CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 3597 del 24 febbraio 2016
TRIBUTI – ACCERTAMENTO – CONTROLLI BANCARI – OPERAZIONI ANNOTATE NEI CONTI – SINGOLI DATI ED ELEMENTI – PRELEVAMENTI O VERSAMENTI INGIUSTIFICATI – INDICAZIONE DEL BENEFICIARIO – NECESSITA’
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Commissione tributaria della regione Lombardia con sentenza 5.7.2007 n. 59 ha rigettato l’appello proposto da O. s.a.s., dal socio accomandatario V. S. e dal socio accomandante V. G., confermando la decisione di prime cure che aveva parzialmente accolto il ricorso introduttivo dei contribuenti riducendo l’imponibile determinato nell’avviso di accertamento e dichiarando legittimo l’atto di contestazione e di irrogazione della sanzione pecuniaria, entrambi emessi dall’Ufficio di Milano della Agenzia delle Entrate in seguito ai processi verbali redatti dalla Guardia di Finanza in data 23.12.1999 ed in data 16.4.2002, concernenti l’anno d’imposta 1999, dai quali erano emersi ricavi non contabilizzati per oltre lit. 600.000.000 nonché la indebita deduzione di costi per oltre lit. 11.000.000, con conseguente rideterminazione del maggiore imponibile ai fini ILOR ed IRPEF, nonché liquidazione della maggiore IVA.
I Giudici di appello rilevavano che la motivazione “per relationem” dell’avviso di accertamento che richiamava le risultanze dei processi verbali di constatazione, era conforme alla struttura articolata per fasi del procedimento di accertamento fiscale che terminava nel provvedimento impositivo finale. Nel merito la pretesa tributaria doveva ritenersi fondata essendo riferibili alla società di persone i movimenti rilevati sui conto dei soci, non avendo questi -che non disponevano di altre fonti di reddito- fornito alcuna diversa giustificazione dei prelievi e degli addebiti, dovendo quanto a quest’ ultimi essere confermata la riduzione dell’importo statuita dalla CTP. Doveva altresì essere confermato l’accertamento fiscale relativo alla indeducibilità dei costi “non inerenti”, non avendo i contribuenti assolto alla prova della inerenza dei beni e servizi acquistati.
Avverso la sentenza di appello, non notificata, hanno proposto ricorso per cassazione la società ed i due soci deducendo diciotto motivi ai quali ha resistito con controricorso la Agenzia fiscale.
La società ha presentato memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo (violazione art. 42 Dpr n. 600/73, in relazione all’art. 360coln. 3 c.p.c.) è inammissibile sotto plurimi profili.
Occorre premettere che la CTR ha statuito in ordine al requisito di validità dell’atto impositivo, costituito dalla indicazioni delle ragioni di diritto e dei presupposti di fatto che fondano la pretesa tributaria, ed ha concluso per l’esistenza di tale requisito in quanto l’atto impositivo era motivato per relationem ai PP.VV.CC.. Il Giudice di appello ha inoltre statuito la insussistenza del vizio di invalidità dell’atto impositivo motivato per relationem, in quanto l’Ufficio accertatore non era tenuto a rielaborare in ogni caso le risultanze emerse dai PP.VV.CC..
