CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 24566 depositata il 1° dicembre 2016
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 8253/2013, depositata il 9 dicembre 2013, la Corte di appello di Roma rigettava il gravame di Davide T. e confermava la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Frosinone ne aveva respinto il ricorso diretto alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato dalla K. International s.r.l. con lettera del 4 luglio 2005 per illecita detenzione di sostanze stupefacenti, discredito dell’immagine aziendale e allarme di possibile spaccio anche nell’ambiente di lavoro. La Corte di appello sottolineava il disvalore sociale del reato commesso di detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio, che tale condotta si poneva in contrasto con le norme penali e con fondamentali principi etici ed inoltre implicava relazioni con ambienti malavitosi; osservava inoltre che la notizia dell’arresto del T. sulla stampa locale era stata tale da provocare negativi riflessi sull’immagine della società e concludeva nel senso che la condotta contestata era da ritenersi idonea ad incidere irrimediabilmente sull’elemento fiduciario che deve presiedere al rapporto di lavoro, giustificando la sanzione inflitta. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il T. con unico motivo, illustrato da memoria; la società ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato da memoria.
Risulta altresì depositata memoria di nomina di codifensore per la società, in persona dell’avv. C. P..
Motivi della decisione
Con l’unico motivo proposto, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., degli artt. 2119 e 2697 c.c. e dell’art. 75 CCNL di categoria, il T. lamenta la carenza del percorso motivazionale seguito dal giudice di secondo grado nella sentenza impugnata e il suo difetto di congruenza rispetto agli elementi specifici del caso concreto, quali emersi e provati in giudizio, e ciò tanto con riferimento al danno di immagine, che la società avrebbe subito, quanto con riferimento al giudizio di gravità della condotta e alla proporzionalità della sanzione inflitta.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
Il motivo proposto è, per un verso, inammissibile e, per altro, infondato. Si deve, infatti, rilevare come esso, sub specie di una denuncia di violazione e di falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., consiste in una diffusa critica del percorso argomentativo, sulla base del quale la Corte di appello è giunta alle proprie conclusioni, in particolare muovendosi alla stessa il rilievo di averle fondate, nell’assenza di un esame puntuale, quanto necessario, delle risultanze istruttorie, su una motivazione meramente assertiva e comunque incompleta. Ne consegue che, per il profilo in questione, il motivo è inammissibile, in quanto, di fatto collocandosi nell’ambito del previgente vizio di motivazione, non tiene conto della nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in I. 7 agosto 2012, n. 134, pur in presenza di sentenza di secondo grado depositata il 9 dicembre 2013 e, pertanto, in data successiva all’entrata in vigore della novella legislativa (11 settembre 2012).
Come precisato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054, l’art. 360 n. 5, così come riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Il motivo è, poi, infondato nella parte in cui denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., atteso che, come precisato da questa Corte, “la detenzione, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dell’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al giudice di merito” (Cass. 6 agosto 2015 n. 16524). Quanto, infine, al vizio di violazione o falsa applicazione dell’art. 75 CCNL, si deve rilevare, ove ad esso il ricorrente abbia inteso riferirsi nell’esposizione del motivo (p. 20, primo capoverso), che non risulta depositata copia del contratto collettivo, né indicato il luogo preciso in cui tale contratto venne depositato nei gradi di merito (con le conseguenze di cui all’art. 369, comma 2°, n. 4 c.p.c.), e comunque che non ne risulta neppure riportata la trascrizione testuale. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi euro 4.100,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali al 1 5 % e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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