CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 28568 depositata il 8 luglio 2016
LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – MISURE DI SICUREZZA – INFORTUNIO MORTALE – APPALTO – DUVRI GENERICO E RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO APPALTANTE
FATTO
M.G. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, pur rideterminando in melius il trattamento sanzionatorio, ne ha confermato il giudizio di responsabilità per il reato di cui all’articolo 590 cod.pen., aggravato dalla violazione della disciplina antinfortunistica, contestatogli in relazione a infortunio sul lavoro subito da D.D., avvenuto all’interno dell’azienda di cui l’imputato era legale rappresentante.
Si addebitava all’imputato di non avere adottato efficaci misure organizzative atte ad evitare la presenza di persone nell’area di attrezzature mobili ovvero a tutelarne l’integrità e ciò aveva determinato la verificazione dell’infortunio a seguito di una manovra impropria eseguita da proprio dipendente – separatamente giudicato- il quale, nell’azionare una macchina senza previa verifica dell’effettiva presenza della persona offesa – che operava per conto di altra azienda – determinava lo schiacciamento del D.D. contro la sponda del suo camion, da cui conseguivano le lesioni descritte in atti.
Per quanto interessa, in sede di merito, corrispondendo anche alle doglianze avanzate con l’atto di appello, si apprezzava il contenuto del documento di valutazione dei rischi, concludendosi nel senso che tale documento presentava un contenuto generico e parziale e analogo giudizio veniva motivatamente formulato anche con riguardo alle disposizioni adottate per evitare i rischi di interferenza con le attività svolte dalle ditte appaltatrici che operavano nell’azienda, quale quella da cui dipendeva l’operaio infortunato.
Veniva poi escluso che la condotta del lavoratore dipendente dall’imputato, pur colposa, potesse assurgere a unica causa eccezionale cui ricondurre l’infortunio.
Con il ricorso si ripropongono gli argomenti già disattesi in appello.
Con il primo motivo si deduce che, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, il rischio di schiacciamento e intrappolamento, era oggetto di puntuale disamina nel documento unico di valutazione dei rischi interferenziali, ossia quelli relativi alle attività terziarizzate. In tale documento, sotto forma di allegato a ciascun contratto di appalto, ivi compreso quello intercorso con la ditta per conto della quale lavorava l’operaio infortunato, erano comunicati all’appaltatore rischi presenti nei reparti di produzione, tra cui quello conseguente ad intrappolamento, e si imponeva a ciascuno di coordinarsi con il responsabile del reparto e del settore interessato.
Con il secondo motivo si ripropone la tesi della interruzione del nesso causale, volendo ricondurre l’evento alla improvvida ed eccezionale condotta del proprio dipendente.
DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato.
Vale ricordare, assorbentemente, che, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi ad una “doppia conforme” e cioè ad una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità, ex articolo 606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 4, n.4060 del 12/12/2013- dep. 2014- Capuzzi, Rv. 258438). Da ciò conseguendo che la tesi difensiva qui proposta è inaccoglibile in sede di legittimità risolvendosi nella riproposizione di un dissenso sulla valutazione del compendio indiziario già pertinentemente valutato nella sede di merito, evocando la improponibile necessità che debba essere questa Corte a rinnovare in fatto la idoneità o meno delle misure precauzionali contenute nei documenti suindicati, ampiamente e incensurabilmente esaminati nella sede propria.
Quanto al tema dell’interruzione del nesso causale vale il principio, qui correttamente applicato, secondo cui ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l’evento (articolo 41, comma secondo, cod. pen.), Il comportamento successivo può avere valenza “interruttlva” non perché “eccezionale”, ma perché “eccentrico rispetto al rischio” che il garante è chiamato a governare: in effetti, tale eccentricità potrà rendere in qualche caso (ma non necessariamente) statisticamente eccezionale il comportamento, ma ciò è una conseguenza accidentale, in quanto l’effetto interruttivo può e deve essere individuato in qualsiasi circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che, appunto, il garante è chiamato a governare. In questa prospettiva, in cui è la teoria del rischio a guidare nell’apprezzamento dell’eventuale effetto interruttivo, anche il fatto illecito altrui non esclude in radice l’imputazione dell’evento al primo agente, che avrà luogo fino a quando l’intervento del terzo, in relazione all’Intero concreto decorso causale della condotta iniziale all’evento, non abbia soppiantato il rischio originario; cosicché l’imputazione non sarà invece esclusa quando l’evento risultante dal fatto del terzo possa dirsi realizzazione sinergica anche del rischio creato dal primo agente (di recente, Sez.4, n. 33329 del 5/05/2015, S., Rv. 264365).
La decisione di merito si è mossa in modo aderente a questo principio, evidenziando come il comportamento del dipendente dell’imputato, per quanto colpevole, si è sviluppato nell’ambito delle mansioni conferitegli, non potendo assurgere a causa eccezionale dell’evento, la cui concorrente causa doveva apprezzarsi esistente proprio nelle carenze organizzative oggetto qui di contestazione.
La declaratoria di inammissibilità prevale su quella di estinzione del reato per prescrizione maturata dopo la sentenza di secondo grado (v., Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, B., Rv. 231164).
Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Cost., sent. 7¬13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del ricorrente medesimo al pagamento delle spese processuali e di una somma, che congruamente si determina in mille euro, in favore della cassa delle ammende.
P. Q. M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
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