CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 27208 depositata il 16 novembre 2017
PRETESE CREDITORIE – DISTINTI DIRITTI DI CREDITO – RELATIVI A UN UNICO RAPPORTO DI DURATA FRA LE PARTI – PROPONIBILITA’ IN SEPARATI PROCESSI – SUSSISTE
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 736/07 il Tribunale di Barcellona P.G. condannava la S.r.l.u. P.S. a pagare in favore di M.M. la somma di Euro 1.690,95 a titolo di differenze per lavoro straordinario, ma rigettava le ulteriori pretese perche’ precluse da precedenti giudicati formatisi sui decreti ingiuntivi non opposti che erano stati gia’ chiesti ed ottenuti dal lavoratore per i medesimi titoli.
2. Con sentenza pubblicata il 25.11.11 la Corte d’appello di Messina, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, condannava la S.r.l.u. P.S. a pagare in favore di M.M. la complessiva somma di Euro 19.239,16
3. Per la cassazione della sentenza ricorre la S.r.l.u. P.S. affidandosi a due motivi.
4. M.M. resiste con controricorso, poi ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c..
Inizialmente fissata l’udienza innanzi a questa S.C. per la data del 14.4.16, la causa e’ stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione delle S.U. sull’ordinanza interlocutoria n. 1251/16 della Sezione Lavoro, sulla questione “se, una volta cessato il rapporto di lavoro, il lavoratore debba avanzare in un unico contesto giudiziale tutte le pretese creditorie che sono maturate nel corso del suddetto rapporto o che trovano titolo nella cessazione del medesimo e se il frazionamento di esse in giudizi diversi costituisca abuso sanzionabile con l’improponibilita’ della domanda”.
Pronunciatesi a riguardo le S.U. con sentenza n. 4090/17, la causa torna ora all’attenzione di questa Sezione Lavoro.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 2909, 1175 e 1375 c.c. e art. 111 Cost., per avere la sentenza impugnata negato la preclusione da giudicato derivante dai decreti ingiuntivi non opposti che in precedenza erano stati chiesti ed ottenuti dal lavoratore per i medesimi titoli, nonostante che detti decreti ingiuntivi avessero la stessa autorita’ ed efficacia di cosa giudicata delle sentenze e, quindi, la medesima attitudine ad estendersi al dedotto e al deducibile; ne’ prosegue il ricorso – era possibile frazionare il credito in plurime richieste giudiziali essendo cio’ in contrasto con i principi di correttezza e buona fede e del giusto processo.
1.2. Il secondo motivo deduce violazione dell’art. 36 Cost. e art. 421 c.p.c., nonche’ vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale non ha detratto dal credito per compenso di lavoro straordinario quanto a tale titolo gia’ pagato al lavoratore “fuori busta”, come riferito dagli stessi testi indicati dal M., nonche’ per non aver fatto uso dei poteri istruttori d’ufficio per integrare la prova – ove ritenuta insufficiente – dei pagamenti effettuati a favore dell’odierno intimato.
2.1. Il primo motivo e’ infondato per il dirimente rilievo che il decreto emesso ex art. 633 c.p.c. e non opposto non e’ vincolante in altri giudizi aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto o di diritto (cfr. Cass. n. 6543/14; Cass. n. 23918/10; Cass. n. 18205/08; Cass. n. 24373/06; Cass. n. 4510/06).
Invero, come questa S.C. ha gia’ avuto modo di statuire (cfr. Cass. n. 6543/14; Cass. n. 23918/10), il provvedimento giurisdizionale di merito, anche quando sia passato in giudicato, non e’ vincolante in altri giudizi aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto o di diritto, se da esso non sia dato ricavare le ragioni della decisione ed i principi di diritto che ne costituiscono il fondamento.
A cio’ si aggiungano ulteriori considerazioni derivanti dalla sentenza n. 4090/17 delle S.U. di questa S.C. in tema di frazionabilita’ delle domande giudiziali.
E’ pur vero che nel giudizio in oggetto l’odierno ricorrente vanta ulteriori differenze su crediti gia’ precedentemente azionati e accolti con separati provvedimenti passati in giudicato, ma lo fa in base ad una non coincidente causa petendi, vale a dire in base al lavoro straordinario e alla sua incidenza sul TFR.
Ora, la citata sentenza n. 4090/17 delle S.U. di questa S.C. (proprio in attesa della quale la trattazione del presente ricorso era stata rinviata a nuovo ruolo) statuisce che in un solo caso non e’ consentito il frazionamento della domanda, vale a dire nel caso in cui plurime pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, cosi’ da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attivita’ istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale.
Ma anche in siffatta evenienza le S.U. chiariscono che il frazionamento della domanda e’ interdetto soltanto ove il creditore non abbia un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata.
Dunque, secondo Cass. S.U. n. 4090/17, il divieto di azione frazionata presuppone il coevo concorso di due necessari requisiti, uno positivo e l’altro negativo: quello positivo e’ che le pretese creditorie siano inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo d’un possibile giudicato o, comunque, siano fondate sullo stesso fatto costitutivo, di modo che accertarlo separatamente importi una duplicazione di attivita’ istruttoria; quello negativo consiste nell’assenza, in capo all’attore, d’un interesse oggettivo al frazionamento.