Tanto premesso:
– i ricorrenti con il primo quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., e con la relativa censura, non impugnano alcuna delle indicate statuizioni, venendo a sottoporre alla Corte una questione del tutto distinta attinente, non al requisito di validità dell’atto impositivo in relazione al requisito motivazionale, ma al fondamento della pretesa, atteso che viene criticata la mancata considerazione, da parte dell’Ufficio finanziario che ha emesso l’avviso di accertamento, di elementi determinanti di cui al PVC 16.4.2002 emersi a favore dei contribuenti (ipotesi peraltro che contraddice l’altra censura formulata con il medesimo motivo e che dà luogo ad un successivo distinto quesito di diritto, in ordine all’illegittimo acritico recepimento da parte dell’Ufficio delle risultanze del PVC): tale questione riverbera sul piano della prova ed avrebbe potuto, eventualmente, riflettersi su un vizio logico di motivazione della sentenza impugnata, ma non certo nella dedotta violazione di norma di diritto. L’errore nella individuazione dei parametro del sindacato di legittimità determina la inammissibilità della prima censura, risultando in ogni caso inconferente il motivo rispetto alla statuizione impugnata; il motivo si palesa in ogni caso inammissibile per difetto del requisito di autosufficienza ex art. 366col n. 6) c.p.c., in quanto impugna la sentenza, relativamente alla pronuncia di accertamento della validità dell’atto impositivo, omettendo tuttavia di trascrivere il contenuto del PVC e dell’avviso di accertamento -documenti del giudizio di merito ai quali la Corte non ha accesso diretto- e così impedendo alla Corte la verifica della asserita totale coincidenza della motivazione dell’atto impositivo con le risultanze del PVC (è appena il caso di aggiungere che la sentenza ha fatto corretta applicazione del principio affermato da questa Corte secondo cui “la motivazione “per relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, dovendosi piuttosto ritenere implicitamente condivisa la valutazione di rilevanza espressa nei verbali richiamati1cfr. Corte cass. V sez. 26.6.2003 n. 10205; id. V sez. 28.11.2005 n. 25146; id. V sez. 11.4.2011 n. 8183; id. Sez. 5, Sentenza n. 21119 del 13/10/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 4523 del 21/03/2012).
Il secondo motivo (difetto di motivazione art. 360 co l n. 5 c.p.c.) è inammissibile in quanto i ricorrenti impugnano per “errore di fatto” un vizio di applicazione di norma di diritto ( che avrebbe dovuto essere dedotto attraverso il vizio di cui all’art. 360 co l n. 3 c.p.c.), atteso che si censura la sentenza per aver erroneamente ritenuto conformi al paradigma normativo dell’art. 42 Dpr n. 600/73 i PP.VV.CC. in data 23.12.1999 e 16.4.2002.
Il motivo è illegittimo, altresì, per carenza di autosufficienza non essendo stato trascritto il contenuto dei verbali, e ciò a prescindere dal rilievo per cui la norma tributaria indicata, disciplina esclusivamente il contenuto dei soli atti impositivi e non dei verbali istruttori.
Il terzo motivo (violazione art. 42 Dpr n. 600/73, violazione del principio del contraddittorio e del diritto difesa, ex art. 360 co l n. 3 c.p.c.) con il quale i ricorrenti impugnano la sentenza in relazione alla ritenuta legittimità dell’avviso di accertamento motivato “per relationem” a PP.VV.CC. che non erano stati previamente notificati ai contribuenti (ed in particolare ad altro accertamento bancario menzionato nello stesso avviso), nonché per mancata notificazione dell’atto di contestazione anche ai due soci, è inammissibile per novità, non risultando che tale questione sia stata ritualmente proposta con il ricorso introduttivo (riportato alle pag. 6-13 del ricorso per cassazione) e reiterata con i motivi di gravame nei precedenti gradi di giudizio: la censura è, pertanto, inammissibile per difetto di autosufficienza, non avendo indicato i ricorrenti “quando e dove” tale vizio di nullità dell’atto impositivo sia stato ritualmente introdotto ed acquisito al “thema decidendum”.
E’ appena il caso, inoltre, di osservare che, nella inverificata ipotesi che il Giudice di merito fosse stato regolarmente investito della questione e non avesse preso in esame e deciso il motivo di opposizione, i ricorrenti avrebbero dovuto allora impugnare la sentenza in relazione al diverso vizio di nullità processuale ex art. 360 co l n. 4 c.p.c. per violazione dell’art. 112 c.p.c. (omessa pronuncia), palesandosi comunque inammissibile -anche in tale ipotesi- la censura proposta.
Il quarto motivo (“difetto motivazione o in subordine alternativamente quanto meno insufficiente motivazione o motivazione contraddittoria ed omesso esame di elementi probatori, circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, ex artt. 132 n. 4 e 118 disp. att. c.p.c. , in relazione all’art. 360 co l n. 5 c.p.c.’’) è inammissibile e comunque infondato.
E’ inammissibile quanto alla dedotta nullità della sentenza per carenza assoluta del requisito di validità della motivazione, non essendo evidenziata nel quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. una mancanza di motivazione, determinativa della nullità della sentenza, quanto piuttosto un vizio logico dell’argomentazione svolta a supporto del “decisum”.
