CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 2527 del 9 febbraio 2016
LAVORO – IMPIEGO PUBBLICO PRIVATIZZATO – DIPENDENTE COMUNALE – PRIVATIZZAZIONE DEI RAPPORTI DI PUBBLICO IMPIEGO – RIPETIBILITA’ DELLE SOMME CORRISPOSTE DALLA PA
In materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell’indebito proposta da una Amministrazione (nella specie, da un comune) nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora risulti accertato che l’erogazione è avvenuta “sine titulo”, la ripetibilità delle somme non può essere esclusa ex art. 2033 c.c. per la buona fede dell'”accipiens”, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza del Tribunale, ha rigettato la domanda di L.M., dipendente del Comune di Reggio Calabria, volta ad ottenere la restituzione della somma di € 907,47 che il Comune gli aveva trattenuto sullo stipendio.
La Corte ha rilevato, in primo luogo, che, a seguito della privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego, era ammissibile la ripetibilità delle somme corrisposte dalla PA nei limiti dell’art. 2033 cc. Ha poi ritenuto che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, nella comparsa di risposta il Comune aveva esposto in modo sufficiente le ragioni della ripetizione, da rinvenirsi nella necessità di porre riparo ad una precedente attribuzione nulla e priva di causa. Ha esposto, infatti, che il Comune aveva corrisposto al ricorrente ed ad altri dipendenti l’incentivo di cui all’art. 6 punto b del contratto integrativo determinato in funzione di numerosi parametri tra cui quello del numero dei dipendenti destinatari dell’incentivo stesso ; che il fondo dal quale erano prelevati detti incentivi era di importo fisso e solo all’interno di tale importo doveva essere effettuata poi la distribuzione; che era stato disposto con delibera comunale n. 112 del 2004 un parziale recupero di quanto versato ai dipendenti a detto titolo in quanto, a seguito di azioni giudiziarie da parte dei lavoratori con contratto a tempo determinato esclusi dalla distribuzione, il Comune aveva dovuto corrispondere incentivi ulteriori dovendo pertanto procedere ad una rideterminazione della misura degli incentivi ,essendo il fondo divenuto incapiente, con conseguente necessità di provvedere alla ripetizione delle somme corrisposte in misura maggiore al fine di non aumentare ulteriormente la spesa a carico del Comune. La Corte territoriale ha poi riferito che era onere del ricorrente provare i fatti costitutivi del diritto all’erogazione di una certa quantità di denaro dimostrando l’esecuzione della prestazione con modalità tali da meritare il compenso nella misura erogata originariamente e che nella specie vi era, comunque, un implicito riconoscimento da parte del M. dell’effettivo intervento di altri lavoratori aventi diritto a partecipare alla ripartizione del fondo.
Avverso la sentenza ricorre il M. con due motivi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 cpc. Resiste il Comune con controricorso e ricorso incidentale condizionato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2033 cc e del principio di buona fede nonché vizio di motivazione.
Deduce che la somma erogata in applicazione dell’art. 6 B del contratto integrativo decentrato comunale non costituiva affatto erogazione nulla: era stata corrisposta nella piena applicazione ed in esecuzione delle disposizioni contrattuali tenendo conto dell’orario, della difficoltà dei turni, oltre che dei maggiori risultati ottenuti.
Rileva che egli si era persuaso, in buona fede, di dover dividere il fondo solo con gli altri dipendenti a tempo indeterminato essendo stati esclusi per decisione del Comune i lavoratori a tempo determinato; che il contratto era stato eseguito sicché il Comune avrebbe dovuto reperire i fondi in altri capitoli di spesa per pagare il compenso ai lavoratori a tempo determinato. Deduce che non sussistevano i presupposti per la ripetibilità delle somme ai sensi dell’art. 2033 cc.
Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 2033 e 2697 cc, del principio di buona fede nonché vizio di motivazione.
Censura l’affermazione della Corte secondo cui è il lavoratore a dover provare i fatti costitutivi del diritto all’erogazione dell’importo originariamente determinato e che il Comune aveva soddisfatto l’onere di chiarire le ragioni sostanziali per le quali il ricorrente non aveva diritto ad ottenere quelle somme.
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Il ricorrente fonda le sue censure per escludere la nullità, affermata dalla Corte d’appello, dell’erogazione dell’incentivo nella misura originariamente corrisposta sulla circostanza che detto incentivo traeva origine dal contratto integrativo; che era stato erogato nella piena applicazione ed in esecuzione dei requisiti contrattuali previsti nella contrattazione decentrata tenendo conto dell’orario, della difficoltà dei turni, oltre che dei maggiori risultati ottenuti.
