CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 20849 depositata il 14 ottobre 2016
ACCERTAMENTO FISCALE – PRELEVAMENTI NON GIUSTIFICATI DAL CONTO CORRENTE BANCARIO – ELEMENTI POSITIVI DI REDDITO DI LAVORO AUTONOMO NON DICHIARATI
FATTO E DIRITTO
La Corte, costituito il contraddittorio camerale sulla relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c., osserva quanto segue.
1. Con il primo motivo si lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 2), d.p.r. n. 600/73 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c. in conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014 depositata in data 06.10.2014 che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, n. 2) secondo periodo del d.p.r. n. 600/73”, in quanto, dovendosi escludere la presunzione che i prelevamenti non giustificati dal conto corrente bancario corrispondano “ad elementi positivi di reddito di lavoro autonomo non dichiarati” la C.T.R. avrebbe dovuto annullare gli accertamenti “quantomeno in relazione all’ammontare dei prelevamenti non giustificati contestati nell’ambito delle indagini finanziane pan a complessivi € 159.094,44 per il 2006, e a complessivi €. 354.235,22 nel 2007.
1.1 Il motivo è palesemente fondato.
1.2. Invero, vertendosi pacificamente in tema di accertamento di “un maggior reddito di lavoro autonomo”, l’indifferenziato riferimento del giudice d’appello tanto ai “versamenti” quanto ai “prelevamenti” bancari si pone in contrasto con la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale parziale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, limitatamente alle parole “o compensi” (Corte Cost., sent. n. 228 del 6 ottobre 2014), in base alla quale la presunzione ivi prevista, “mondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari, non annotati contabilmente, vanno imputati ai ricavi conseguiti, nella propria attività, dal contribuente che non ne dimostri l’inclusione nella base imponibile oppure l’estraneità alla produzione del reddito, si riferisce ai soli imprenditori e non anche ai lavoratori autonomi o professionisti intellettuali sicché, essendo venuta meno “la modifica della citata disposizione, apportata dall’art. 1, comma 402, della legge n. 311 del 2001, non è più sostenibile l’equiparazione, ai fini della presunzione, tra attività d’impresa e professionale per gli anni anteriori” (Cass. sent. n. 23041/15). Nei confronti dei lavoratori autonomi il Giudice delle Leggi ha infatti ritenuto quella presunzione “lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito” (Cass. sent. nn. 9271/15, 13470/15; ord. n. 9078/16).
1.3. La pronuncia impugnata va quindi adeguata ai principi fissati dalla Consulta e recepiti da questa Corte (cfr. Cass. sent. n. 23575/15), essendo venuta meno la possibilità di ricorrere nei confronti del contribuente, in quanto lavoratore autonomo, alla presunzione legale sulla quale era fondato – in parte qua – l’avviso di accertamento per cui è causa (cfr. Cass. sent. n. 12021/15).
2. Con il secondo mezzo si deduce altresì la “violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 7 della legge n. 212/2000, degli articoli 32 d.p.r. n. 600/73 e 31 d.p.r. n. 633/72 in combinato disposto in relazione all’art. 360, comma I, n. 3) c.p.c.” per non avere Ufficio; rispettato il termine dilatorio di 60 giorni per l’emissione degli avvisi di accertamento relativi agli anni 2006 e 2007, avvenuta rispettivamente in data 14.12.2011 e 26.11.2012, in mancanza di redazione di apposito p.v.c. ed “a fronti dell’ultimo contraddittorio svolto con il contribuente in data 4.11.2011 (per il 2006) e 16.10.2012 (per il 2007)”.
2.1. Il motivo risulta solo parzialmente fondato.
2.2. Pacifico, in fatto, che si è mutato di “indagini finanziarie effettuate previa autorizzazione della Direzione Regionale”, sulla scorta di appositi “verbali di contraddittorio” emessi all’esito di atti di “invito al contraddittorio”, con cui “veniva chiesto al contribuente di fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle movimentazioni finanziarie rilevate su alcuni conti correnti bancari (alcuni intestati a soggetti terzi rispetto al contribuente” (come si legge a pag. 3 del ricorso) e che i tributi implicati sono Irpef, Irap ed Iva, occorre tener conto della recente puntualizzazione nomofilatlica in tema di contraddittorio cd. preventivo o endoprocedimentale (Cass. s.u., sentenza n. 24823 del 9 dicembre 2015).