Il vizio di nullità processuale, per carenza assoluta di motivazione, concerne uno dei requisiti essenziali della sentenza, nella specie individuato dall’art. 36 co 2 n. 4) Dlgs n. 546/1992 nella “succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto”, con formula lessicale sostanzialmente ripresa dall’art. 132 co 2 n. 4) c.p.c. (la sentenza deve contenere “la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto della decisione”, e -dopo le modifiche dell’art. 45 co 17 della legge n. 69/2009- “la concisa esposizione delle ragioni in fatto e diritto della decisione “, o come ulteriormente precisa l’art. 118 co 1 disp. att. c.p.c. la “succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”), dovendosi rilevare in proposito che costituisce principio costantemente affermato da questa Corte quello secondo cui, in tema di contenuto della sentenza, la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto della decisione, richiesta dall’art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ. – nella versione anteriore alla modifica da parte dell’art. 45, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69-, non rappresenta un elemento meramente formale, ma un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione della intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui mancanza costituisce motivo di nullità della sentenza solo quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, stante il principio della strumentalità della forma, per il quale la nullità non può essere mai dichiarata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (art. 156, comma 3, cod. proc. civ.), considerato che lo stesso Legislatore, nel modificare l’art. 132 cit., ha espressamente stabilito un collegamento di tipo logico e funzionale tra l’indicazione in sentenza dei fatti di causa e le ragioni poste dal giudice a fondamento della decisione (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 1170 del 23/01/2004; id. Sez. L, Sentenza n. 6683 del 19/03/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 22845 del 10/11/2010).
A parte il caso di scuola della “materiale” assenza di rappresentazione di tale “relatio” nella sentenza (che si verifica quando il giudice in sentenza si limita a dare atto della questione controversa e della regola di diritto applicata, senza alcuna spiegazione dell’iter logico seguito per collegare il fatto al diritto), il provvedimento giurisdizionale incorre nel radicale vizio di nullità tutte le volte in cui detta “giustificazione” risulti “meramente apparente”, e cioè pur essendo materialmente individuabile nel testo scritto, tuttavia non consente di rilevare quale sia stata la “ratio decidendi” (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 161 del 08/01/2009), come nel caso in cui la “relatio” sia effettuata mediante rinvio a precedenti o a massime giurisprudenziali richiamati in modo acritico e “non ricollegati esplicitamente alla fattispecie controversa” (cfr. Corte cass. Sez, L, Sentenza n. 15949 del 17/12/2001; id. Sez, L, Sentenza n. 662 del 17/01/2004; id. Sez. 5, Sentenza n. 11710 del 27/05/2011), o ancora quando il giudice di merito “apoditticamente” neghi che sia stata data la prova di un fatto ovvero che, al contrario, affermi che tale prova sia stata fornita, omettendo un qualsiasi riferimento sia al mezzo di prova che ha avuto a specifico oggetto la circostanza in questione, sia al relativo risultato (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 871 del 15/01/2009), od ancora quando la sentenza sia del tutto priva di riferimenti ai “criteri di diritto” che hanno determinato l’applicazione della “regula juris” (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 16581 del 16/07/2009; id. Sez, 1, Sentenza n. 18108 del 04/08/2010).
Tanto premesso e considerato che il vizio in questione deve essere accertato alla stregua del “corpus” unitario costituito dalle diverse parti in cui si articola la sentenza (descrizione del fatto e delle vicende processuali; argomenti logici e criteri giuridici; affermazione della regola applicata nel caso concreto, come evidenziato nel dispositivo), ritiene il Collegio che la pronuncia impugnata vada esente dal vizio di nullità predetto, atteso che la CTR “esaminata la documentazione allegata (dai contribuenti) fin dal ricorso introduttivo” ha ritenuto di dover confermare l’accertamento del primo Giudice in quanto, la assenza di altre fonti reddituali dei soci, induceva la prova presuntiva della riferibilità degli importi transitati sui conti intestati all’accomandante ed all’accomandatario, all’attività d’impresa svolta dalla società di persone, ed ancora che la assenza di prova fornita dai contribuenti della inerenza dei costi dedotti dal reddito d’impresa, rendeva legittimo l’accertamento di indeducibilità dell’Ufficio finanziario.
