CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 29541 depositata il 14 giugno 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 5 marzo 2015 la Corte d’appello di Venezia ha confermato la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verona del 29 maggio 2013, con cui, a seguito di giudizio abbreviato, G. B. era stato condannato alla pena di mesi due e giorni venti di reclusione in relazione al reato di cui all’art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000 (per avere, quale amministratore di fatto della S.p.a. P.cal dal 30/3/2009 al 30/9/2009, al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto e sui redditi o di consentirne a terzi l’evasione, occultato o distrutto tutte le scritture contabili e i documenti di tale società relativi all’anno d’imposta 2009, impedendo così la ricostruzione del reddito e del volume degli affari). A sostegno della affermazione della veste di G. B. di amministratore di fatto della S.p.a. Polichennical, la Corte d’appello ha evidenziato quanto al riguardo riferito nel corso delle indagini da L. C., che aveva costituito tale società e ne era formalmente l’amministratore, ma che vi aveva provveduto sulla base delle intese intercorse con B. e con altri e utilizzando fondi forniti dallo stesso B., che aveva poi anche indicato il nome del nuovo amministratore della società (tale F. F.), in sostituzione del figlio del C.. La Corte territoriale ha, inoltre, evidenziato la struttura del meccanismo illecito al quale aveva partecipato B. (consistente nell’acquisto da parte della P.cal dalla R. I. S.p.a. di merce in sospensione dell’imposta sul valore aggiunto, pur non possedendone i requisiti, e nella successiva vendita della medesima merce alla Chimica Lombarda, di cui B. era socio e amministratore, che provvedeva a corrispondere anche l’iva, che veniva in tal modo indebitamente lucrata dalla P.cal) e il conseguente interesse dello stesso a occultare la documentazione contabile di tale società, tra cui, in particolare, le fatture emesse dalla R. I. spa e le dichiarazioni di intenti della P.cal, utilizzate per avvalersi della sospensione dell’imposta sul valore aggiunto. La Corte d’appello ha anche disatteso la richiesta dell’imputato di conversione della pena detentiva nella pena pecuniaria di specie corrispondente, a causa della mancanza di un comportamento dell’imputato successivo al reato idoneo a consentire di riconoscergli un trattamento di favore, e anche in considerazione della assenza di elementi circa la solvibilità dell’imputato e la possibilità per lo stesso di versare la somma risultante dalla conversione.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, affidato a cinque motivi.
2.1. Con un primo motivo ha prospettato illogicità della motivazione, per l’omessa considerazione di tutte le dichiarazioni rese da L. C., che, nella prosecuzione del suo interrogatorio, il 29 marzo 2011, aveva rettificato quanto dichiarato il giorno precedente a proposito della indicazione da parte di B. del nome di F. F. come nuovo amministratore della P.cal, precisando che ciò gli era stato suggerito da altri, con il conseguente travisamento da parte della Corte d’appello delle dichiarazioni del C., e l’erroneità della affermazione da parte della Corte territoriale del coinvolgimento diretto dell’imputato nella gestione della P.cal.
2.2. Con un secondo motivo ha prospettato ulteriore vizio della motivazione, per la contraddittorietà tra gli elementi di prova a disposizione e le conclusioni, circa la veste di amministratore di fatto dell’imputato, che la Corte d’appello ne aveva tratto, atteso che da tali elementi poteva trarsi la veste di socio di fatto del ricorrente, ma non anche di amministratore di fatto, sottolineando la veste di unico socio di L. C. e la sottoscrizione da parte di costui di tutto il capitale sociale della P.cal.
2.3. Con un terzo motivo ha denunciato violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, a proposito della contestazione della condotta in concorso con gli amministratori di diritto L. C. e F. F., in quanto al momento della emissione e presunto occultamento dei documenti contabili (e cioè le dichiarazioni di intenti relative alla esenzione iva di cui avrebbe potuto fruire la P.cal e le fatture emesse dalla R. I. spa) l’amministratore di diritto della società era Emanuele C., non contemplato dalla contestazione.
2.4. Con un quarto motivo ha lamentato violazione dell’art. 53 I. n. 689 del 1981, essendo stata disattesa la propria richiesta di conversione della pena detentiva nella pena pecuniaria di specie corrispondente in considerazione della mancanza di un proprio comportamento positivo successivo alla commissione del reato e della mancata dimostrazione della possibilità di provvedere al pagamento, nonostante la disposizione di cui aveva chiesto l’applicazione non contemplasse tale esclusione oggettiva e non ricorresse nessuna di quella soggettive contemplate dall’art. 59 I. n. 689 del 1981.
