CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 28560 depositata il 8 luglio 2016

LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – MISURE DI SICUREZZA – INFORTUNIO MORTALE – RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO E DEL DIRETTORE DEI LAVORI – ADEGUATE MISURE DI SICUREZZA

FATTO

1. Con sentenza in data 10 febbraio 2015 la Corte d’Appello di Milano confermava la pronuncia di condanna nei confronti di M.C., quale amministratore unico della società committente dell’opera denominata “Immobil P. Group S.r.l.” e anche dell’impresa esecutrice dei lavori “C. Group S.r.l.”, e di T.F., quale direttore tecnico di cantiere, per il delitto di omicidio colposo commesso con violazione di specifiche norme antinfortunistiche ai danni del lavoratore R.P..

2. Secondo l’ipotesi accusatoria il R.P., nello svolgimento della propria attività di fabbro all’interno dell’appartamento 10 A dell’edificio in fase di ristrutturazione sito in Milano, via Omissis n.7, nell’intento di estinguere una piccola autocombustione di una miscela di composti chimici, presente all’interno di un contenitore di plastica, vi aveva gettato all’interno dell’acqua così da provocare lo sviluppo di un violento incendio. A causa della mancata adozione di efficienti sistemi idonei allo spegnimento delle fiamme, e rivelatisi inutili i tentativi di soccorso degli altri dipendenti, il lavoratore aveva subito gravi ustioni di secondo e terzo grado, estese su tutto il corpo, da cui era derivato il decesso per arresto cardiocircolatorio.

Di tale evento erano stati ritenuti responsabili il M.C., il T.F., nelle indicate qualità, P.G., assistente di cantiere per l'”Immobil P. Group S.r.l.” e alle dipendenze della società “Pool Service S.r.l.” (imputato non ricorrente) e G.C., coordinatore per la sicurezza in cantiere (imputato non appellante).

3. La Corte territoriale riteneva sussistente una posizione di garanzia in capo al M.C., amministratore di ben tre imprese, tra cui proprio la C. Group S.r.l. deputata all’esecuzione dei lavori nel cantiere di via Omissis, il quale, in assenza di alcuna delega scritta specifica ad altri per la sicurezza sul luogo di lavoro e per la prevenzione degli infortuni, aveva omesso ogni attività di vigilanza e controllo sulla organizzazione del cantiere, mancando di verificare sia la rimozione e lo smaltimento del materiale di risulta, potenzialmente pericoloso, sia l’esistenza di attrezzature idonee a fronteggiare una situazione di emergenza, in particolare l’efficienza dei presidi antincendio (estintori), da tempo invece non oggetto di manutenzione e risultati non funzionanti.

Quanto al ruolo dell’arch. T.F., questi ricopriva la carica di direttore tecnico di cantiere, come tale inserito nel piano di sicurezza preparato dal G.C. e tenuto a verificare l’adozione delle misure a tutela dei lavoratori: in realtà, si legge nell’impugnata sentenza, non aveva mai vigilato, come la normativa vigente gli imponeva, sulla sicurezza nel cantiere e sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, e non aveva mai verificato se fosse realmente operativo e funzionante un piano per le situazioni di emergenza.

3. Propongono distinti ricorsi il difensore di fiducia del M.C. e il T.F. in proprio.

3.1. Il M.C. prospetta due motivi: erronea applicazione della legge penale con riferimento alle violazioni in materia di d.lgs. 81/2008, e manifesta illogicità della motivazione.

Quanto alle violazioni di norme antinfortunistiche, analizza le singole condotte colpose che gli vengono contestate. L’art.90 del detto D.lgs. prevede la figura del responsabile dei lavori quale soggetto destinatario del precetto: sicuramente non spettava al M.C., committente, l’obbligo di organizzazione di misure di emergenza al fine di attuare un’adeguata lotta antincendio e di provvedere alla manutenzione ed al controllo degli estintori, che comunque non potevano essere usati sulle persone ma solo sulle cose. Lo stesso dicasi per l’art.90, che si rivolge del pari al responsabile dei lavori, e dunque non poteva essere imputata al M.C. la omessa verifica del PSC da parte delle imprese esecutrici e la corretta applicazione delle procedure di lavoro contenute nei rispettivi POS. L’art.96, comma 1, lett.e) è invece indirizzato al datore di lavoro delle imprese affidatarie ed esecutrici, e non poteva di conseguenza essere ascritto al M.C. il fatto di non aver provveduto ad allontanare o rimuovere residui di altre lavorazioni. L’ultima specifica negligenza, prevista dall’art.43, comma 1, lett.b) – ossia non aver designato preventivamente i lavoratori di cui all’art.18, comma 1, lett.b) – pur non rispondendo alla realtà, risultando apposita nomina di DG.L., era comunque inconferente con gli accadimenti.

