CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 18124 depositata il 15 settembre 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – LICENZIAMENTO PER RAGIONI DISCIPLINARI – VALUTAZIONE DEL GIUDICE – GRAVITA’ DELLA CONDOTTA
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 6556/2013, depositata il 2 agosto 2013, la Corte di appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Roma che, pronunciando sul ricorso di A. R., ne aveva respinto la domanda diretta ad ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole in data 3/12/2009 da SMA S.p.A. in relazione ad un ammanco di cassa verificatosi il 29/10/2009.
La Corte rilevava, in primo luogo, a sostegno della propria decisione, di dover aderire alla valutazione del materiale probatorio compiuta dal primo giudice; escludeva poi che fosse ravvisabile un difetto di proporzionalità tra la sanzione espulsiva e la condotta addebitata, osservando come il fatto integrasse grave violazione degli obblighi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 146 CCNL Settore Terziario, con conseguente possibilità per il datore di lavoro di intimare il licenziamento disciplinare, ai sensi dell’art. 151 del medesimo CCNL, posto che era configurabile nel fatto, così come accertato, una colpa di grado talmente elevato da sfociare quasi nel dolo e così da ledere in maniera irrimediabile la fiducia del datore di lavoro nell’esattezza dei futuri adempimenti, tenuto conto dell’entità dell’ammanco, pari a quasi la metà dell’incasso giornaliero del punto vendita, della circostanza che lavoratrice non era stata in grado di fornire la minima spiegazione dell’accaduto e della natura delle mansioni svolte dalla stessa, implicanti il costante maneggio di denaro.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la lavoratrice con unico articolato motivo, assistito da memoria; la società ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con unico motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c., dell’art. 7 I. n. 300/1970 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché omesso esame e insufficiente motivazione circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello, nel valutare la gravità della condotta e la proporzionalità della sanzione, trascurato di esaminare il fatto oggetto di contestazione disciplinare nella molteplicità dei suoi profili e, in particolare, anche sul piano soggettivo, oltre che oggettivo, sottolineando come tale più ampia indagine, diretta a verificare l’effettiva gravità dell’addebito, sia ritenuta dalla giurisprudenza necessaria anche nei casi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo di recesso.
Il motivo è fondato, e deve essere accolto, nella parte in cui denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c.(art. 360 n. 3 c.p.c.).
E’, infatti, consolidato e risalente l’orientamento, per il quale, in tema di accertamento della giusta causa di recesso, la valutazione dì gravità della condotta del lavoratore, tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, deve essere effettuata in relazione agli specifici elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie concreta, quali il tipo di mansioni affidate al lavoratore, gli eventuali precedenti disciplinari, il carattere doloso o colposo dell’infrazione, le circostanze di luogo e di tempo, le probabilità di reiterazione dell’illecito.
Ed è altresì consolidato l’orientamento, per il quale “in materia di licenziamento per ragioni disciplinari, anche se la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice investito dell’impugnativa della legittimità del licenziamento deve comunque verificare l’effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore” (Cass. 18 gennaio 2007 n. 1095; conformi, fra le altre, Cass. n. 16095/2013 e Cass. n. 21633/2013).
Tale verifica deve essere condotta con tanto maggiore attenzione e aderenza agli indici distintivi della fattispecie concreta, allorquando, come nella specie, la contrattazione collettiva non contenga un’espressa tipizzazione, entro la quale sussumere la condotta oggetto di contestazione, ma stabilisca l’irrogazione della sanzione espulsiva sulla base di un raccordo tra norme connotate da un grado, anche elevato, di elasticità e di indeterminatezza (come gli artt. 151 e 146 del CCNL Settore Terziario applicate dalla Corte di appello nella sentenza impugnata, prevedendo, la prima di tali disposizioni, che il licenziamento disciplinare si applichi in caso di “grave violazione degli obblighi di cui all’art. 146, 1° e 2° comma, Seconda Parte” e, la seconda, che “il lavoratore ha l’obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri e il segreto di ufficio, di usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri” nonché “l’obbligo di conservare diligentemente le merci e i materiali, di cooperare alla prosperità dell’impresa”).
A tali principi non risulta essersi attenuta la Corte territoriale, la quale:
(a) in presenza di fatto colposo, ha omesso di considerare, sul piano soggettivo, nella valutazione di gravità della condotta, l’incidenza della totale mancanza di precedenti disciplinari a carico della lavoratrice, nell’arco di un rapporto di lavoro protratto per oltre 26 anni;
(b) laddove ha valorizzato elementi fattuali di natura oggettiva (par. 3.3), ha svolto rilievi di non sicura attitudine inferenziale, posto che: – l’entità dell’ammanco accertato riveste oggettiva importanza in fattispecie connotata da intenzionalità della condotta, salvo che esso (ma non è il caso di specie) emerga come l’importo complessivo di una pluralità di episodi di negligente gestione della cassa; – l’incapacità della lavoratrice di fornire spiegazioni sulle possibili ragioni dell’ammanco non appare tale, in presenza di unicità di condotta disciplinarmente rilevante nell’arco di un lungo rapporto lavorativo, da denotare “un totale disinteresse per gli obblighi di custodia e conservazione delle somme incassate” gravanti sulla dipendente, trattandosi di atteggiamento psicologico che richiede, per poter essere plausibilmente affermato, quanto meno la reiterazione nel tempo di episodi di univoco o convergente significato; – la circostanza che la lavoratrice abbia fornito giustificazioni infondate, o non veritiere, o contraddittorie, nell’immediatezza della scoperta dell’ammanco, postula una più ampia ricognizione del comportamento dalla medesima tenuto e, in particolare, la considerazione del grado di collaborazione alle indagini prestata od offerta;
(c) l’individuazione nella condotta addebitata alla lavoratrice di “un grado di colpa talmente elevato da sfociare quasi nel dolo”, e cioè di una colpa idonea ad “integrare una violazione degli obblighi contrattuali talmente grave sotto il profilo oggettivo e soggettivo, da spezzare in modo irrimediabile” la fiducia datoriale nell’esattezza dei successivi adempimenti, non risulta preceduta da un’analisi del contesto di regolazione interna dell’attività, cosi da non supportare l’estrema concettualizzazione della colpa insita nel riferimento al brocardo culpa lata dolo aequiparatur (Dig. 50, 16, 213, 2: lata culpa est nimia neglegentia, id est non intellegere quod omnes intellegunt).
La sentenza deve, pertanto, essere cassata e la causa rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà all’applicazione dei principi di diritto richiamati nell’ambito di un rinnovato esame degli elementi tutti, di natura oggettiva come soggettiva, che concorrono alla definizione del caso concreto.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
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