CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 21996 depositata il 31 ottobre 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO – NOZIONE DI GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO – ORGANIZZAZIONE AZIENDALE – ESECUZIONE DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte di appello di Reggio Calabria, riformando la sentenza del giudice di prime cure, ha accolto la domanda di accertamento della illegittimità del licenziamento intimato il 21 giugno 2011 dalla società A., società cooperativa a responsabilità limitata, alla lavoratrice E.M.K. sprovvista di titolo abilitativo all’esercizio della professione di Operatore Socio Sanitario (OSS). La Corte, per quel che interessa, ha ritenuto che il datore di lavoro non ha assolto all’onere di provare l’inutilizzabilità della lavoratrice in altra mansione.
2. Per la cassazione di tale sentenza la società propone ricorso affidato a due motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. La lavoratrice resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo di ricorso, la società ricorrente deduce manifesta contraddittorietà della motivazione ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.), avendo, la Corte territoriale, affermato – da una parte – che il periodo transitorio di 24 mesi previsto dal Regolamento n. 13 della Regione Calabria per l’acquisizione del titolo abilitante l’esercizio della professione di Operatore Socio Sanitario (OSS) non era ancora trascorso alla data del licenziamento e, quindi, rappresentava un “forte indizio di ritorsività” e – dall’altra – che le altre allegazioni dedotte dalla lavoratrice (relativi a cambiamenti di turni e intimazione di sanzioni disciplinari) erano “in parte prive di prova e in parte scarsamente significative”.
2. – Con il secondo motivo la società ricorrente denunzia manifesta contraddittorietà, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio nonché erronea e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5) avendo la Corte territoriale, a differenza del giudice di primo grado, erroneamente interpretato il criterio di riparto dell’onere probatorio in materia di utilizzabilità del dipendente in altre mansioni ed avendolo posto a carico del datore di lavoro, nonostante la genericità delle allegazioni della lavoratrice circa la vacanza dei posti e l’assunzione di altri lavoratori.
3. – Le doglianze esposte debbono ritenersi in parte inammissibili e in parte infondate.
4. – Inammissibili laddove parte ricorrente denuncia un vizio motivazionale in difetto dei requisiti richiesti dal novellato art. 360, primo comma, n. 5 (trattandosi di sentenza pubblicata dopo l’11.9.2012 e ricadendo, pertanto, l’impugnazione sotto la vigenza della modifica apportata dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83 convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134). Come precisato dalle Sezioni Unite (n. 8053/2014) è, in tal caso, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. E tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta).
Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori. In particolare, la Corte territoriale ha accertato che il datore di lavoro ha intimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato dalla mancanza del titolo abilitante all’esercizio della professione di Operatore Socio Sanitario (OSS); ha constatato che la Regione Calabria aveva adottato un regolamento (n. 13) che consentiva la prosecuzione del rapporto di lavoro di lavoratori sprovvisti del titolo purché ottenessero il titolo entro 24 mesi dalla data di emanazione dei bandi indetti per la frequentazione dei corsi abilitanti, aggiungendo che tale lasso di tempo non era decorso; ha, pertanto, rilevato che tale circostanza “costituisce forte indizio di ritorsività ma va anche constatato che le altre allegazioni relativi a turni e sanzioni disciplinari sono in parte prive di prova e in parte scarsamente significative”; ha, pertanto, concluso che si poteva dubitare della “sufficienza della prova riguardo alla natura ritorsiva, anche a causa della intempestività delle allegazioni” della lavoratrice circa le prescrizioni contenute nel Regolamento regionale, ma che l’illegittimità del licenziamento doveva desumersi dal mancato assolvimento della prova sull’obbligo di répéchage da porsi a carico del datore di lavoro.
Con motivazione logica e coerente la Corte territoriale ha, quindi, ritenuto insufficienti gli elementi di prova forniti dalla lavoratrice in ordine al profilo discriminatorio del licenziamento ma ha statuito l’illegittimità del licenziamento con riguardo alla dimostrazione della inutilizzabilità della lavoratrice in altre posizioni.
5. – Secondo giurisprudenza consolidata, nella nozione di giustificato motivo oggettivo rientrano anche fatti inerenti alla persona del lavoratore, ma incidenti sulla organizzazione aziendale, come il venir meno di determinati requisiti indispensabili per l’esecuzione della prestazione lavorativa, configurandosi – in tali casi – una causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione (con riguardo alla mancanza di valido titolo abilitativo all’esercizio di professione sanitaria, cfr. Cass. n. 25073/2013; con riguardo alla patente di guida Cass. n. 7211/2001; con riguardo al porto d’armi, cfr. Cass. n. 16924/2006; con riguardo al tesserino doganale, cfr. Cass. n. 6363/2000).
Con specifico riferimento al criterio di riparto dell’onere della prova circa l’impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, o in mansioni inferiori, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, tale onere probatorio spetta al datore di lavoro, ex art. 5 l. n. 604 del 1966, trattandosi di circostanza pur sempre ricollegabile alle generali ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (cfr. Cass. nn. 11775/2012, 7381/2010, 21579/2008, 12769/2005, 10916/2004, 9768/1998). Secondo un primo orientamento, tale onere probatorio va contenuto nei limiti della ragionevolezza e delle contrapposte deduzioni, cosicché rileva anche la circostanza che il lavoratore non abbia saputo indicare la posizione disponibile, dovendo farsi carico allo stesso lavoratore di un obbligo di collaborazione nell’accertamento di un possibile répéchage (cfr. Cass. nn. 19923/2015, 4920/2014, 25197/2013, 18025/2012, 6501/2012, 3040/2011, 6559/2010, 22417/2009, 4068/2008, 12037/2003); questo ultimo indirizzo è stato, peraltro, recentemente rimeditato in considerazione di una più approfondita e ponderata valutazione dell’art. 5 della I. n. 604 del 1966, che pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, nell’ambito del quale deve includersi il requisito dell’impossibilità di répéchage (quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa), senza possibilità di invertire – direttamente o indirettamente – il suddetto onere probatorio tramite l’obbligo addossato al lavoratore di allegare posti di lavoro alternativi a lui assegnabili (cfr. Cass. nn. 5592/2016, 4509/2016, 4460/2015 con espresso richiamo sul punto a Cass. n. 8254/1992).
Non appare, in questa sede, decisivo procedere ad una approfondita analisi della fondatezza dell’uno o dell’altro orientamento espresso da questa Corte, in quanto la Corte territoriale ha rilevato che, nonostante la lavoratrice avesse fornito allegazioni circa la propria adibizione in altri reparti (uffici amministrativi, cucine, centralini e persino pulizia dei locali), la società non ha offerto alcuna prova circa l’impossibilità di adibirla alle suddette postazioni. Pertanto, anche aderendo all’orientamento più favorevole al datore di lavoro (orientamento che, come evidenziato, pone a carico del lavoratore uno specifico obbligo di collaborazione consistente nell’indicazione dei posti, con contenuto mansionistico equivalente o inferiore, disponibili in azienda) il ricorso si presenta infondato, avendo la Corte territoriale accertato che la società non ha assolto in alcun modo all’onere probatorio imposto dall’art. 5 della l. n. 604 del 1966 che richiedeva, a seguito di indicazione da parte del lavoratore delle postazioni da occupare, la dimostrazione della completezza della pianta organica e della carenza di nuove assunzioni.
6. – Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c. Il ricorso è stato notificato il 13/6/2014, dunque in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese di lite a favore del controricorrente, liquidate in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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