CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 21207 depositata il 19 ottobre 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – CONTRATTO PART-TIME VERTICALE C.D. CICLICO – RICONOSCIMENTO ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA ANNUALE
Fatto
Con sentenza depositata il 12.10.2009, la Corte d’appello di Roma confermava la statuizione di primo grado che aveva accolto la domanda di M.A.M. volta ad ottenere il riconoscimento dell’intera anzianità contributiva annuale per il periodo in cui aveva lavorato alle dipendenze di A. s.p.a. con contratto di lavoro prevedente un part-time verticale c.d. ciclico.
La Corte, in particolare, riteneva che, dovendo le disposizioni di cui all’art. 9, d.lgs. n. 61/2000, interpretarsi secondo quanto indicato da Corte cost. n. 121 del 2006, secondo cui, in un contratto di lavoro a tempo parziale verticale, il rapporto di lavoro permane anche nei periodi di sosta della prestazione lavorativa, erroneamente l’INPS aveva computato ai fini dell’anzianità contributiva le sole settimane lavorate in ciascun anno, essendo viceversa necessario riferire proporzionalmente all’intero anno l’anzianità inerente ai periodi di lavoro in cui la prestazione era stata svolta a tempo parziale.
Ricorre contro tale pronuncia l’INPS, con un unico motivo di censura. M.A.M. resiste con controricorso.
Diritto
Con l’unico motivo di censura, l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 9, d.lgs. n. 61/2000, 5, comma 11, d.l. n. 726/1984 (conv. con I. n. 863/1984), e 7, comma 1, d.l. n. 463/1983 (conv. con I. n. 638/1983), nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo della controversia, per non avere la Corte di merito ritenuto che l’anzianità contributiva computabile, in caso di part-time verticale, dovesse essere limitata ai soli periodi di svolgimento dell’attività lavorativa: sostiene infatti il ricorrente, per un verso, che parte del rapporto controverso ricadeva ratione temporis nella disciplina di cui all’art. 7, comma 1, d.l. n. 463/1983, e all’art. 5, comma 11, d.l. n. 726/1984, entrambi citt., e per l’altro che dalla pronuncia della Corte costituzionale richiamata nella sentenza impugnata non si potrebbero ricavare i principi espressi in quest’ultima, vertendo quella decisione sulla diversa questione della spettanza dell’indennità di disoccupazione.
Il motivo è infondato, ancorché la decisione impugnata si sia fondata esclusivamente sull’applicazione dell’art. 9, d.lgs. n. 61/2000, che risulta invece parzialmente inapplicabile in specie avuto riguardo alla data di trasformazione del precedente rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto part-time (9.1.1997).
Va premesso, al riguardo, che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, in tema di anzianità contributiva utile per il conseguimento di prestazioni previdenziali da parte di lavoratori part-time, il tenore letterale dell’art. 1, comma 4, d.l. n. 338/1989 (conv. con I. n. 389/1989), e la sua riproposizione in termini immutati nell’art. 9, d.lgs. n. 61/2000, escludono, con la puntuale indicazione che l’ambito disciplinato attiene alla “retribuzione minima oraria da assumere quale base di calcolo per i contributi previdenziali dovuti per i lavoratori a tempo parziale”, la possibile estensione, in via interpretativa, del meccanismo adeguativo ivi previsto all’ipotesi, del tutto diversa e disciplinata dall’art. 7, d.l. n. 463/1983 (conv. con I. n. 638/1983), del sistema di calcolo dell’anzianità contributiva utile per il conseguimento del diritto alla prestazione previdenziale nel settore del lavoro a tempo parziale, la cui legittimità costituzionale è stata valutata positivamente da Corte cost. n. 36 del 2012 sul rilievo che non è configurabile un criterio di calcolo costituzionalmente obbligato dei contributi previdenziali dovuti per i lavoratori a tempo parziale (v. in termini Cass. n. 9039 del 2012).
