CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 26111 depositata il 30 dicembre 2015
Svolgimento del processo
In seguito al sequestro di capi di abbigliamento con marchi contraffatti operato nei confronti di G. E., l’Ufficio di Brescia della Agenzia delle Entrate, rilevato che il contribuente non aveva istituito e tenuto i libri contabili obbligatori, determinava ai fini IVA, IRPEF ed IRAP per l’anno 2000, con metodo induttivo, il reddito d’impresa, imputando a maggiori ricavi anche gli importi dei versamenti e dei prelievi -non altrimenti giustificati- rilevati su conti bancari intestati al contribuente o sui quali questi era delegato ad operare, dedotti i costi “inerenti” l’esercizio dell’attività commerciale, quantificati forfetariamente in misura pari al 50% dei ricavi.
La decisione di primo grado, favorevole al contribuente, era riformata in grado di appello dalla Commissione tributaria della regione Lombardia che, con sentenza 4.6.2009 n. 105, accogliendo l’appello principale dell’Ufficio e rigettando l’appello incidentale del contribuente, riteneva fondata la pretesa, ma riduceva l’imponibile in via equitativa del 50%, in quanto non tutte le movimentazioni bancarie in entrata potevano essere ricondotte all’esercizio della attività commerciale, ed in quanto l’attività illecitamente svolta non si traduceva tutta in utili.
La sentenza di appello, non notificata, è stata tempestivamente impugnata per cassazione dalla Agenzia delle Entrate che, con atto notificato ex art. 149 c.p.c. al difensore domiciliatario, ha dedotto tre motivi concernenti vizi di error in judicando, ed in subordine vizi di motivazione.
Il contribuente non ha svolto difese.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la Agenzia fiscale deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Dpr n.600/73 e dell’art. 51 Dpr n. 633/72, in relazione all’art. 360co 1 n. 3 c.p.c., in quanto la CTR aveva ridotto equitativamente il reddito imponibile in misura pari al 50%, ritenendo che non tutti gli accrediti rilevati sul conto corrente bancario dovessero considerarsi ricavi della attività d’impresa, in quanto una attività illecita non trova precisi riscontri quanto agli utili prodotti, con ciò violando le norme tributarie indicate che ponevano invece una presunzione legale di ricavi desunta da tutte le movimentazioni bancarie in entrata ed uscita non altrimenti giustificate con idonee prove contrarie dal contribuente.
Il motivo è fondato.
La statuizione della sentenza impugnata secondo cui “non tutte le movimentazioni bancarie in entrata possono addursi alla attività commerciale, risultando fondata ed equa una riduzione al 50% dell’accertato reddito imponibile”, si pone in palese contrasto con la disciplina della prova presuntiva legale, suscettibile di prova contraria, prevista ai fini della determinazione del maggiore reddito imponibile, atteso che tanto la presunzione, stabilita dall’art. 51, secondo comma, n. 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in tema di accertamento dell’IVA (secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 del medesimo decreto presidenziale, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili), quanto la presunzione di cui alla analoga norma dell’art. 32, primo comma, n. 2, Dpr n. 600/1973, dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in difetto di indicazione del soggetto beneficiario o in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati ricavi o compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile), presentano un contenuto complesso, consentendo di riferire a redditi/ricavi imponibili tutti i movimenti bancari rilevati dal conto all’attività economica svolta dal contribuente, qualificando gli “accrediti” come ricavi, e gli “addebiti” egualmente come manifestazione di ricchezza in quanto considerati spese per corrispettivi versati per acquisti di beni e servizi reimpiegati nella produzione di maggiori ricavi di ammontare non inferiore agli importi prelevati: la presunzione legale “juris tantum”, può essere vinta dal contribuente soltanto se offre la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti e gli addebiti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all’uopo che vengano indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 26692 del 06/12/2005; id. Sez. 5, Sentenza n. 20199 del 24/09/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 16650 del 29/07/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 26173 del 06/12/2011 -con riferimento all’art. 32 Dpr n. 600/73 in materia di imposte sui redditi- ; id. Sez. 5, Sentenza n. 15217 del 12/09/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 1418 del 22/01/2013; id. Sez. 5, Ordinanza n. 6595 del 15/03/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 21303 del 18/09/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 20668 del 01/10/2014. La presunzione legale in questione ha superato il vaglio di costituzionalità in relazione agli artt. 3 e 53 Cost. -sentenza Corte cost. in data 8 giugno 2005 n. 225-: cfr. Corte cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13036 del 24/07/2012. Vedi Corte cost. ord. in data 6.7.2000 n. 260; Corte cost. ord. in data 23.5.2008 n. 173; Corte cost. sentenza in data 6.10.2014 n. 228).
La sentenza di appello, operando una riduzione “in via equitativa” dell’imponibile accertato in base alle movimentazioni bancarie non giustificate dal contribuente, ha introdotto un elemento di determinazione dell’imponibile, non fondato su specifica prova contraria, e dunque non compreso nella fattispecie normativa tributaria, statuendo in conseguenza in contrasto con la interpretazione che delle norme indicate ha fornito questa Corte.
In conclusione il ricorso, quanto al primo motivo, deve essere accolto (assorbiti gli altri); la sentenza impugnata va cassata e, non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa dalla corte ai sensi del’ art. 384co2 c.p.c., con il rigetto del ricorso introduttivo proposto dal contribuente /che va condannato alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo, compensate le spese relative ai gradi di merito.
P.Q.M.
La Corte : – accoglie il ricorso , quanto al primo motivo, dichiarati assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e decidendo la causa nel merito, rigetta il ricorso introduttivo, condannando il contribuente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in e 7.000,00 per compensi oltre le spese prenotate a debito, dichiarate compensate le spese dei gradi di merito.
Così deciso nella camera di consiglio 10.12.2015
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