CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 2321 del 5 febbraio 2016
LAVORO – INFORTUNIO SUL LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – MOBBING – RISARCIMENTO DEL DANNO – ONERE DELLA PROVA
Al fine di ottenere il risarcimento del danno da mobbing è necessaria: 1) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio; 2) la prova del danno all’integrità subito; 3) che sia dimostrato il nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato di prostrazione (nel caso di specie, non è stato dimostrato il comportamento mobbizzante e di conseguenza i danni da mobbing).
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Bologna, B.S., premesso di essere stato assunto nel maggio 1975 dalla (attuale) ANCE Emilia Romagna, organismo associativo regionale dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili, con mansioni impiegatizie, quindi di direttore, dal gennaio 1978, ed infine di dirigente, dal gennaio 1981, chiedeva la condanna della associazione convenuta al pagamento delle somme specificamente indicate in ricorso per il licenziamento intimatogli 11.3.02, che assumeva essere ingiustificato e discriminatorio; a titolo di spettanze retributive dovutegli ai sensi degli accordi intervenuti volti a destinare ai dipendenti l’8% della retribuzione lorda per gli anni 2001-2003; a titolo di risarcimento del danno subito per la ritardata promozione a dirigente; a titolo di rimborso spese non liquidate; a titolo di risarcimento del danno per mobbing e licenziamento illegittimo; a titolo di risarcimento per invalidità permanente; a titolo di rimborso per spese mediche; infine, a titolo di risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale, nonché del danno da perdita di chances.
Si costituiva l’ANCE Emilia Romagna, eccependo l’intervenuta prescrizione e la totale carenza di prova dei diritti vantati, deducendo altresì la legittimità del licenziamento, nonché la totale infondatezza delle domande di corresponsione delle somme per pretesi accordi e rimborsi spese.
Il Tribunale rigettava la domanda.
Avverso tale sentenza proponeva appello il B., resisteva l’ANCE E.R.
Con sentenza depositata l’8 novembre 2012, la Corte d’appello di Bologna, rigettava il gravame.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il B., affidato a sette motivi.
Resiste l’ANCE Emilia Romagna con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con i primi due motivi il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 111 Cost “per il mancato rispetto dell’onere di allegazione e prova” (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
2. – Con il terzo, il quarto ed il quinto motivo il B. denuncia una contraddittoria motivazione (art. 360, comma 1, n.5 c.p.c.) “per omessa valutazione di documenti”, dolendosi della mancata promozione a dirigente e del mancato riconoscimento dei richiesti danni da mobbing.
3. – Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art 115 c.p.c., in relazione all’art. 111 Cost. per il mancato rispetto dell’onere di allegazione e prova (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
4. – Con il settimo motivo (intitolato “circa l’intervenuta decadenza ex art. 414 c.p.c.”) il B. si duole in sostanza della conferma, da parte del giudice d’appello, della sentenza di prime cure laddove ritenne di non fare uso dei poteri officiosi, ammettendo documenti e prove costituende avanzate alla prima udienza del 12.11.2007 e resesi necessarie a seguito della memoria di costituzione ANCE.
Tutti i motivi sono formulati mediante riproduzione fotografica integrale di numerosi documenti, collegati da semplici locuzioni di raccordo.
5. – Il ricorso è inammissibile.
Ed invero, pur considerando che in tema di ricorso per cassazione, l’erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non determina “ex se” l’inammissibilità dell’atto, ciò vale esclusivamente qualora la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura (Cass. 3.8.2012 n. 14026), nella specie assenti, posto che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass. sez. un. 24.7.2013 n. 17931).
Deve dunque rilevarsi (cfr. Cass. n. 48232009, Cass. n. 62792011, Cass. n. 151802010, Cass. sez. un. n. 166282009) che la prescrizione contenuta nell’art. 366, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., secondo la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, non può ritenersi osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale, né accenni all’oggetto della pretesa, limitandosi ad allegare, mediante riproduzione in ricorso (come nella specie), l’intero ricorso di primo grado ed il testo integrale di tutti gli atti successivi con semplici locuzioni di raccordo (Cass. 28.5.2012 n.11044), rendendo particolarmente indaginosa l’individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione, preordinata ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura.
Come poi osservato da Cass. n. 162542012 e Cass. n.25272015, il ricorso per cassazione col quale si lamenta l’erronea od omessa valutazione, da parte del giudice di merito, di atti e documenti, è inammissibile sia quando si limita a richiamarli senza trascriverne i passi salienti o, in alternativa, fornire gli elementi necessari per individuarli all’interno del fascicolo; sia quando, all’opposto, il ricorrente trascriva pedissequamente e per intero nel ricorso atti e documenti di causa, addossando in tal modo alla Corte il compito, ad essa non spettante, di sceverare da una pluralità di elementi quelli rilevanti ai fini del decidere, e dunque un giudizio di fatto.
È dunque inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione confezionato in modo tale che siano riprodotti con procedimento fotografico (o similare) gli atti dei pregressi gradi e i documenti ivi prodotti, tra di loro giustapposti con mere proposizioni di collegamento. Detta modalità grafica, poiché equivale, nella sostanza, ad un rinvio puro e semplice agli atti di causa, viola il precetto dell’art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., secondo il quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, e non può ritenersi osservato quando il ricorrente non prospetti alcuna narrativa degli antefatti e della vicenda processuale, nè determini con precisione l’oggetto della originaria pretesa, così contravvenendo proprio alla finalità primaria della prescrizione di rito, che è quella di rendere agevole la comprensione della questione controversa, e dei profili di censura formulati, in immediato coordinamento con il contenuto della sentenza impugnata (Cass. ord. n. 18020 del 24/07/2013, Cass. Sez. Un., ord. n. 19255 del 09/09/2010). Giova infine rammentare l’insegnamento di Cass. 7 febbraio 2012 n.1716, secondo cui il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, espresso nell’art. 366 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., impone al ricorrente la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori, eventualmente con la trascrizione dei passi salienti. Il requisito dell’autosuffidenza non può tuttavia ritenersi soddisfatto nel caso in cui il ricorrente inserisca nel proprio atto di impugnazione la riproduzione fotografica di uno o più documenti, affidando alla Corte la selezione delle parti rilevanti e così una individuazione e valutazione dei fatti, come se nel giudizio di legittimità fosse possibile la ripetizione del giudizio di fatto.
Quanto poi alle numerose censure per vizio di motivazione, riferite a sentenza pubblicata dopo l’11.9.2012, deve rimarcarsi che il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, specificamente indicato, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra invece di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma p.1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez.un. 22 settembre 2014 n. 19881). Tali requisiti difettano nella fattispecie, sicché le censure motive denunciate in ricorso sono inammissibili.
Del resto, secondo le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.
Pertanto, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all’esistenza della motivazione in sè, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
6. – Difettando l’odierno ricorso degli imprescindibili requisiti sin qui esposti, esso deve senz’altro dichiararsi inammissibile.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell’art 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 1152, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €. 100,00 per esborsi, €3.500,00 per compensi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 1152, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso art 13.
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