Indipendentemente da eventuali vizi logici determinati da incocrenze tra l’argomento motivazionale enunciato e le risultanze istruttorie acquisite al processo (esterne all’apparato motivazionale), ovvero di eventuali inconciliabili proposizioni logiche indicate a supporto della decisione (vizi inerenti le categorie tipiche di cui all’art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.), la sentenza di appello risulta dotata pertanto del requisito formale di validità richiesto dall’art. 36 co 2 , n. 4), Dlgs n. 546/1992, ed il motivo si palesa dunque infondato.
La seconda censura, formulata in via subordinata con il medesimo motivo, e che trova espressione nel secondo quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., deve essere dichiarata inammissibile per difetto di autosufficienza, atteso che i ricorrenti contestano l’errore di fatto della CTR che ha dichiarato legittima la pretesa fiscale, senza tener conto che i verbalizzanti, nel PVC 16.4.2002, avevano ritenuto “non inerenti all’attività d’impresa” le movimentazioni bancarie rilevate sui conti indagati.
E’ appena il caso di osservare come il controllo dell’errore denunciato rimane evidentemente precluso alla Corte dalla omessa indicazione : 1-delle movimentazioni bancarie, definite “non inerenti”; 2-del PVC in data 16.4.2002 e delle conseguenti ragioni per cui alcune movimentazioni sarebbero state ritenute “non inerenti” dai verbalizzanti; 3-dell’avviso di accertamento che avrebbe “immotivatamente” considerato “inerenti” anche quelle movimentazioni ritenute “non inerenti” dai verbalizzanti.
Il quinto motivo (“difetto di motivazione o in subordine alternativamente motivazione contraddittoria” ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.) con il quale si reiterano sostanzialmente le stesse censure prospettate con il motivo precedente, è anch’esso inammissibile per difetto di autosufficienza, atteso che la censura gravita interamente intorno ad una proposizione estrapolata dal PVC in data 16.4.2002 (cfr. motivo di gravame n. 1, riportato al punto H del ricorso, pag. 22 : “le movimentazioni dei conti correnti intestati ai sigg. V. e quelle dei conti correnti sui quali gli stessi hanno la disponibilità ad operare, non hanno trovato inerenza con l’attività d’impresa e le giustificazioni rese dalla parte non sono state completamente esaustive nel dimostrare l’irrilevanza allo stesso fine: tuttavia per taluni importi, contestati e non, sono state indicate le relative motivazioni”), peraltro di difficoltosa comprensione sotto il profilo logico e lessicale (se, infatti, le movimentazioni non hanno trovato inerenza, non trova logica connessione l’affermazione contraria secondo cui le giustificazioni fomite dai contribuenti non sono state completamente esaustive; tanto meno trova corrispondenza alla prima affermazione, la conclusione dei verbalizzanti per cui solo per “taluni importi” sono state indicate le relative motivazioni), ex se del tutto inidonea a fornire quella “prova decisiva” che, soltanto, consente l’ammissione alla verifica di legittimità del tipo di vizio dedotto. Al riguardo deve osservarsi che la “prova decisiva” -omessa od inesattamente considerata dal Giudice di merito- deve attenere ad un “fatto”, principale o secondario, e non alla valutazione critica che di quel fatto può aver compiuto la Guardia di Finanza e che, in quanto mera espressione di giudizio, bene può essere disattesa o modificata dall’Ufficio finanziario competente in via esclusiva alla adozione del provvedimento impositivo: che detta “valutazione” dei verbalizzanti, estrapolata dall’unitario contesto del PVC, non possa integrare la “prova decisiva” -tale cioè da modificare la soluzione della controversia adottata dalla CTR- trova riscontro nello stesso motivo di gravame formulato nell’atto di appello dai contribuenti, laddove si dolgono che “la G.d.F. insomma non effettua verifiche ma emette giudizi: siccome ritiene non esaustive le informazioni e le motivazioni ricevute, anziché indagare sulle stesse, propone di riprendere a tassazione le somme contestate” (ricorso pag. 22); il che viene a destituire del tutto di fondamento il motivo di ricorso per cassazione in esame, risultando -contrariamente a quanto sostenuti dai ricorrenti- del tutto coerente la pretesa fiscale dell’avviso di accertamento con le risultanze del PVC.