Quanto alla manifesta illogicità della motivazione, deduce che – in base alle considerazioni dello stesso consulente del P.M. – si era trattato di un accadimento eccezionale, imprevedibile, difficilmente ascrivibile alla tipicità dell’ambiente lavorativo edilizio, e perciò doveva essere esclusa la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa, anche alla luce del contesto probatorio che non aveva consentito di ricostruire con certezza gli accadimenti.

3.2. Il T.F., con unico ampio motivo, lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’applicazione dell’art.40 c.p. Argomenta in proposito che già dal febbraio 2006 aveva cessato la carica di amministratore unico della Immobil P. Group S.r.l., società committente, e dal marzo 2006 la carica di amministratore unico della società appaltatrice C. Group S.r.l. Le questioni di sicurezza non potevano essere quindi ricondotte alla sua responsabilità, neppure in caso si ipotizzasse un suo ruolo di amministratore occulto, poiché di competenza del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, funzioni che facevano capo all’architetto G.C.. Il ruolo del committente in materia di sicurezza sul lavoro rimaneva del tutto marginale se non addirittura assente e in ogni caso egli svolgeva per la società committente compiti di natura meramente commerciale, interessandosi solo delle vendite immobiliari.

DIRITTO

1. I ricorsi sono infondati.

2. In ordine alla dinamica dei fatti, di cui è opportuno dare breve contezza, si osserva – in base a quanto ricostruito con tranquillante certezza dai giudici di merito – che il R.P., dipendente della M. snc con qualifica di fabbro, si era recato presso il cantiere di via Omissis in Milano per eseguire lavori di saldatura all’interno dell’appartamento 10 A posto al primo piano. Attirato dall’odore acre di fumo o di bruciato proveniente dall’appartamento a fianco 10B vi aveva fatto ingresso ed aveva rinvenuto un contenitore in plastica normalmente utilizzato per vernici o simili da cui proveniva una fiamma. Aveva allarmato quindi altro operaio della necessità di spegnere l’incendio ma all’arrivo di questi, munito di un estintore, era ormai in fiamme con ustioni diffuse. Era stato poi accertato, in base alla consulenza tecnica del P.M. ed alle osservazioni dei consulenti delle difese, che all’interno del contenitore da cui si erano sviluppate le fiamme erano presenti degli stracci imbevuti di materiale chimico incollante utilizzato per l’applicazione del parquet, in particolare uno dei prodotti era l’Adesiver 184, composto da sostanze che reagivano in autocombustione con l’umidità. Era dunque accaduto che al prevedibile tasso di umidità presente nel cantiere aperto, stante il periodo invernale, si era aggiunta l’acqua istintivamente gettata dal R.P. nel tentativo di spegnere il fuoco, e ciò aveva sprigionato l’ulteriore sviluppo repentino della fiamma che aveva investito il lavoratore, come evidenziato dagli schizzi e dalle tracce di fumo rilevati dalla polizia scientifica sulle pareti della stanza.

Tale dinamica, così come accertata all’esito dell’istruttoria dibattimentale, ha portato i giudici di merito, con motivazione corretta e immune da vizi logici e giuridici, a concludere che il nucleo dell’insorgere e dello sviluppo delle fiamme, e quindi della morte del R.P., andava rintracciato nella organizzazione, o meglio nella totale disorganizzazione del cantiere sul piano della sicurezza: il contenitore da cui era sprigionato il fuoco era stato abbandonato, con il suo contenuto pericoloso, senza alcun controllo, senza alcuna attenzione sulla sua collocazione, senza alcuna sorveglianza su chi lo aveva riempito, senza il rispetto di ogni regola di elementare prudenza che avrebbe dovuto imporre in primo luogo di utilizzare non certo un secchio in plastica, materiale anch’esso facilmente infiammabile, e poi comunque di svuotarlo ovvero di riporlo in una zona destinata allo smaltimento, lontana da un possibile contatto con persone o cose. I residui delle colle e in genere delle lavorazioni dei materiali potenzialmente pericolosi avrebbero dovuto essere smaltiti e portati via giornalmente, mentre in cantiere non vi era nessuno incaricato in concreto della loro rimozione. A ciò andava aggiunta la inesistenza di un qualunque sistema di protezione antincendio all’Interno del cantiere, e ciò nonostante l’uso di materiali infiammabili intrinsecamente pericolosi: il rischio non era in alcun modo governato, come dimostrato dall’improvvisato intervento dell’operaio per spegnere le fiamme, a mezzo di un estintore, peraltro scarico e comunque non utilizzabile sulle persone, e due sacchi di cemento mezzi pieni. In conclusione, nel cantiere vi era mancanza assoluta di misure di sicurezza (nonostante fossero accaduti altri incidenti) ed era stata omessa ogni informazione e formazione degli operai sui rischi delle singole fasi di lavorazione. Non si era trattato quindi di un evento eccezionale, attribuibile al comportamento imprudente dell’operaio che aveva “gettato acqua sul fuoco” ma di un evento ascrivibile alle gravi e stabili omissioni della catena di sicurezza del cantiere e, segnatamente, delle prescrizioni in tema di prevenzione e protezione antincendio. Queste le circostanze indiscutibilmente riscontrate, su cui si sono ampiamente soffermati sia il Tribunale sia la Corte di Milano, quest’ultima in sede di rigetto dei motivi di gravame con una motivazione non solo per relationem ma integrativa di quelle di prime cure con ulteriori specifiche argomentazioni circa il nesso di causalità tra le dette omissioni e l’evento.