2.5. Con un quinto motivo ha chiesto dichiararsi il fatto non punibile a cagione della sua particolare tenuità ai sensi dell’art. 131 bis cod. pen., sottolineando la determinazione della pena nel minimo da parte dei giudici di merito, indice della valutazione di modesta gravità della condotta addebitatagli.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato solamente in relazione al quarto motivo.
2. Il primo e il secondo motivo, mediante i quali sono stati prospettati travisamento delle dichiarazioni rese dall’amministratore di diritto della P.cal e illogicità e contraddittorietà della motivazione, sono infondati, sia perché sono volti a censurare l’apprezzamento delle prove dichiarative compiuto dai giudici di merito, e in particolare delle dichiarazioni rese dall’amministratore della Polichennical L. C., allo scopo di ottenerne una rivalutazione, non consentita nel giudizio di legittimità; sia perché, in ogni caso, le rettifiche che C. avrebbe compiuto nella prosecuzione del suo interrogatorio, a proposito della provenienza della indicazione di Ferrari come nuovo amministratore della P.cal, non determinano alcuna illogicità della motivazione, in quanto la Corte d’appello, in accordo con il primo giudice, è pervenuta alla affermazione della configurabilità del ruolo dell’imputato di amministratore di fatto della P.cal sulla base di un complesso di elementi, idoneo a sorreggere tale affermazione anche in mancanza del concorso dell’imputato alla nomina del nuovo amministratore. La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto l’imputato amministratore di fatto della P.cal sulla base di una pluralità di elementi, univoci e idonei a consentire di qualificarlo come l’effettivo dominus di tale società, tra cui l’iniziativa per la costituzione della stessa, l’apporto dei fondi necessari per la sottoscrizione del capitale sociale, il pagamento delle spese notarili sostenute per la costituzione, l’ideazione del meccanismo commerciale volto a conseguire un indebito profitto (e cioè l’acquisto da parte della P.cal di merci dalla R. I. spa in regime di esenzione iva pur non possedendone i requisiti; la consegna diretta da parte della venditrice di tali merci alla Chimica Lombarda di cui B. era socio e il pagamento da parte di tale società alla P.cal del relativo corrispettivo, maggiorato di iva), l’indicazione di L. C. quale amministratore: tali elementi depongono in modo univoco e senza necessità di ulteriori riscontri nel senso del controllo da parte dell’imputato della P.cal, la cui gestione era, sostanzialmente, sotto il suo dominio, sicché il dato della indicazione del nuovo amministratore della società, quale successore del figlio di L. C., risulta, alla luce della pregnanza e significatività di detti elementi, privo di decisiva incidenza nella struttura argomentativa della sentenza impugnata, idonea di per sé a sorreggere tale affermazione anche in assenza di tale elemento. Ciò determina l’irrilevanza dell’eventuale omessa considerazione di una parte delle dichiarazioni rese da L. C., in quanto quelle tralasciate non avrebbero, comunque, anche secondo la prospettazione del ricorrente, consentito di considerare diversamente il ruolo dell’imputato ed escluderne la veste di amministratore di fatto della P.cal, sicché deve escludersi la ravvisabilità del vizio di illogicità della motivazione, sub specie di travisamento della prova, prospettato dal ricorrente, posto che il vizio di travisamento della prova è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato probatorio travisato o tralasciato (Sez. 6, 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207). Tale percorso argomentativo è anche immune dalla contraddittorietà prospettata dal ricorrente, in quanto i giudici di merito non hanno tratto la veste di amministratore della P.cal dell’imputato dalla sola veste di socio occulto, bensì dal complesso di elementi evidenziato, da cui è stato ricavato, in modo logico, il controllo assoluto della Polichennical da parte dell’imputato, in quanto frutto, sostanzialmente, di una sua iniziativa e da lui governata.
3. Il terzo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, per essere stato contestato di aver occultato o distrutto la documentazione contabile e fiscale della P.cal in corso con L. C. e F. F. pur essendo emerso che la documentazione occultata o distrutta era stata emessa e, presumibilmente, occultata, quando amministratore della società era Emanuele C., è infondato. Va al riguardo ricordato come, da tempo, nella giurisprudenza di legittimità sia stato affermato il principio secondo cui, in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale sia stata riassunta l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da determinare un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio per i diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione di tale principio non va esaurita nel mero confronto, puramente letterale, fra contestazione e oggetto della statuizione di sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia venuto a trovare nella condizione concreta di potersi difendere in ordine all’oggetto dell’imputazione così come ritenuta in sentenza (cfr. Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619; conf., ex plurimis, Sez. 1, n. 6170 del 11/03/1997, Sgranfetto, Rv. 207934; Sez. 5, n. 7581 del 05/05/1999, Graci, Rv. 213776; Sez. 6, n. 34051 del 20/02/2003, Ciobanu, Rv. 226796; Sez. 4, n. 16900 del 04/02/2004, Caffaz, Rv. 228042; Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005, Cannizzo, Rv. 232423). Tale orientamento è stato sviluppato chiarendo che è configurabile la violazione del principio della correlazione tra l’imputazione contestata e la pronuncia solo quando il fatto, ritenuto in sentenza, si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità, nel senso che sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione e variazione dei contenuti essenziali dell’addebito (Sez. 3, n. 9973 del 22/09/1997, Angelini, Rv. 209245; Sez. 6, n. 36003 del 14/06/2004, Di Bartolo, Rv. 229756), e precisando che può sussistere violazione del principio di corrispondenza tra accusa e sentenza solo quando tra il fatto descritto e quello accertato non si rinviene un nucleo comune identificato dalla condotta, e si manifesta, pertanto, un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, che si risolve in un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa, a fronte dei quali l’imputato è impossibilitato a difendersi (Sez. 4, n. 27355 del 27/01/2005, Capanna, Rv. at;231727; Sez. 6, n. 81 del 06/11/2008, Zecca, Rv. 242368; Sez. 6, n. 6346 del 09/11/2012, Domizi, Rv. 254888). E’ stato, poi, ulteriormente precisato come, ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen., debba tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sull’intero materiale probatorio posto a fondamento della decisione (Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera, Rv. 254419; Sez. 2, n. 46786 del 24/10/2014, Borile, Rv. 261052, nella quale è stato chiarito che non è configurabile la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. qualora la diversa qualificazione giuridica del fatto appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, in relazione al quale l’imputato e il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione). L’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza, pertanto, non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato: la nozione strutturale di “fatto” va, infatti, coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata e decisione giurisdizionale risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (cfr. Sez. 2, n. 38889 del 16/09/2008, D. Rv. 241446; Sez. 5, n. 3161 del 13/12/2007, P., Rv. 238345). Ne consegue che la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. non sussiste quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni (cfr. Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012, Jovanovic, Rv. 254648), tenendo anche conto dei possibili sviluppi, interpretativi e sul piano della qualificazione giuridica, della ipotesi d’accusa originaria, che siamo in questa insiti ab origine. Ora, nella vicenda in esame, il nucleo centrale della contestazione non è affatto stato mutato, in quanto l’imputato è stato ritenuto responsabile, quale amministratore di fatto della P.cal, dell’occultamento e della distruzione dei documenti contabili relativi all’anno d’imposta 2009; il fatto che tale condotta sia stata contestata come commessa in concorso con gli amministratori di diritto L. C. e F. F., mentre sarebbe stata realizzata quando amministratore della società era Emanuele C., non esclude il concorso con i precedenti amministratori, giudicati separatamente, che ben possono aver comunque concorso nell’approntare il meccanismo fraudolento descritto e la successiva distruzione della documentazione utilizzata per realizzarlo, e non determina, comunque, un mutamento essenziale, nel senso anzidetto, del nucleo storico della condotta ascritta all’imputato, rimasta la medesima anche se in concorso eventuale con altro soggetto, con la conseguenza che deve escludersi la violazione della necessaria correlazione tra accusa e sentenza lamentata dall’imputato.
4. Il quarto motivo è fondato. La Corte d’appello ha respinto la richiesta dell’imputato di conversione della pena detentiva in quella pecuniaria di specie corrispondente, formulata ai sensi dell’art. 53 l. n. 689 del 1981, a causa della mancanza di un comportamento positivamente considerabile dell’imputato successivo alla commissione del reato e anche della incertezza in ordine alla possibilità dell’imputato di adempiere al pagamento della pena pecuniaria a favore dello Stato, benché tali condizioni non siano previste dalla disposizione di cui l’imputato aveva invocato l’applicazione. Il primo comma dell’art. 53 l. n. 689 del 1981 richiede, infatti, solamente, sul piano oggettivo, che la pena detentiva non sia superiore a due anni (onde sostituirla con quella della semidetenzione), ovvero a un anno (per poterla sostituire anche con la libertà controllata), o a sei mesi (per sostituirla con la pena pecuniaria della specie corrispondente). L’art. 59 della medesima l. 689/81 determina, poi, le condizioni soggettive ostative a tali sostituzioni, stabilendo, al riguardo, che: “La pena detentiva non può essere sostituita nei confronti di coloro che, essendo stati condannati, con una o più sentenze, a pena detentiva complessivamente superiore a tre anni di reclusione, hanno commesso il reato nei cinque anni dalla condanna precedente. La pena detentiva, se e’ stata comminata per un fatto commesso nell’ultimo decennio, non può essere sostituita: a) nei confronti di coloro che sono stati condannati più di due volte per reati della stessa indole; b) nei confronti di coloro ai quali la pena sostitutiva, inflitta con precedente condanna, e’ stata convertita, a norma del primo comma dell’articolo 66, ovvero nei confronti di coloro ai quali sia stata revocata la concessione del regime di semilibertà; c) nei confronti di coloro che hanno commesso il reato mentre si trovavano sottoposti alla misura di sicurezza della libertà vigilata o alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, disposta con provvedimento definitivo ai sensi delle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, e 31 maggio 1965, n. 575”. Le ragioni ostative indicate dalla Corte d’appello risultano, dunque, estranee alla disciplina positiva, posto che la pena detentiva in concreto determinata consentiva la sostituzione nella pena pecuniaria di specie corrispondente e che non è stato accertato che l’imputato si trovasse in una delle condizioni ostative indicate dall’art. 59 l. n. 689 del 1981. Ne consegue la fondatezza della censura mossa con il quarto motivo di ricorso, che comporta la necessità di annullare la sentenza impugnata per nuovo esame sul punto.
5. Risulta, infine, infondato il quinto motivo di ricorso, mediante il quale è stata richiesta la dichiarazione di non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis cod. pen. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131 bis cod. pen., ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti, come quello in esame, in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di cassazione può rilevare d’ufficio, ex art. 609, comma 2, cod. proc. pen., la sussistenza delle condizioni di applicabilità di tale istituto, dovendo peraltro limitarsi, attesa la natura del giudizio di legittimità, ad un vaglio di astratta non incompatibilità della fattispecie concreta (come risultante dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali) con i requisiti ed i criteri indicati dal predetto art. 131 bis (Sez. 3, n. 31932 del 02/07/2015, Terrezza, Rv. 264449; Sez. 4, n. 22381 del 17/4/2015, Mauri, Rv. 263496; Sez. 3, n. 15449 del 8/4/2015, Mazzarotto, Rv.263308). Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi chiarito che ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590). Tale valutazione può essere compiuta anche nel giudizio di legittimità, sulla base di un apprezzamento limitato alla astratta compatibilità dei tratti della fattispecie, come risultanti dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali, con gli indici-criteri e gli indici- requisiti indicati dal legislatore, cui segue in caso di valutazione positiva, sentenza di annullamento con rinvio al giudice di merito (Sez. 3, Sentenza n. 38380 del 15/07/2015, Ferraiuolo, Rv. 264795, che in motivazione ha sottolineato come ciò consenta di contemperare l’obbligo di rilevazione d’ufficio, discendente dal disposto dell’art. 129 cod. proc. pen., con la fisiologia del t giudizio di legittimità, che preclude valutazioni in fatto). Peraltro, nel caso in esame non emerge alcuna particolare tenuità del fatto, essendo sufficiente, per escluderla, considerare che, secondo quanto accertato nelle sentenze di merito, l’imputato aveva, in accordo con i coimputati, costituito una società, la P.cal, al solo scopo di beneficiare delle esenzioni iva, e, con una condotta potenzialmente assai pregiudizievole per le ragioni della Amministrazione finanziaria, e, in particolare, per l’accertamento del volume d’affari e dei ricavi da sottoporre a tassazione delle società coinvolte, occultato o distrutto la documentazione contabile e fiscale di tale società, rendendo certamente assai più difficoltosi gli accertamenti fiscali, con una condotta potenzialmente assai pregiudizievole per le gli interessi della Amministrazione finanziaria, con la conseguenza che essere esclusa l’esiguità del pregiudizio derivante dal reato commesso dall’imputato e con essa anche l’esclusione della punibilità per la particolate tenuità del fatto.
6. In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla richiesta di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, per nuovo esame sul punto, e il ricorso rigettato nel resto, con la conseguente definitività dell’accertamento di responsabilità dell’imputato, stante la formazione del giudicato progressivo in punto di accertamento del reato e affermazione di responsabilità (Sez. 3, n. 38380 del 15/07/2015, Ferraiuolo, Rv. 264796; Sez. 3, n. 50215 del 08/10/2015, Sarli, Rv. 265434; Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016, Mazzoccoli, Rv. 267590).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla richiesta di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia. Rigetta nel resto.
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