In ogni caso, in mancanza della specifica indicazione dei singoli importi, rilevati sui conti correnti, oggetto di contestazione in ordine alla “inerenza” alla attività societaria, rimane impedito a questa Corte qualsiasi controllo dell’errore denunciato, essendo appena il caso di aggiungere che si palesa del tutto inconferente la denuncia del “vizio di contraddittorietà” della motivazione della sentenza in relazione alle risultanze del PVC in data 16.4.2002, atteso che il tipo di vizio denunciato ricorre esclusivamente nel caso in cui le proposizioni argomentative della motivazione della sentenza risultino tra loro intrinsecamente illogiche, dovendo ravvisarsi la contraddittorietà solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorché, dalla lettura della sentenza, non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 25984 del 22/12/2010).
Il sesto motivo (“violazione di legge ex art. 360 co 1 n. 3 c.p.c”), meramente reiterativo della censura formulata con il quinto motivo, è inammissibile in quanto, per un verso qualifica come vizio di “error juris” quello che intende far valere come “error facti”, per altro verso neppure viene indicata la norma di diritto che sarebbe stata violata dalla CTR.
Il settimo motivo (omessa motivazione in relazione all’art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.) con il quale vengono reiterate le stesse cesure formulate in precedenza, è del pari inammissibile, difettando la specifica indicazione del fatto “decisivo”, dimostrato in giudizio, che se considerato dalla CTR avrebbe determinato con certezza una decisione favorevole alle parti ricorrenti. Anche in questo motivo si assume che sarebbe stata comprovata la “non inerenza” all’attività economica della società dei movimenti bancari rilevati sui conti in titolarità o disponibilità dei soci, ma non si specifica né quali siano gli importi, né la provenienza degli accrediti da fonti reddituali, né la destinazione dei prelievi per acquisti di beni e servizi estranei all’attività d’impresa della società di persone, né sopra tutto vengono indicate le prove documentali su cui le allegazioni giustificative fomite dai soci darebbero fondate (le mere allegazioni riportate nel ricorso introduttivo non sono assistite da alcun riscontro probatorio).
L’ottavo motivo (“violazione di legge e dei principi giurisprudenziali in tema di attribuzioni dell’onere probatorio “) è inammissibile in quanto i ricorrenti denunciano la violazione dell’applicazione del regola sul riparto dell’onere probatorio, sul presupposto indimostrato della “ritenuta non inerenza tra le movimentazioni bancarie e l’attività d’impresa ed in presenza di giustificazioni verbali e documentali rese dal contribuente..” (ricorso pag. 52). I Giudici di merito, infatti, hanno correttamente applicato l’art. 2697 c.c., avendo ritenuto fondato la pretesa fiscale sulla presunzione legale di maggiori ricavi prevista dall’art. 51 co 2, n. 2), Dpr n. 633/1972, in base alla ritenuta assenza di “prove convincenti atte a dimostrare che le movimentazioni bancarie ….non siano riconducibili alla attività della società” (cfr. sentenza CTR, motivazione).
Il nono motivo ripropone nuovamente le censure di “omessa ovvero in subordine alternativamente insufficiente motivazione ” ex art. 360 col n. 5 c.p.c., già esaminate con i precedenti motivi. La inammissibilità -anche di tale motivo- consegue al palese difetto di autosufficienza ex art. 366 co l n. 6 c.p.c., essendosi limitati i contribuenti a lamentare che la CTR non ha esaminato le giustificazioni fomite circa il transito delle somme sui conti dei soci e non ha argomentato la inidoneità probatoria di tali giustificazioni. E’ appena il caso di osservare come il vizio di legittimità inerente la logicità della motivazione, non può esaurirsi nella mera contestazione dell’accertamento in fatto compiuto dal Giudice di merito (pars destruens), ma deve essere necessariamente accompagnato dalla specifica indicazione del fatto “decisivo” -omesso od inesattamente valutato- che, se considerato, avrebbe destituito di fondatezza l’argomento svolto a supporto della decisione impugnata e determinato quindi una differente soluzione della controversia (pars construens). Nella specie i ricorrenti hanno allegato di aver fornito indicazioni circa la provenienza e la destinazione delle somme transitate sui conti, ma non hanno individuato alcuna prova decisiva, prodotta in giudizio, volta a dimostrare tali assunti giustificativi, difettando pertanto un requisito essenziale di ammissibilità della censura relativa al vizio logico ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c..