3. Tali rilievi portano al rigetto del secondo motivo di ricorso svolto dal M.C. in tema di causalità della colpa, essendo stato l’evento morte derivato dal difetto assoluto di qualsiasi minima organizzazione della protezione.

4. I ricorrenti hanno contestato entrambi la posizione di garanzia.

4.1. Il M.C. ha ricoperto il ruolo di amministratore delle due società, committente e appaltatrice e dunque ha rivestito una duplice e contestuale posizione di garanzia.

E’ vero che vi erano altre figure titolari di posizioni di garanzia – G.C., coordinatore nelle fasi di progettazione e di esecuzione dei lavori, P.G., di fatto capo cantiere, lo stesso T.F., direttore tecnico del cantiere – come dedotto nel primo motivo di ricorso e come acclarato nelle sentenze di condanna, ma ciò non svuotava di contenuto la posizione di garanzia del M.C. relativamente alla sicurezza del cantiere, in quanto nessun controllo e vigilanza egli aveva mai esercitato anche in relazione ai lavori svolti dalle varie ditte sub-appaltatrici, come da sua espressa ammissione, lasciando tutto affidato senza alcuna pianificazione alle scelte contingenti ed occasionali del G.C. e del G.P., dimostratisi anch’essi totalmente incompetenti, interessato egli unicamente degli aspetti economici dell’operazione di ristrutturazione e vendita degli immobili di via Omissis. Come ben evidenziato dalla Corte territoriale, non era stata poi dimostrata la sussistenza di alcuna delega scritta specifica ad altri per la sicurezza sul luogo di lavoro e per la prevenzione infortuni e dunque, nella qualità amministrativa apicale rivestita in entrambe le società parti del contratto di appalto, egli avrebbe dovuto dirigere, controllare, vigilare, verificare di persona che l’organizzazione del cantiere fosse idonea a prevenire, prima ancora che fronteggiare, una eventuale situazione di emergenza, in particolare lo smaltimento di materiali potenzialmente pericolosi.

4.2. Il T.F. ricopriva, come già detto, la carica di responsabile tecnico del cantiere, come tale inserito nel piano di sicurezza preparato dal G.C., e, secondo quanto dichiarato dal M.C., delegato (verbalmente) di “tutte le funzioni” riguardanti il cantiere e nello specifico la sicurezza. La Corte di Milano, nel ribadire la sua responsabilità in ordine all’evento, ha sottolineato che il T.F., interrogato sui fatti e sul suo ruolo, non aveva mai verificato di persona l’adozione delle misure di sicurezza nel cantiere ma si era limitato a chiedere a tutti di agire nel rispetto delle normative vigenti, senza mai riscontrare se un piano per le situazioni di emergenza operasse in concreto e non solo sulla carta.

In ogni caso, la possibilità che in cantiere si sviluppasse un incendio non era stata prevista, gli estintori non erano stati manutenuti ed erano vuoti, nessuno si era mai posto il problema del l’utilizzo di materiali infiammabili e del loro smaltimento, né erano state coordinate le fasi di lavorazione affidate a ditte in sub-appalto, ed in particolare alla M. alle cui dipendenze lavorava il R.P..

5. E’ stata dunque ben evidenziata dai giudici distrettuali la evidente responsabilità degli imputati per la inesistenza, in concreto, di ogni presidio di sicurezza sul cantiere.

Ne deriva il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.