2.3. Ed invero, la questione principale rimessa al supremo organo nomofilattico era proprio “se le garanzie, di carattere procedimentale, predisposte dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 (formazione di un verbale di chiusura delle operazioni, rilascio di copia del medesimo al contribuente; facoltà del contribuente di comunicare osservazioni e richieste e corrispondente dovere dell’Ufficio di valutarle; divieto per l’Ufficio di emettere avviso di accertamento prima della scadenza del termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio di copia del verbale, salva la ricorrenti di particolare e motivata urgenza) si applichino soltanto agli accertamenti emessi in esito ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ovvero se esse — in quanto espressione di un generalizzato obbligo di contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo di formazione dell’atto fiscale, eventualmente riferibile a dati normativi aliunde desumibili nell’ordinamento nazionale o in quello dell’Unione Europea – operino pure in relazione agli accertamenti conseguenti ad ogni altro tipo di verifica fiscale e, in particolare, in relazione agli accertamenti derivanti da verifiche effettuate presso la sede dell’Ufficio, in base alle notizie acquisite da altre pubbliche amministrazioni, da terzi ovvero dallo stesso contribuente, in conseguenza della compilazione di questionari o in sede di colloquio (cd. verifiche a tavolino)” con esplicito riferimento anche (e proprio) agli “accertamenti fondati su indagini su conti correnti bancari” (p.to 4.1.).
2.4. Al riguardo, le Sezioni Unite hanno dato atto della sostanziale univocità dell’orientamento di questa Corte diretto a circoscrivere l’ambito di applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 – in linea con lo stesso dato normativo testuale – ai soli accertamenti conseguenti ad “accessi”, “ispezioni” e “verifiche” fiscali nei locali del contribuente (Cass. nn. 26316/10, 795/11, 7536/11, 10381/11, 8342/12, 16354/12, 446/13, 2360/13, 20770/13, 25515/13, 2593/14, 5374/14, 7598/14, 9424/14, 15010/14, 21391/14, 13588/14, 15583/14, 12023/15) e, superando le pronunce dissonanti di Cass. n. 2594/14 e Cass. s.u. nn. 19667/14 e 19668/14 (appositamente invocate in ricorso), hanno statuito che la suddetta disposizione non è espressione di un principio generale dell’ordinamento tributario, ma trova applicazione solo nelle ipotesi ivi esplicitamente previste (“accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali”) – ossia “categorie d’intervento accertativo dell’Amministrazione tipizzate ed inequivocabilmente identificabili, in base alle indicazioni di cui al D.P.R n. 633 del 1972, art. 52, comma I, richiamato, in tema di imposte dirette dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1 e, in materia di imposta di registro, dal D.P.R. n. 131 de11986, art. 53-bis” – in quanto tutte “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca, quivi, di elementi valutativi a lui sfavorevoli, peculiarità, che specificamente giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministratone, gli elementi acquisiti presso i locali aaziendali” (Cass. s.u. n. 24823/15). Di conseguenza l’Ufficio, al di fuori di questi casi, “può emettere l’avviso di accertamento anche in assenza di un processo verbale che attesti la chiusura dell’attività istruttoria, in difetto di norme che impongano un obbligo di verbalizzazione e laddove sia prevista una fase necessaria di contraddittorio procedimentale, che garantisce pienamente la partecipazione e l’interlocuzione del contribuente prima dell’emissione dell’accertamento ” (Cass. ord. un. 10904/16, 8000/16, 7600/16, 7598/16; conf. Cross, n. 7960/14, in tema di accertamento standardizzato mediante parametri e studi di settore; Cass. 14027/12).
2.5. Peraltro, il tema del contraddittorio endoprocedimentale segue diverse logiche a seconda che si tratti o meno di tributi cd. armonizzati, ossia soggetti al diritto dell’Unione europea; ed infatti il principio di diritto fissato da Cass. s.u. n. 24823/15 recita: ” Differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministratone fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi cd. non armonizzali, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi cd. armonizzati, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stata predisposto”.
2.6. Poiché nel caso di specie costituisce oggetto dell’accertamento anche l’IVA, è necessario che in sede di rinvio il giudice di merito verifichi in concreto se, con riguardo a detto tributo, la lamentata violazione del principio del contraddittorio endo-procedimentale sia effettiva e se, in concreto, il suo rispetto avrebbe in concreto consentito al contribuente di far valere ragioni difensive da ritenersi, ex ante, non meramente pretestuose (cfr. Cass. ord. n. 10904/16, in fattispecie del tutto analoga relativa ad avviso di accertamento emesso per IRPEF, IVA ed IRAP dell’anno 2006, a seguito di controllo di movimentazioni bancarie ritenute dall’Ufficio prive di giustificazione, e di invito al contribuente a fornire la documentazione richiesta, ai sensi del D.P.R. n. 600/73, art. 32 e del D.P.R. n. 633/72, art. 51).
