervento che, occorre ribadirlo, non ha riguardato un diritto già attuale ed esigibile, ma soltanto una «legittima speranza» (nella terminologia utilizzata dalla Corte EDU, punto 74) di ottenere il pagamento delle somme controverse.

4. Occorre aggiungere che nella fattispecie non è applicabile l’ulteriore disciplina sopravvenuta costituita dall’ art. 28 commi 2 e 3 del D.lgs. n. 81 del 2015, che ha ridisegnato le conseguenze risarcitone derivanti dall’illegittima apposizione del termine, in termini innovativi quantomeno con riferimento alla retribuzione da assumere quale base di calcolo per l’indennità ed alle tipologie di accordi collettivi in base ai quali può procedersi alla dimidiazione della misura massima prevista. Come chiarito da questa Corte con la sentenza n. 21521 del 2015, tale disciplina deve infatti ritenersi applicabile soltanto ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del D. lgs. citato (25-6-2015), così perdurando I’ applicazione della pregressa disciplina di cui all’art. 32 della L. 183/2010 ai “giudizi pendenti” relativi ai contratti precedenti.

4.1. A sostegno di tale conclusione milita la considerazione che la nuova normativa di carattere sanzionatorio si inserisce nella disciplina organica del rapporto di lavoro a tempo determinato, dettata dal Governo con gli artt. 19 ss. del D.lgs n. 81 del 2015, in attuazione della delega conferita con l’art. 1 comma 7 della L. n. 183 del 2014, la cui entrata in vigore ha determinato l’abrogazione del D.lgs n. 368 del 2001, ai sensi dell’art. 55 comma 1 lettera b) e comma 2.

Per essa, in assenza di esplicita disposizione contraria, deve operare quindi la regola dell’irretroattività sancita dall’art. 11 preleggi, regola cui – com’è noto – può derogarsi soltanto se ciò è espressamente previsto da apposita disposizione di diritto transitorio, quale quella che era stata formulata per l’operatività dei commi 5 e 6 dell’art. 32 della L. n. 183 del 2010 dal relativo comma 7. In assenza di espressa disposizione derogatoria, il principio dell’irretroattività previsto dall’art. 11 preleggi fa sì che la nuova legge non possa essere applicata, oltre ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente e ancora in vita ove, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle sue conseguenze attuali o future (così, sull’operatività del principio di irretroattività, Cass. n. 301 del 2014 e n. 9462 del 2015). Lo ius superveniens è infatti applicabile (solo) ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (cfr., da ultimo, Cass. n. 9462 del 2015, n. 301 del 2014, Cass. 3.7.13 n. 16620; meno recentemente v. in senso conforme Cass. 3.3.2000 n. 2433 e, in epoca più remota, Cass. S.U. 12.12.67 n. 2926). Ne deriva che la nuova previsione nel caso è applicabile solo ai fatti generatori della (nuova) responsabilità risarcitoria, successivi all’entrata in vigore della nuova disciplina, e quindi alle ipotesi di illegittima apposizione del termine verificatesi dopo tale data.

4.2. Tale conclusione non è contraddetta dal rilievo che l’art. 55 del D.lgs n. 81/2015 non ha abrogato esplicitamente anche il comma 7 dell’art. 32 della L. n. 183 del 2010, ma solo, al comma 1 lettera f), i commi 5 e 6, considerato che il detto comma 7 si riferisce esplicitamente (solo) ai precedenti commi 5 e 6, e non è pertanto estensibile alla nuova disciplina dettata dall’art. 28 cit.

L’interpretazione costituzionalmente orientata conforta la tesi dell’ irretroattività della nuova norma, dovendosi altrimenti superare il vaglio di compatibilità con l’art. 6 della CEDU, sottoposto a stringenti condizioni (v. Corte Cost. n. 303 del 2011 e 112 del 2012, già sopra richiamate).

5. A quanto sopra considerato seguono l’accoglimento del terzo motivo di ricorso e la cassazione della sentenza impugnata in relazione ad esso, con rinvio alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, che valuterà, alla luce dei criteri dettati dall’art. 32 della L. n. 183 del 2010, quale debba essere la misura dell’indennità risarcitoria da liquidarsi e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione a! motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione.