CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 21376 depositata il 24 ottobre 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – INPS – ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA DEI LAVORATORI A TEMPO PARZIALE – DIRITTO ALLA PENSIONE
Svolgimento del processo
Con la sentenza n. 3053 del 2009, la Corte d’appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto di V.S., assistente di volo alle dipendenze di A. s.p.a., al riconoscimento dell’anzianità contributiva di n. 52 settimane annue anche nel periodo dal 1987 al 1992, nel quale la S. aveva lavorato in regime di part-time verticale ciclico, poi trasformato a tempo pieno, condannando l’Inps alla ricostruzione della posizione contributiva.
La Corte riteneva che, dovendo le disposizioni di cui all’art. 9, d.lgs. n. 61/2000, interpretarsi secondo quanto indicato da Corte cost. n. 121 del 2006, secondo cui, in un contratto di lavoro a tempo parziale verticale, il rapporto di lavoro permane anche nei periodi di sosta della prestazione lavorativa, erroneamente l’INPS avesse computato ai fini dell’anzianità contributiva le sole settimane effettivamente lavorate in ciascun anno, essendo viceversa necessario riferire proporzionalmente all’intero anno l’anzianità inerente ai periodi di lavoro in cui la prestazione era stata svolta a tempo parziale.
Per la cassazione di tale sentenza l’Inps ha proposto ricorso, affidato ad unico motivo. V.S. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. L’Istituto ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del d.lgs. 25.2.2000 n. 61; dell’art. 5, comma 11, del d.l. n. 7261984, e dell’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4631983, convertito con modificazioni in L. 11.11.1983 n. 638, oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, nn.3 e 5 c.p.c.) per non avere la Corte di merito ritenuto che l’anzianità contributiva computabile, in caso di part-time verticale, dovesse essere limitata ai soli periodi di svolgimento dell’attività lavorativa: sostiene infatti, per un verso, che parte del rapporto controverso ricadeva ratione temporis nella disciplina di cui all’art. 7, comma 1, d.l. n. 463/1983, e all’art. 5, comma 11, d.l. n. 726/1984, entrambi citt., e per l’altro che dalla pronuncia della Corte costituzionale richiamata nella sentenza impugnata non si potrebbero ricavare i principi espressi in quest’ultima, vertendo la decisione della Corte costituzionale sulla diversa questione della spettanza dell’indennità di disoccupazione.
2. Il ricorso è infondato.
2.1. Deve preliminarmente rilevarsi che la Corte territoriale ha basato la decisione sull’interpretazione del d.lgs n. 61 del 2000, sul presupposto che nel caso in esame la valutazione a fini pensionistici della prestazione di lavoro a part-time verticale è stata operata in un periodo successivo alla sua entrata in vigore.
2.2. Il rilievo dell’Inps, secondo il quale dovrebbe aversi riguardo alla legge vigente nel momento in cui la prestazione a part-time verticale è stata resa, non è qui sul punto rilevante. Il comma 4 dell’art. 9 del d.lgs n. 61 del 2000 ed il previgente art. 5 comma 11 del d.l. 726 del 1984, convertito con modificazioni dalla L. 19 dicembre 1984, n. 863, sono infatti di identico tenore, entrambe prevedendo che “Nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale e viceversa, ai fini della determinazione dell’ammontare del trattamento di pensione si computa per intero l’anzianità relativa ai periodi di lavoro a tempo pieno e proporzionalmente all’orario effettivamente svolto l’anzianità inerente ai periodi di lavoro a tempo parziale”.
La disposizione più recente è stata poi abrogata dal d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 51, comma 1, lettera a); detto d.lgs. contiene tuttavia un’ ulteriore disposizione, anch’essa di contenuto identico alle previgenti, all’art. 11, comma 4).
2.3. L’opzione interpretativa adottata dalla Corte d’appello è coerente con la giurisprudenza di questa Corte (confermata in numerosi arresti, v. Cass. n. 8565 del 2016, n. 24647 del 2015, n. 24535 e 24532 del 2015), cui occorre dare continuità.
2.4. Deve in primo luogo rilevarsi che la soluzione secondo cui, per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico, non si possono escludere i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione, costituisce una logica conseguenza del principio per cui, nel contratto a tempo parziale verticale, il rapporto di lavoro perdura anche nei periodi di sosta (cfr. in termini Corte cost. n. 121 del 2006): prova ne sia che ai lavoratori impiegati secondo tale regime orario non spetta per i periodi di inattività l’indennità di disoccupazione (Cass. S.U. n. 1732 del 2003). In altri termini, se è vero che il rapporto di lavoro a tempo parziale verticale assicura al lavoratore una stabilità ed una sicurezza retributiva che impediscono di considerare costituzionalmente obbligata una tutela previdenziale integrativa della retribuzione nei periodi di pausa della prestazione (così ancora Corte cost. n. 121 del 2006, cit.), non è meno vero che ciò è logicamente possibile a condizione di ritenere che nel part-time verticale ciclico l’anzianità contributiva debba essere proporzionata sull’ intera durata del rapporto di lavoro, e non riferita ai soli periodi di effettiva prestazione.