3. Con il terzo motivo si deduce infine la “violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.p.r. n. 600/73 dell’art. 51 d.p.r. n. 633/72 degli art. 2697, 2727 e 2729 codice civile in combinato disposto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c.”, per avere la C.T.R. trascurato il mancato assolvimento, da parte dell’amministrazione finanziaria, dell’onere di provare in concreto la riferibilità al contribuente anche dei conti asseritamene intestati fittiziamente a terzi (nella specie quelli dei signori (…), (…) e (…), come indicato a pag. 17-18 del ricorso) – presupposto indispensabile per riversare sul contribuente l’onere della prova contraria — limitandosi a richiamare la “presunzione legale relativa alla redditività delle movimentazioni bancarie non giustificate … dai conti correnti riferibili al contribuente”, e l’onere di costui di “provare e documentare analiticamente, e non con affermazioni generiche, la specifica riconducibilità di ogni movimentazione bancaria in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sua estranea a fatti imponibili”.
3.1. Anche questo motivo appare palesemente fondato.
3.2. In fatto, l’amministrazione controdeduce che le indagini bancarie presero origina da “verifiche effettuate a carico della società (…) s.r.l. (società di cui era socio il figlio dell’odierno ricorrente)”, le quali “inducevano l’ufficio a ritenere che, degli incassi in nero seguiti alle operazioni di sottofatturazione, avessero potuto beneficiare i singoli soci: (…), (…), (…) e (…) … di qui la necessità di attivare indagini bancarie anche nei confronti di ognuno dei tre soci e dei relativi familiari conviventi fra cui il padre convivente (…) che lavora insieme al figlio, (…)” (v. pag. 2 controricorso; cfr. pag. I della sentenza impugnata), al quale viene poi sorprendentemente “imputato l’esercizio di attività imprenditoriale in nero a mezzo di interposta persona” (v. pag. 4 del controricorso). Nulla emerge invece sul ruolo di (….) e (…).
3.3. In realtà, diverso risulta l’oggetto degli atti impositivi in questione, con i quali è stato accertato “un maggior reddito di lavoro autonomo” in capo al (…), sicché le riferite argomentazioni difensive erariali appaiono del tutto inconferenti, mentre dalla loro stessa origine pare evidente che le indagini bancarie su conti di terzi erano dirette, semmai, ad attribuirne la riferibilità ai soci della (…) s.r.l. (quale non è, pacificamente, l’odierno ricorrente).
3.4. Il giudice d’appello non ha fatto quindi corretta applicazione del consolidato orientamento di questa Corte per cui “la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate su conti correnti bancari del familiare o dei soci” presuppone che sia evidenziato (fatta salva comunque la prova contraria) “lo stretto rapporto familiare con il contribuente del soggetto terzo titolare di conto corrente bancario, ovvero la ristretta base personale (nucleo familiare) della partecipazione sociale delle società di capitali” (Cass. n. 4788/16; cfr. nn. 1728/99, 8683/02, 13391/03, 20199/10, 20688/14, 26829/14, 428/15, 122276/15, 1898/16, con riferimento a società di capitali; nn. 6743/07, 18868/07, 27032/07, 374/09, 27947/09, 18083/10, 6595/13, 1464/16, con riferimento a società di persone).
3.5. In particolare, questa Corte ha anche di recente chiarito (v. Cass. sent. n. 4788/16) che, secondo la ordinaria disciplina dell’art. 2697 c.c. in tema di riparto dell’onere probatorio, “spetta all’Amministrazione finanziaria che contesti i dati esposti nella dichiarazione in verifica, fornire la prova dei maggiori redditi occulti, e che tale prova può essere raggiunta anche mediante l’accertamento di circostanze indiziarie idonee a costituire una valida presunzione, tale dovendo ritenersi quella integrata dal doppio elemento della stretta contiguità (familiare, collaborativa, associativa, ecc.) tra soggetto terzo e contribuente, e del riscontro di movimenti bancari (accrediti, addebiti, ecc.) sul conto intestato al terzo, macroscopicamente incompatibili in quanto eccedenti le capacità reddituali e da quest’ultimo non giustificati in relazione ad altre fonti di reddito ovvero a specifici atti o fatti causalmente idonei a produrre ricchezza”, in modo che si possa desumere la riferibilità di quei movimenti bancari alle operazioni ed attività del contribuente (cfr. Cass. ord. nn. 11145/11, 6595/13); infatti, detti “rapporti di contiguità rappresentano elementi indiziari che assumono consistenza di prova presuntiva legale, ove il soggetto formalmente titolare del conto non sia in grado di fornire indicazioni sulle somme prelevate o versate e non disponga di proventi diversi o ulteriori rispetto a quelli derivanti dalla gestione dell’attività imprenditoriale” (Cass. sent, nn. 20668/14, 26829/14, 12276/15,1464/16).
4. In conclusione, in accoglimento integrale del primo e del terzo motivo di ricorso, nonché in accoglimento parziale del secondo (v. sub 2.6), la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice d’appello che, in diversa composizione, provvedere anche alla statuizione sulle spese processuali del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio.
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