Ora, anche a voler ritenere – sia detto per mere esigenze di brevita’ del discorso – che le pretese creditorie de quibus fossero inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di cosa giudicata ed accertabili separatamente solo a costo di una duplicazione di attivita’ istruttoria (il che non e’, perche’ oggetto dell’istruttoria era lo svolgimento di un lavoro straordinario che era rimasto del tutto estraneo alle domande azionate in via monitoria), resta l’insuperabile rilievo dell’oggettivo (e giuridicamente apprezzabile) interesse dell’odierno ricorrente a frazionare le domande per ottenere subito quanto facilmente accertabile (e, anzi, gia’ attestato dal datore di lavoro con il CUD), anche mediante ricorso per decreto ingiuntivo, fatte salve ulteriori differenze all’esito del piu’ complesso giudizio – perche’ bisognoso di prove (anche) testimoniali – relativo all’espletamento di prestazioni di lavoro straordinario.
Diversamente, egli si sarebbe trovato innanzi all’alternativa fra due scenari ugualmente ed ingiustamente penalizzanti: attendere (magari per molti anni) l’esito definitivo del giudizio sul lavoro straordinario prima di agire in via giudiziaria per riscuotere tutti gli altri crediti retributivi di agevole accertamento (e di natura pur sempre alimentare), oppure agire subito, ma rinunciando alla loro liquidazione secondo il dovuto parametro retributivo maggiorato dall’incidenza dello straordinario.
Ad esempio, a voler seguire l’impostazione sollecitata dall’odierna parte ricorrente, dovrebbe concludersi che ogni qual volta il lavoratore vanti determinati crediti retributivi aventi incidenza sul TFR e/o su altri istituti indiretti egli debba o attendere di agire per questi ultimi fino a quando non gli siano riconosciuti i crediti su di essi incidenti, oppure rinunciare al corretto calcolo dei propri diritti retributivi.
Entrambi i capi dell’alternativa di cui sopra esporrebbero il lavoratore ad una lesione dei propri diritti costituzionali sanciti dall’art. 24, comma 1 e art. 36, comma 1.
Ne’ si dica che il lavoratore avrebbe dovuto azionare con un unico atto tutti i diritti derivanti dal rapporto di lavoro, poiche’ cio’ significherebbe tornare a quella ipotesi che la citata sentenza n. 4090/17 delle S.U. espressamente esclude come doverosa, sottolineando anzi – i rischi (per i diritti di difesa di entrambe le parti e per la concreta gestibilita’ istruttoria della lite) d’un unico processo monstre.
Ne’ nella vicenda in discorso soccorre la regola per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, poiche’ essa non amplia i limiti oggettivi del giudicato, ma sta semplicemente a significare che il risultato d’un primo processo conclusosi con sentenza passata in giudicato non potra’ essere rimesso in discussione (nel senso di essere sminuito o disconosciuto) deducendo in un secondo giudizio questioni – di diritto o di fatto, rilevabili d’ufficio o solo su eccezione di parte, di rito o di merito rilevanti ai fini dell’oggetto del primo giudicato e che sono state proposte (dedotto) o che si sarebbero potute proporre (deducibile) nel corso del primo giudizio (il che non era nella vicenda in esame, visto che le precedenti azioni, esercitate ex art. 633 c.p.c., non consentivano la prova testimoniale del lavoro straordinario).
In altre parole, la regola per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile serve solo a rendere intangibile l’attribuzione del bene della vita contenuta nella sentenza passata in cosa giudicata.
2.2. Il secondo motivo va disatteso perche’, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, in realta’ suggerisce esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio (documentale e testimoniale) affinche’ se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, operazione non consentita in sede di legittimita’ neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.
In altre parole, il ricorso oppone al motivato apprezzamento della Corte territoriale proprie difformi valutazioni delle prove, ma tale modus operandi non e’ idoneo a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo, applicabile ratione temporis, previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134).
Infatti, i vizi argomentativi deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non possono consistere in apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, perche’ a norma dell’art. 116 c.p.c., rientra nel potere discrezionale – come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilita’, l’affidabilita’ e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti, con l’unico limite di supportare con congrua e logica motivazione l’accertamento eseguito (v., ex aliis, Cass. n. 2090/04; Cass. S.U. n. 5802/98).
Le differenti letture ipotizzate in ricorso scivolano sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonche’ la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che cio’ possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti.
A sua volta il controllo in sede di legittimita’ delle massime di esperienza non puo’ spingersi fino a sindacarne la scelta, che e’ compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.
Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice e’ chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari.
Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, pero’, di qualunque pur minima plausibilita’.
Cio’ detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza ne’ violazioni di regole inferenziali, ma si limita a segnalare soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimita’, che non puo’ prendere in considerazione quale ipotetica illogicita’ argomentativa la mera possibilita’ di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza.
Ne’ il ricorso isola (come invece avrebbe dovuto) singoli passaggi argomentativi per evidenziarne l’illogicita’ o la contraddittorieta’ intrinseche e manifeste (vale a dire tali da poter essere percepite in maniera oggettiva e a prescindere dalla lettura del materiale di causa), ma ritiene di poter enucleare vizi di motivazione dal mero confronto con le deposizioni testimoniali, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti innanzi a questa Corte Suprema.
Del pari infondata e’ la doglianza relativa al mancato esercizio dei poteri istruttori d’ufficio.
Nel rito del lavoro l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verita’, implica un giudizio di opportunita’ rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale e non censurabile in sede di legittimita’.
3.1. In conclusione, il ricorso e’ da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimita’, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimita’, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.