CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 3836 del 26 febbraio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – COOPERATIVA – SCIOGLIMENTO DEL RAPPORTO SOCIALE LIMITATAMENTE AL SOCIO – IMPUGNATIVA DEL PROVVEDIMENTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di appello di Napoli ha accolto il reclamo ex art. 1, comma 58, della legge n. 92/2012 proposto da R.M. e R.P. avverso la sentenza del locale Tribunale, che, all’esito della fase di opposizione, aveva respinto le domande volte ad ottenere la dichiarazione di illegittimità dei licenziamenti intimati dalla C. Società Cooperativa con lettera del 5 dicembre 2012 e la condanna della società al pagamento della indennità risarcitoria prevista dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970.
Le ricorrenti, socie lavoratrici, avevano agito in giudizio lamentando il mancato rispetto della procedura prevista dalla legge n. 223/1991 o, in subordine, dall’art. 7 della legge n. 604/1966, come modificato dalla legge 28.6.2012 n. 92.
Il Tribunale, all’esito della fase sommaria, con ordinanza del 4 luglio 2013, aveva dichiarato la inefficacia dei recessi, perché intimati senza il preventivo espletamento della procedura prevista per i licenziamenti collettivi, ma aveva ritenuto la inapplicabilità dell’art. 18 della legge n. 300/1970, in quanto le ricorrenti erano state escluse dalla cooperativa e solo nelle note difensive depositate il 28 giugno 2013 avevano posto in discussione la esistenza e la legittimità della delibera.
Ad avviso del giudice della fase sommaria la avvenuta esclusione comportava la applicabilità dell’art. 8 della legge n. 604/1966, sicché la cooperativa veniva condannata a riassumere le lavoratrici entro tre giorni dalla pronuncia o, in difetto, a corrispondere alle stesse cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita.
A seguito della opposizione proposta dalle sole ricorrenti, con sentenza del 14 maggio 2014, il Tribunale respingeva integralmente le domande, richiamando il disposto dell’art. 5 della legge n. 142/2001, come modificato dalla legge n. 30/2003, ed evidenziando che la esclusione delle socie lavoratrici aveva determinato l’automatica estinzione anche dei rapporti di lavoro subordinato. Aggiungeva il Tribunale che le ricorrenti, con il ricorso del 2 maggio 2013, pur dando atto della esclusione, avevano impugnato solo il licenziamento e non avevano in alcun modo censurato la delibera con la quale l’esclusione stessa era stata disposta.
Nell’accogliere il reclamo proposto dalle socie lavoratrici la Corte di Appello di Napoli ha osservato che si era formato giudicato interno sul capo della ordinanza con il quale era stata dichiarata la inefficacia del licenziamento collettivo. Ad avviso della Corte territoriale, infatti, nell’ipotesi di soccombenza parziale all’esito della fase sommaria, entrambe le parti soccombenti sono tenute a proporre opposizione nel termine perentorio stabilito dall’art. 1, comma 51, della legge n. 92/2012, e solo in tal caso il giudice, previa riunione delle opposizioni, può riesaminare integralmente la fattispecie.
La Corte accertava, inoltre, la inesistenza della delibera di esclusione, poiché nel verbale del consiglio di amministrazione del 30 novembre 2012 era stato solo dato atto della comunicazione del Presidente, il quale si era limitato ad una mera informativa, cui non aveva fatto seguito la manifestazione di volontà da parte dei componenti del consiglio. Nessun rilievo, pertanto, assumevano la successiva annotazione della esclusione nel libro dei soci e la comunicazione della stessa alle socie lavoratrici.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la C. Società Cooperativa sulla base di quattro motivi.
R.M. e R.P. hanno resistito con tempestivo controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1 – Con i primi due motivi di ricorso la C. Società Cooperativa denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, comma 3, 2, comma 1, e 5, comma 2, della legge n. 142/2001, in relazione all’art. 2909 c.c., nonché dell’art. 1, commi 49 e 51 della legge n. 92/2012. Sostiene la ricorrente che il giudizio di opposizione avverso la ordinanza emessa ai sensi dell’art. 1, comma 49, della legge n. 92/2012 non ha natura impugnatoria, ma costituisce una mera prosecuzione del giudizio di primo grado, con cognizione piena a mezzo di tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti. L’ordinanza, pertanto, non può acquisire l’autorità di giudicato ed i rapporti fra la prima e la seconda fase non possono essere disciplinati dalle norme sulle impugnazioni, erroneamente applicate dalla Corte territoriale. Aggiunge che il Tribunale di Napoli, all’esito della fase sommaria, aveva accertato l’avvenuta esclusione delle socie lavoratrici sicché la cooperativa, tenuto conto del disposto dell’art. 5 della legge n. 142/2001, non aveva alcun interesse a proporre opposizione, atteso l’effetto automatico che l’esclusione medesima determina sul rapporto di lavoro.