Deduce ancora che egli si era persuaso in buona fede “di dover condividere il fondo di cui al contratto integrativo soltanto con altri lavoratori a tempo indeterminato”; che dunque ” vi era stata perfetta coincidenza fra proposta ed accettazione ed il contratto nei termini convenuti era addirittura già stato eseguito” e che la ripetizione effettuata dal Comune aveva inciso in maniera gravemente arbitraria e dannosa su una contrattazione ormai conclusa ed addirittura eseguita già da quattro anni. Le censure del ricorrente poggiano ,pertanto, sulla circostanza che l’erogazione non era nulla poiché essa era stata effettuata in esecuzione ed in conformità di disposizioni della contrattazione collettiva decentrata e dunque non più suscettibile di essere incisa da una delibera comunale successivamente intervenuta.
Il ricorrente, tuttavia, non esamina, con i motivi di cui sopra, la vera ratio della sentenza impugnata e per tale ragione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. La Corte territoriale ha affermato la legittimità del recupero disposto dal Comune con delibera n. 112/2004 per porre riparo ad una precedente erogazione di denaro che la Corte definisce “nulla e senza causa”.
Dalla motivazione della sentenza emerge, infatti, che i compensi incentivanti di cui è causa, disciplinati dal contratto integrativo, erano erogati in funzione di numerosi parametri tra cui quello del numero dei dipendenti assegnati e che detti incentivi dovevano essere prelevati da un apposito fondo il cui importo complessivo era fisso e solo all’interno di detto importo complessivo andava operata la distribuzione tra i dipendenti.
Risulta, poi, che il Comune aveva dovuto corrispondere incentivi ulteriori avendo dovuto includere tra coloro che avevano diritto a partecipare alla distribuzione del fondo anche i dipendenti a tempo determinato con la conseguente necessità di dover procedere ad una rideterminazione della misura degli incentivi da corrispondere ,essendo il fondo, di misura fissa, divenuto incapiente, e conseguentemente era sorta la necessità di provvedere alla ripetizione delle somme corrisposte in misura maggiore al fine di non aumentare ulteriormente la spesa a carico del Comune. Il ricorrente non esamina la sentenza impugnata sotto il profilo, ritenuto fondato dalla Corte e determinante la “nullità “della erogazione ” senza causa in re ipsa”, che l’interpretazione escludente dalla ripartizione del fondo i dipendenti a tempo determinato doveva considerarsi illegittima e quindi doverosa per il Comune la loro inclusione nella ripartizione del fondo, e che detto fondo era di importo fisso, con la conseguente necessità di ripetere le somme erogate in eccedenza e dunque, come afferma la Corte ” l’ineluttabilità dell’an della rideterminazione”.
Il ricorrente, opponendo la sua buona fede, afferma che le somme necessarie per erogare il compenso anche ai dipendenti a tempo determinato avrebbero dovuto essere reperite facendo ricorso ad altri capitoli di spesa, ma non esamina né la questione dei limiti della rilevanza della buona fede secondo cui in materia di impiego pubblico privatizzato, qualora risulti accertato che l’erogazione è avvenuta “sine titulo”, la ripetibilità delle somme non può essere esclusa ex art. 2033 cod. civ. per la buona fede dell'”accipiens”, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi (cfr Cass 8338/2010); né la questione sotto il profilo del limite derivante dalla determinazione in misura fissa del fondo nonché della necessaria osservanza da parte del Comune delle norme di contabilità regolanti le spese degli enti locali (TU approvato con d.lgs. n 267/2000) al cui rispetto il Comune non poteva sottrarsi, ricercando altri ” capitoli di spesa ” postumi ” ed ignorando che la copertura finanziaria per l’erogazione di quell’emolumento costituiva, come mostra di aver compreso l’impugnata sentenza, tetto invalicabile anche per il caso di espansione della platea dei destinatari ( la cui esclusione aveva indotto, appunto, la nullità proparte della delibera attributiva).
Sono, pertanto, inammissibili i motivi del ricorso per Cassazione che censurano argomenti della sentenza impugnata che non costituiscono la “ratio decidendi” della medesima” (cfr Cass n. 23635/2010): il ricorso del M. contiene carenti riferimenti alla “ratio decidendi” della sentenza impugnata ed insufficiente comprensione delle ragioni sostanziali poste a base della pronuncia del giudice (Cass 2831/2009). Il ricorso è pertanto inammissibile in quanto il ricorrente, pur denunciando la violazione di specifiche norme di diritto, non indica le questioni nella cui soluzione tali norme sarebbero state violate, e non precisa neppure i punti di divergenza tra esse e la “ratio decidendi” risultante dalla motivazione della sentenza impugnata.
Per le considerazioni che precedono il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile. Il Comune di Reggio Calabria ha proposto un ricorso incidentale condizionato con cui ha censurato l’affermazione della Corte territoriale che, pur escludendo che la questione potesse essere risolta come azione di ripetizione basata sull’errore, in ogni caso ricorrevano i presupposti dell’essenzialità e della riconoscibilità dell’errore.
Detto ricorso incidentale resta assorbito dalla dichiarazione di inammissibilità di quello principale.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso principale, assorbito l’incidentale condizionato; condanna il ricorrente a pagare le spese processuali che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 3.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali nonché accessori di legge.
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