2.5. Nelle sentenze sopra richiamate, poi, questa Corte ha valorizzato la giurisprudenza della Corte UE, quale espressa nella sentenza della n. 395 del 10 giugno 2010, in cui la Corte UE ha affermato che “La clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale allegato alla direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/81/CE, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, dev’essere interpretata, con riferimento alle pensioni, nel senso che osta a una normativa nazionale la quale, per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico, escluda i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione, salvo che una tale differenza di trattamento sia giustificata da ragioni obiettive.”
In motivazione, la Corte UE ha affermato che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro prevede che, per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo che lavorano a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive. Il divieto di discriminazione sancito da tale disposizione altro non è che l’espressione specifica del principio generale di uguaglianza, che rappresenta uno dei principi fondamentali del diritto dell’Unione (v. sentenza 12 ottobre 2004, causa C- 313/02, Wippel, Racc. pag. 1-9483, punti 54 e 56). Ha poi rilevato che per un lavoratore a tempo pieno, il periodo di tempo preso in considerazione per il calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione coincide con quello del rapporto di lavoro. Per contro, per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico, l’anzianità non viene conteggiata sulla stessa base, poiché essa è calcolata sulla sola durata dei periodi effettivamente lavorati, tenuto conto della riduzione degli orari di lavoro. In questo modo, un lavoratore a tempo pieno beneficia, per un periodo d’impiego di dodici mesi consecutivi, di un anno di anzianità ai fini della determinazione della data in cui può rivendicare il diritto alla pensione. Per un lavoratore in una situazione comparabile che abbia optato, secondo la formula del tempo parziale di tipo verticale ciclico, per una riduzione del 25% del suo orario di lavoro, sarà invece accreditata, per lo stesso periodo, un’anzianità pari solo al 75% di quella del suo collega che lavora a tempo pieno, e questo per il solo motivo che egli lavora a tempo parziale. Ne consegue che, sebbene i loro contratti di lavoro abbiano una durata effettiva equivalente, il lavoratore a tempo parziale matura l’anzianità contributiva utile ai fini della pensione con un ritmo più lento del lavoratore a tempo pieno. Si tratta quindi di una differenza di trattamento basata sul solo motivo del lavoro a tempo parziale. Ha aggiunto che la differenza di trattamento constatata è ulteriormente accentuata dal fatto che il lavoro a tempo parziale di tipo verticale ciclico è la sola modalità di lavoro a tempo parziale offerta al personale di cabina dell’A. in forza del contratto collettivo ad esso applicabile. Tra l’altro, il lavoro a tempo parziale costituisce un modo particolare di esecuzione del rapporto di lavoro, caratterizzato dalla mera riduzione della durata normale del lavoro. Tale caratteristica non può, tuttavia, essere equiparata alle ipotesi in cui l’esecuzione del contratto di lavoro, a tempo pieno o a tempo parziale, è sospesa a causa di un impedimento o di un’interruzione temporanea dovuta al lavoratore, all’impresa o ad una causa estranea. Infatti, i periodi non lavorati, che corrispondono alla riduzione degli orari di lavoro prevista in un contratto di lavoro a tempo parziale, discendono dalla normale esecuzione di tale contratto e non dalla sua sospensione, ed il lavoro a tempo parziale non implica un’interruzione dell’impiego.
2.6. E’ vero, come sottolinea l’Inps, che la stessa Corte UE ha chiarito che l’accordo quadro non ha inteso regolare le questioni relative alla previdenza sociale, né imporre obblighi agli enti nazionali di previdenza sociale, i quali non sono parti di tale accordo (v., per analogia, sentenza 16 luglio 2009, causa C-537/07, Gómez-Limón Sànchez-Camacho, Racc. pag. 1-6525, punti 48-50). Nel caso in esame, però, la sentenza della Corte UE delinea tratti significativi del divieto di discriminazione che è stato recepito dalla normativa nazionale, e trova quindi uno spazio di operatività che trascende quello delineato dalla Direttiva. Infatti, il D.lvo 61/2000 lo contempla all’ art. 4 (e successivamente v. l’art. 7 comma 1 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81), stabilendo che il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo, estensore pieno comparabile, intendendosi per tale quello inquadrato nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi di cui all’art. 1, comma 3, per il solo motivo di lavorare a tempo parziale.
2.7. Deve poi rilevarsi che la diversa soluzione determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento anche tra lavoratori a part-time orizzontale e lavoratori a part-time verticale, a parità di orario, considerato che, a condizione che la retribuzione imponibile non risulti inferiore a quella minima prevista dall’art. 7 del D.L. 463/1983, conv. con modificazioni dalla L. 11 novembre 1983, n. 638 ai fini dell’accredito del contributo settimanale, per i primi le settimane da accreditare non subiscono alcuna riduzione per effetto del part time, in quanto la riduzione di orario ha rilevanza solo agli effetti del calcolo della misura della pensione.
3. Il ricorso va quindi rigettato, con la condanna della parte soccombente al pagamento delle spese del giudizio ex art. 91 c.p.c..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in € 3.000,00 per compensi professionali, oltre ad € 100,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.