Con il decimo motivo la sentenza di appello viene impugnata per violazione dell’art. 32 co 2 Dpr n. 600/73, in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c..
Occorre premettere che la norma asseritamente violata concerne le imposte sui redditi (e viene ad imputare a “ricavi o compensi i prelevamenti e gli importi riscossi, rilevati sui conti” se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili”), e che analoga norma è prevista in materia IVA dall’art. 51co2, n.2), Dpr n. 633/72 (che considera ricavi gli importi transitati sui conti “se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili”).
Tanto premesso il motivo è da ritenersi infondato.
La interpretazione letterale della norma secondo cui sarebbe sufficiente ad assolvere all’onere della prova contraria la mera indicazione del nominativo del beneficiario, è illogica ed in evidente contrasto con la “ratio legis”, in quanto verrebbe a rendere sostanzialmente inefficace la presunzione legale ricollegata alla mancata giustificazione del prelevamento o dell’accreditamento, atteso che tanto la presunzione, stabilita dall’art. 51, secondo comma, n. 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in tema di accertamento dell’IVA -secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 del medesimo decreto presidenziale, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili-, quanto la presunzione di cui alla analoga norma dell’art. 32, primo comma, n. 2, Dpr n. 600/1973, dettata in materia di imposte sui redditi -secondo la quale i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in difetto di indicazione del soggetto beneficiario o in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati ricavi o compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile-, presentano un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività economica svolta dal contribuente, qualificando gli accrediti come ricavi e gli addebiti come manifestazione di ricchezza in quanto corrispettivi per acquisti di beni e servizi (di cui tuttavia rimane ignota la natura e la destinazione e quindi l’eventuale inerenza e reimpiego nell’attività di impresa, non potendo pertanto soddisfare alla prova presuntiva contraria la mera “generica possibilità” di un tale impiego, in quanto la massima d’esperienza secondo cui il contribuente tende logicamente ad occultare i ricavi ma non anche i componenti negativi di reddito, esclude carattere di univocità alla conseguenza logica che si intende trarre dal fatto noto (prelievo=acquisto), non potendo riconoscersi ai prelievi sempre e comunque -e neppure in via di elevata probabilità- natura di costi inerenti deducibili. La norma tributaria, con presunzione “juris tantum”, viene invece a considerare i “prelevamenti” dal conto come manifestazione di capacità produttiva di reddito, ipotizzando un impiego/investimento delle relative somme produttivo di nuova ricchezza, per un ammontare pari al corrispondente importo, ove non venga fornita adeguata prova contraria): la presunzione legale “juris tantum”, può essere vinta dal contribuente che offra la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all’uopo che vengano indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 26692 del 06/12/2005; id. Sez. 5, Sentenza n. 20199 del 24/09/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 16650 del 29/07/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 26173 del 06/12/2011 -con riferimento all’art. 32 Dpr n. 600/73 in materia di imposte sui redditi- ; id. Sez. 5, Sentenza n. 15217 del 12/09/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 1418 del 22/01/2013; id. Sez. 5, Ordinanza n. 6595 del 15/03/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 21303 del 18/09/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 20668 del 01/10/2014. La presunzione legale in questione ha superato il vaglio di costituzionalità in relazione agli artt. 3 e 53 Cost. -sentenza Corte cost. n. 225/2005-: cfr. Corte cass. Sez, 6 – 5, Ordinanza n. 13036 del 24/07/2012).
L’undicesimo ed il dodicesimo motivo (violazione dell’art. 42 Dpr n.600/73, violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.), in quanto logicamente dipendenti dal terzo motivo -già dichiarato inammissibile-, incorrono nella stessa pronuncia di inammissibilità.