2 – I motivi, da trattarsi congiuntamente perché connessi, sono fondati, sia pure per ragioni parzialmente diverse da quelle indicate dalla società ricorrente.
2.1 – Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che il rito disciplinato dall’art. 1 della legge n. 92/2012 è caratterizzato dalla articolazione del giudizio di primo grado in due fasi: l’una a cognizione semplificata o sommaria, l’altra a cognizione piena. L’opposizione non è, quindi, una revisio prioris istantiae e non ha natura impugnatoria, in quanto, dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata, il procedimento si espande alla dimensione ordinaria della cognizione piena, con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti (Cass. S.U. 18.9.2014 n. 19674 e negli stessi termini Cass. 17.2.2015 n. 3136; Cass. 17.7.2015 n. 15066).
Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza 20.5.2015 n. 78, ha escluso che l’opposizione possa essere equiparata ad una impugnazione, evidenziando che l’oggetto della seconda fase del rito non è circoscritto alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, tanto che il giudizio di opposizione può anche avere profili soggettivi ed oggettivi diversi rispetto alla cognizione sommaria, attesa la ammissibilità della chiamata in causa di terzi e della formulazione di domande nuove, eventualmente proposte in via riconvenzionale, purché fondate sui medesimi fatti costitutivi.
Nella richiamata pronuncia il Giudice delle leggi ha significativamente osservato che la ordinanza pronunciata all’esito della fase sommaria, sebbene immediatamente esecutiva, è destinata ad essere in ogni caso assorbita dalla sentenza che definisce la fase di opposizione, ove il giudizio venga proseguito da una delle parti.
2.2 – Da detti principi discende che non è possibile ipotizzare la formazione del giudicato su alcune statuizioni e non su altre della ordinanza, atteso che quest’ultima è destinata ad acquisire il carattere della definitività nella sola ipotesi in cui l’opposizione non venga promossa.
Di conseguenza non può operare il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto lo stesso trova il suo fondamento nelle norme che disciplinano le impugnazioni, non applicabili alla fattispecie.
Ne discende che, qualora all’esito della fase sommaria la domanda di impugnazione del licenziamento venga accolta solo parzialmente, la instaurazione del giudizio di opposizione ad opera di una delle parti, consente all’altra di riproporre con la memoria difensiva la domanda o le difese non accolte, e ciò anche nella ipotesi in cui per la parte che si costituisce sia spirato il termine per proporre un autonomo atto di opposizione.
2.3 – Ha errato, quindi, la Corte territoriale nell’affermare che era divenuto intangibile il capo della ordinanza relativo alla ritenuta inefficacia del licenziamento collettivo, perché la cooperativa non aveva proposto un distinto ed autonomo atto di opposizione. La costituzione della C. per resistere alla iniziativa delle lavoratrici e la riproposizione della eccezione di decadenza dal diritto di impugnare il provvedimento di esclusione legittimava il giudice della opposizione a riesaminare tutte le questioni controverse, ivi compresa quella relativa ai rapporti fra esclusione e licenziamento.
3 – La problematica relativa agli effetti che l’esclusione produce sul rapporto di lavoro del socio lavoratore è affrontata dalla società ricorrente sia nel primo motivo di ricorso, con il quale viene denunciata la violazione degli artt. 1, 2 e 5 della legge 142/2001, sia nel terzo motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., in relazione all’art. 2533 c.c.”. Rileva la cooperativa che il legislatore, nel modificare, con l’art. 9 della legge n. 30/2003, il comma 2 dell’art. 5 della legge n. 142/2001, ha definitivamente sancito la centralità del rapporto sociale e la prevalenza dello stesso rispetto a quello di lavoro. Richiama giurisprudenza di questa Corte per evidenziare che la esclusione determina, con effetto automatico, l’estinzione del rapporto di lavoro, rendendo di conseguenza superflua ogni valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento intimato. Aggiunge che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto di potere superare l’eccezione di decadenza, formulata ai sensi dell’art. 2533 c.c., posto che la esclusione era stata collegialmente deliberata nel corso della riunione del Consiglio di amministrazione del 30 novembre 2012 ed era stata anche comunicata alle socie lavoratrici con la missiva del 5 dicembre 2012.
I motivi sono fondati.