Ha però precisato questa Corte, sempre con riferimento ai lavoratori part-time, che la questione del minimale contributivo (e in generale quella del numero dei contributi settimanali da accreditare ai dipendenti) è questione distinta dall’anzianità previdenziale tout court e dunque dalla relativa durata, anche ai fini previdenziali, dell’attività lavorativa, che peraltro il nostro ordinamento svincola in più occasioni dall’effettiva prestazione lavorativa ed anche dalla misura dei contributi versati (Cass. nn. 23948 del 2015 e 8565 del 2016): a venire in rilievo, infatti, non è già la questione relativa al numero dei contributi da accreditare al lavoratore in regime di part-time, ma la possibilità che essi, quale che ne sia l’ammontare determinato ex art. 7, d.l. n. 463/1983, siano riproporzionati sull’intero anno cui si riferiscono, ancorché siano stati versati in relazione a prestazioni lavorative eseguite in una frazione di Tale ultima questione, già decisa da Cass. nn. 23948 del 2015 e 8565 del 2016 sulla scorta di CGUE, 10.6.2010, C-395-396/08, Bruno et al., appare in realtà risolvibile – e va risolta – sulla scorta dei principi immanenti nel nostro ordinamento in tema di rapporto di lavoro a tempo parziale. Il canone secondo cui, per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico, non si possono escludere i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione, costituisce infatti una logica conseguenza del principio per cui, nel contratto a tempo parziale verticale, il rapporto di lavoro perdura anche nei periodi di sosta (cfr. in termini Corte cost. n. 121 del 2006): prova ne sia che ai lavoratori impiegati secondo tale regime orario non spettano per i periodi di inattività né l’indennità di disoccupazione (Cass. S.U, n. 1732 del 2003), né l’indennità di malattia (Cass. n. 12087 del 2003), essendo quest’ultima correlata ad una perdita di retribuzione che, nel periodo di inattività, non è dovuta per definizione.
In altri termini, se è vero che il rapporto di lavoro a tempo parziale verticale assicura al lavoratore una stabilità ed una sicurezza retributiva che impediscono di considerare costituzionalmente obbligata una tutela previdenziale integrativa della retribuzione nei periodi di pausa della prestazione (così ancora Corte cost. n. 121 del 2006, cit.), non è meno vero che ciò è logicamente possibile a condizione di interpretare l’art. 5, comma 11, d.l. n. 726/1984, cit. (secondo il quale, com’è noto, ai fini della determinazione del trattamento di pensione l’anzianità contributiva “inerente ai periodi di lavoro a tempo parziale” va calcolata “proporzionalmente all’orario effettivamente svolto”), nel senso di ritenere che l’ammontare dei contributi determinato ex art. 7, d.l. n. 463/1983, cit., debba essere riproporzionato sull’intero anno cui i contributi si riferiscono: diversamente, il lavoratore impiegato in regime di part-time verticale sì troverebbe a fruire di un trattamento deteriore rispetto al suo omologo a tempo pieno, dal momento che i periodi di interruzione della prestazione lavorativa, che pure non gli danno diritto ad alcuna prestazione previdenziale, non gli gioverebbero nemmeno ai fini dell’anzianità contributiva. E non v’ha dubbio che codesta possibile disparità di trattamento genererebbe sospetti di illegittimità costituzionale ex art. 3, comma 1°, Cost., dal momento che, pur potendo concedersi che l’esclusione delle indennità di carattere previdenziale potesse in passato parzialmente giustificarsi in ragione della volontarietà della scelta del tempo parziale e della consequenziale impossibilità di considerare i periodi di pausa come disoccupazione involontaria (così Cass. S.U. n. 1732 del 2003, cit., sulla scorta dell’art. 5, comma 1, d.l. n. 726/1984: ma appunto parzialmente, visto che la medesima volontarietà della scelta del tempo parziale non aveva impedito a Corte cost. n. 160 del 1974 di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, r.d.l. n. 1827/1935, che negava l’indennità di disoccupazione ai lavoratori stagionali), l’assenza di tutela previdenziale trova in realtà ben più solido fondamento oggettivo nella natura continuativa del rapporto instaurato inter partes, ciò che adesso risulta confermato dalla sopravvenuta abrogazione della possibilità (già prevista dall’art. 5, d.l. n. 726/1984, cit.) che il lavoratore a tempo parziale si iscriva nelle liste di collocamento durante i periodi di pausa della prestazione (cfr. art. 11, lett. a, d.lgs. n. 61/2000).
In questo quadro, reputa il Collegio che il richiamo alla giurisprudenza comunitaria da parte di Cass. nn. 23948 del 2015 e 8565 del 2016 debba intendersi non già nel senso di considerare la materia de qua direttamente assoggettata alla disciplina di cui alla direttiva n. 97/81/CE (ché anzi la Corte di Giustizia non manca di chiarire che quest’ultima concerne esclusivamente “le pensioni che dipendono da un rapporto di lavoro tra lavoratore e datore di lavoro, ad esclusione delle pensioni legali di previdenza sociale”: cfr. CGUE, 10.6.2010, Bruno et al., § 42), bensì nel senso di ricavare (anche) dalla disciplina comunitaria una conferma di quel principio di parità di trattamento tra lavoratori a tempo pieno e a tempo parziale che, come s’è visto supra, risultava già immanente nell’ordinamento interno ai fini previdenziali.
Corretta in tal senso la motivazione della sentenza impugnata, il ricorso va rigettato. L’intima complessità della questione e la posteriorità al deposito del ricorso per cassazione del principio di diritto cui il Collegio ha inteso dare continuità, seppure nei termini dianzi chiariti, costituiscono giusto motivo per compensare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Compensa le spese.
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