I ricorrenti assumono “inutilizzabili” le risultanze dei PP.VV.CC. in data 23.12.1999 e 16.4.2002 (richiamati per relationem nell’avviso di accertamento), in quanto non sarebbero stati notificati anche ai soci ed ai terzi (L. D. e S.) titolari dei conti le cui movimentazioni sono state imputate all’attività d’impresa della società di persone:
tuttavia gli stessi ricorrenti non hanno indicato né dove, né quando tale vizio di invalidità dell’atto impositivo sia stato dedotto nel corso dei precedenti gradi di giudizio, rimanendo pertanto precluso il sindacato di legittimità su una questione di merito del tutto nuova e proposta per la prima volta avanti la Corte.
Con il tredicesimo motivo la sentenza di appello viene censurata per vizio di difetto di motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. in quanto avrebbe riferito a ricavi occulti della società le operazioni effettuate dalla socia accomodante su conti intestati a terzi, pur in mancanza di “prova diretta a dimostrare che l’incarico ad operare sul conto si fonda su un rapporto fittizio di mandato Il motivo è del tutto infondato. La giurisprudenza di questa Corte è ferma nell’enunciare che la presunzione legale di cui agli artt. 32 co 1 Dpr n. 600/73 e 51 co 2 Dpr n. 633/72 opera certamente anche nel caso in cui le movimentazioni bancarie ingiustificate si riferiscano a conti o rapporti formalmente intestati a soggetti diversi dal contribuente, qualora gli elementi indiziari raccolti dai verificatori consentano di pervenire alla prova -anche mediante presunzioni- della effettiva disponibilità del conto o degli importi movimentati da parte del contribuente. Nella specie la CTR ha ravvisato tale disponibilità dalla delega ad effettuare operazioni sul conto rilasciata al socio accomandante dai soggetti titolari dei conti bancari (circostanza pacifica), fondando la prova presuntiva dei maggiori redditi d’impresa della società (e quindi dei maggiori redditi di partecipazione dei singoli soci), sulla assenza di altre differenti attività reddituali svolte dai soci, ovvero di altre entrate a vario titolo conseguite nel periodo d’imposta, idonee a giustificare la notevole liquidità transitata sui conti dei quali gli stessi erano titolari od avevano comunque la disponibilità, liquidità compatibile, invece, con la contigua attività economica della società e con la effettuazione di operazioni imponibili non dichiarate.
Alcuna prova necessitava, pertanto, della intestazione fittizia del conto, atteso che, nella specie, il soggetto titolare del conto aveva delegato espressamente il socio accomandante ad operare sul proprio conto.
Il quattordicesimo motivo (difetto di motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.), è anch’esso inammissibile per difetto di autosufficienza ex art. 366 co 1 n. 6 c.p.c.
Premesso che il Giudice di prime cure ha parzialmente accolto il ricorso dei contribuenti, ritenendo assolta la prova contraria in ordine alla effettiva destinazione -di taluni importi prelevati dai conti- a spese per acquisto di beni o servizi “non inerenti” alla attività d’impresa, ed ha provveduto, quindi, a decurtare i corrispondenti importi rilevati dai conti dall’ammontare dei maggiori ricavi accertati dall’Ufficio finanziario, i ricorrenti non indicano quali ulteriori prove decisive siano state fomite a dimostrazione della estraneità alla attività commerciale della società di altri prelievi risultanti dai conti, limitandosi soltanto a contestare l’affermazione della CIP secondo cui “gli assegni in quanto titoli astratti non valgono a superare la presunzione di inerenza”, senza tuttavia specificare quali fossero gli elementi probatori, dimostrativi dell’acquisto di beni e servizi non riconducibili all’attività d’impresa, che il Giudice di appello avrebbe omesso di considerare e che avrebbero invece consentito di pervenire con certezza ad una diversa decisione.