3.1 – L’art. 1 della legge 3 aprile 2001 n. 142, nel testo modificato dall’art. 9 della legge n. 30/2003, prevede che nelle cooperative “nelle quali il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio”, quest’ultimo, al momento della adesione o successivamente alla instaurazione del rapporto associativo, stabilisce “un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma…con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali”.
Qualora detto rapporto ulteriore sia di natura subordinata, a norma dell’art. 2, al socio lavoratore “si applica la legge 20 maggio 1970 n. 300, con esclusione dell’art. 18 ogni qual volta venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”.
II legislatore, poi, sempre con la richiamata legge 14.2.2003 n. 30, ha modificato il testo originario dell’art. 5, prevedendo, al secondo comma, che “il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527 del codice civile”.
La norma va letta in combinato disposto con l’art. 2533 c.c. che, oltre a prevedere le ipotesi di esclusione del socio, stabilisce che “contro la deliberazione di esclusione il socio può proporre opposizione al tribunale, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione” ed aggiunge che “qualora l’atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti”.
3.2 – Analizzando il complesso delle disposizioni normative sopra richiamate questa Corte ha osservato (Cass. 5.7.2011 n. 14741) che il legislatore ha qualificato il lavoro cooperativo come un rapporto caratterizzato dal concorso di una molteplicità di cause collegate ed ha, quindi, superato la cosiddetta teoria monista, secondo la quale la prestazione della attività lavorativa da parte del socio altro non era se non lo strumento attraverso il quale venivano perseguiti l’oggetto sociale e la soddisfazione dello scopo mutualistico.
Peraltro il legislatore, con la modifica apportata agli artt. 1 e 5 della legge n. 142/2001, pur ribadendo la coesistenza, nella cooperazione di lavoro, di una pluralità di rapporti contrattuali e la conseguente irriducibilità del lavoro cooperativo ad una dimensione puramente societaria, ha voluto evidenziare che i rapporti medesimi sono legati da un nesso genetico e funzionale di interdipendenza, in ragione del quale il contratto di società costituisce un presupposto ineliminabile per la valida sussistenza del rapporto di lavoro subordinato del socio lavoratore.
3. 3 – Questa Corte ha perciò affermato che sussiste un rapporto di consequenzialità fra il recesso o l’esclusione del socio e l’estinzione del rapporto di lavoro, tale da escludere anche la necessità di un distinto atto di licenziamento (Cass. 12.2.2015 n. 2802 che riprende la motivazione di Cass. n. 14741/2011 cit.). Peraltro “incidendo la delibera di esclusione pure sul concorrente rapporto di lavoro, il giudice, nello scrutinare la sussistenza dei relativi presupposti di legittimità, dovrà, comunque, valutare, attraverso un adeguato bilanciamento degli interessi, tanto l’interesse sociale ad un corretto svolgimento del rapporto associativo quanto la tutela e la promozione del lavoro in cui essenzialmente si rispecchia la “funzione sociale” di questa forma di mutualità. Il che implica, fra l’altro, che, rimosso il provvedimento di esclusione, il socio avrà diritto alla ricostituzione del rapporto associativo e del concorrente rapporto di lavoro..” ( Cass. n. 14741/2011 e negli stessi termini Cass. n. 14143/2012; Cass. 11548/2015).
3.4 – Da detti principi discende che, ove la esclusione venga disposta, il socio che contesti l’atto risolutivo dovrà necessariamente opporsi alla delibera, nelle forme e nei termini previsti dall’art. 2533 c.c., e ciò anche allorquando la società abbia intimato il licenziamento, giacché il difetto di opposizione rende definitivo lo scioglimento del rapporto sociale e produce gli effetti previsti dall’art. 5, comma 2, della legge n. 142/2001, rendendo inammissibile per difetto di interesse l’azione proposta per contestare la legittimità del solo licenziamento.
La giurisprudenza di questa Corte ha anche chiarito che, ove la comunicazione della esclusione sia stata fatta al socio personalmente, lo spirare del termine di decadenza per la opposizione esclude che “eventuali vizi del provvedimento possano essere successivamente dedotti, sia pure in via di eccezione, dalla parte interessata o rilevati dal giudice” ( Cass. 15.9.2004 n. 18556).
3.5 Orbene nel caso di specie è incontestato fra le parti, e risulta anche dalla motivazione della sentenza impugnata, che con il ricorso del 2 maggio 2013 le attuali controricorrenti avevano impugnato solo il licenziamento, intimato dalla cooperativa con missiva del 5 dicembre 2012, sebbene con la stessa lettera la società avesse anche comunicato la esclusione, richiamando, inoltre, la comunicazione del 14 novembre 2012, con la quale era stato anticipato che il mancato rinnovo dell’appalto da parte di T. s.p.a. avrebbe determinato la cessazione del rapporto di lavoro e di quello associativo.
La Corte territoriale ha ritenuto di potere superare la decadenza, accertata, invece, dal giudice della opposizione, sul rilievo che la delibera di esclusione sarebbe stata inesistente, in quanto in occasione della riunione del consiglio di amministrazione del 30.11.2012, convocata anche per deliberare la esclusione dei soci, sarebbe mancata qualsiasi manifestazione di volontà da parte del consiglio, essendo stata verbalizzata solo la comunicazione del Presidente in merito ai provvedimenti da adottare ai sensi dell’art. 12 lettera g dello statuto. Ha ritenuto, pertanto, irrilevanti sia l’avvenuta annotazione del provvedimento sul libro dei soci, sia la comunicazione effettuata alle socie escluse.
3.6- Dette conclusioni non sono condivisibili.
Questa Corte ha già affermato che, sebbene la fattispecie tipica del procedimento di opposizione all’esclusione tenda all’accertamento della sussistenza o meno dei presupposti che legittimano la esclusione medesima, tuttavia “l’opposizione è l’unico mezzo di tutela contro l’illegittimità della delibera tanto per la contestazione dei presupposti che per l’irragionevolezza del procedimento, senza doversi ricercare l’alternativa con i normali mezzi di impugnazione delle delibere assembleari” (Cass. 26.3.1996 n. 2690 e negli stessi termini Cass. 15.9.2004 n. 18556).
Ciò comporta che, una volta che il socio lavoratore abbia avuto, come nella fattispecie, formale comunicazione della esclusione, il termine di decadenza opera anche in relazione alla denuncia dei vizi che attengano, non alla sussistenza dei presupposti sostanziali della esclusione, bensì alla formazione della volontà dell’organo societario legittimato ad adottare il provvedimento.
3.7 – Si deve, però, aggiungere che, qualora il vizio sia relativo alla forma della deliberazione, fermo restando che lo stesso deve essere fatto valere con il rimedio disciplinato dall’art. 2533 c.c., e non con le normali azioni di nullità e annullabilità delle delibere, non possono non operare, quanto alla configurabilità o meno del profilo di illegittimità, i principi generali in tema di validità delle delibere societarie, e, quindi, l’art. 2377 c. c., applicabile alle delibere del consiglio di amministrazione in forza del richiamo contenuto nell’art. 2388 c.c. Entrambe dette disposizioni, dettate per le società per azioni, disciplinano anche il funzionamento degli organi collegiali delle società cooperative ex art. 2519 c.c.. L’art. 2377 c.c. al comma 5, n. 3, esclude che la deliberazione possa essere impugnata “per l’incompletezza o l’inesattezza del verbale, salvo che impediscano l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione”. L’art. 2379 c.c., invece, prevede la nullità della deliberazione nei casi di totale mancanza del verbale.
La disciplina dettata dal d.lgs n. 6/2003, come modificato dal d. lgs n. 37/2004, esclude che la mancata o l’incompleta verbalizzazione possa determinare inesistenza della deliberazione, poiché la mancanza totale del verbale comporta nullità della delibera mentre la incompletezza dello stesso è priva di effetti, se consente comunque di ricostruire la volontà dell’organo collegiale, e, solo qualora ciò non si verifichi, comporta l’annullabilità della deliberazione.
Ha errato, pertanto, la Corte territoriale nell’affermare che la delibera di esclusione doveva ritenersi inesistente, posto che, anche nella ipotesi più grave della totale mancanza del verbale, l’assenza del requisito formale determina nullità e non inesistenza della deliberazione, da far valere, per quanto sopra si è detto, nel termine di decadenza stabilito dall’art. 2533 c.c. ove la delibera viziata abbia ad oggetto la esclusione del socio.
4- In conclusione sono fondate entrambe le doglianze poste a fondamento del ricorso per cassazione, poiché correttamente il giudice della opposizione ha pronunciato sull’intera domanda (e non sulla sola questione della tutela applicabile), ritenendola infondata perchè la mancata impugnazione della esclusione aveva determinato l’automatico effetto dello scioglimento del rapporto di lavoro, rendendo irrilevante la questione relativa alla applicabilità della procedura prevista dalla legge n. 223/1991.
5- La sentenza impugnata va pertanto cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto delle domande.
6- La particolarità e la novità delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione fra le parti delle spese di tutti i gradi del giudizio.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e giudicando nel merito rigetta le domande.
Compensa integralmente fra le parti le spese di tutti i gradi del giudizio.
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