Con il quindicesimo motivo (“difetto” di motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.) i ricorrenti impugnano la sentenza di appello in quanto la CTR avrebbe erroneamente ritenuto raggiunta la prova presuntiva legale dei maggiori ricavi della società anche per gli importi in addebito (lit. 12.947.000) ed in accredito (lit. 25.636.584) rilevati sul conto corrente intestato a L. D. (sul quale era delegata ad operare la madre e socio accomandante V. G.) e sul libretto di deposito intestato alla minore L. S. (figlia di V. G.), senza considerare che dal modello UNICO 2000, relativo ai redditi 1999, presentato dal L. e prodotto in giudizio, risultava regolarmente dichiarato un reddito netto da lavoro subordinato pari a lit. 22.080.000 Con il sedicesimo motivo la medesima censura viene prospettata anche come vizio di “contraddittoria” motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c., in quanto la CTR avrebbe dichiarato di attribuire a maggior reddito d’impresa della società le somme movimentate sui conti personali dei soci, attesa la ristretta composizione sociale, ma avrebbe poi esteso la presunzione legale anche alle movimentazioni rilevate sui conti dei terzi.
Il sedicesimo motivo è palesemente infondato.
Premesso che si censura erroneamente per vizio di “contraddittorietà logica”, un – eventuale- vizio di “omessa od insufficiente” motivazione (si contesta infatti alla CTR di non avere supportato con adeguata motivazione la decisione di estendere la prova presuntiva anche ai conti dei terzi; ovvero di non aver tenuto in considerazione prove determinanti volte a negare la efficacia della prova presuntiva legale), è appena il caso di osservare che alcun vizio logico emerge dalla struttura motivazionale della sentenza impugnata, atteso che la adesione della CTR alla motivazione del primo giudice non contraddice affatto alla successiva affermazione dei Giudici di appello secondo cui la ristretta base sociale consente di riferire alla società “i dati bancari riconducibili ai due soci”, tenuto conto che la base sociale familiare è idonea a giustificare la riconducibilità alla attività societaria delle movimentazioni rilevate su qualsiasi conto che risulti di fatto nella disponibilità del socio o sul quale comunque il socio è legittimato a compiere operazioni di incasso e versamento, essendo pertanto ricompresi tra i dati bancari riferibili ai due soci anche quelli rilevati sui conti formalmente intestati a terzi.
Il quindicesimo motivo è invece fondato.
I ricorrenti, infatti, quanto alla delega rilasciata al socio accomandante V. G. ad operare sul conto bancario intestato al figlio L. D., avevano ritenuto di fornire la prova contraria alla presunzione legale di maggiori ricavi societari, producendo in giudizio il modello UNICO 2000 presentato dal L. dal quale risultavano redditi di lavoro dipendente per l’anno 1999 per oltre lit. 22.000.000, compatibili con le movementazioni rilevato sul conto (accreditamenti lit. 25.636.584; prelevamenti lit. 12.947.000).
Sul punto la CTR non ha argomentato limitandosi alla anapodittica conferma della determinazione dell’imponibile effettuata dal primo Giudice assumendo che i contribuenti non avevano fornito prove convincenti atte a dimostrare che le movimentazioni bancarie non siano riconducibili alla attività d’impresa, omettendo del tutto quindi di prendere in esame un elemento probatorio specifico che può assumere rilievo decisivo ai fini della giustificazione della estraneità di tali somme ai ricavi societari.
La motivazione è assolutamente carente incorrendo nel vizio denunciato e la sentenza di appello deve in conseguenza essere cassata in parte qua.
Il diciassettesimo e diciottesimo motivo (difetto di motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.) sono entrambi manifestamente inammissibili:
– il diciassettesimo motivo non individua quali siano le prove documentali decisive a sostegno delle allegazioni giustificative di alcune somme prelevate (asseritamente per la costituzione di una nuova società) ed accreditate (asseritamente dal coniuge separato) sul conto intestato al socio V. G. – il diciottesimo motivo risulta del tutto generico e meramente reiterativo in forma riassuntiva di tutte le precedenti censure formulate ai sensi dell’art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.
In conclusione il ricorso deve essere accolto limitatamente al quindicesimo motivo (infondati od inammissibili tutti gli altri motivi); la sentenza impugnata deve essere cassata in parte qua, con rinvio della causa ad altra sezione della Commissione tributaria della regione Lombardia, affinché provveda ad emendare il vizio logico riscontrato, liquidando anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
– accoglie il ricorso, limitatamente al quindicesimo motivo, cassa la sentenza impugnata in parte qua e rinvia la causa alla Commissione tributaria della regione Lombardia, in altra composizione, affinché provveda ad emendare il vizio logico riscontrato, liquidando anche le spese del giudizio di legittimità.
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