CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 4506 del 8 marzo 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – LAVORO – LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA – PROVVEDIMENTO DISCRIMINATORIO – PROVA DELL’INTENTO RITORSIVO DEL RECESSO
Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 700 c.p.c. G.F. adiva il Tribunale di Castrovillari chiedendo accertarsi la illegittimità del recesso per giusta causa intimato in data 23/4/13 dalla C. Sicurezza società cooperativa a.r.l., in ragione del carattere discriminatorio o ritorsivo del provvedimento espulsivo irrogategli. Si costituiva la società che resisteva alla domanda cautelare deducendone l’inammissibilità.
Il giudice adito, ritenuta l’insussistenza del periculum in mora, disponeva il mutamento del rito da cautelare in quello di cui all’art. 1 commi 47-48 L. 92 del 2012. All’esito della fase sommaria del giudizio, accoglieva il ricorso del G. disponendone la reintegra nel posto di lavoro ai sensi del novellato art. 18 L. 300/70.
Espletata la fase di opposizione avverso detto provvedimento, il Tribunale respingeva la domanda del lavoratore sul rilievo della irritualità del mutamento di rito disposto in fase sommaria.
Sul reclamo interposto dal lavoratore, la Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza 17.7.14 riformava la pronuncia del giudice di prima istanza, annullava il licenziamento e condannava la società reclamata a riassumere il lavoratore o a risarcirgli il danno nella misura di cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre accessori di legge.
A base del decisum la Corte del merito poneva, innanzitutto, il rilievo secondo il quale il procedimento cautelare previsto dall’art. 700 c.p.c. non era stato abrogato dal c.d. rito Fornero di cui all’art. 1, commi 48 e segg. della legge 28 giugno 2012 n.92, per l’accertamento della legittimità del recesso datoriale, attesa la diversa natura, l’una cautelare e l’altra sommaria, dei procedimenti. Rimarcava altresì, in tal senso, l’astratta ammissibilità delle esigenze cautelari che richiedevano l’emissione di provvedimenti innominati ed inaudita altera parte in funzione della tutela di beni non ristorabili per equivalente, certamente lesi da un provvedimento espulsivo.
Argomentava peraltro, che da tale ammissibilità non scaturiva l’irritualità del provvedimento di mutamento di rito, non configurandosi alcuna violazione del principio della domanda né della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c. Deduceva, in particolare, che l’azione dispiegata era del tutto conforme ai principi della strumentalità della disciplina processuale rispetto all’accertamento del diritto sostanziale, alla celerità del rito ed al rispetto del contraddittorio, giacche la parte resistente aveva potuto pienamente esplicare il proprio diritto di difesa avverso una domanda ab origine corredata da tutti gli elementi fattuali essenziali ai fini del decidere.
Nel merito, escluso il carattere ritorsivo del licenziamento – non avendo il lavoratore fornito prova che realizzasse l’unico motivo determinante per l’erogazione del provvedimento espulsivo – e ritenuto comprovato l’inadempimento reiterato del lavoratore agli obblighi coessenziali all’espletamento delle mansioni ascrittegli (per la mancata compilazione e consegna degli ordini di servizio), la Corte distrettuale reputava comunque illegittimo il provvedimento espulsivo, per difetto di proporzionalità, atteso che i fatti contestati non rientravano in alcuna delle ipotesi per le quali il c.c.n.l. di settore prevedeva l’irrogazione della massima sanzione disciplinare.
Applicava, quindi, la tutela obbligatoria ex art. 8 L. 604/66, essendo dimostrato per tabulas che la società aveva meno di quindici dipendenti.
Avverso tale decisione il lavoratore ricorre in cassazione sulla base di due motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. Resiste con controricorso la parte intimata che a propria volta spiega ricorso incidentale sostenuto da tre motivi. Il G. ha infine notificato controricorso avverso il ricorso incidentale.
Motivi della decisione
1. In via preliminare, devono riunirsi i ricorsi siccome proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
Ragioni di priorità logico-giuridica inducono, quindi, ad esaminare la questione pregiudiziale attinente al mutamento del procedimento ex art. 700 c.p.c. nel cd. rito Fornero sollevata dalla società intimata (art.276 c.p.c.).
1.2. Con il primo motivo del ricorso incidentale, è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., degli artt. 669 bis, sexties e septies c.p.c., dell’art. 700 c.p.c. e dell’art. 1 comma 48 L. 92/12 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. nonché nullità del procedimento ex art. 369 comma primo n. 4 c.p.c.
Si deduce, in sintesi, che una volta specificata la tipologia della misura cautelare richiesta, il ricorrente traccia un limite preciso per il giudicante al quale non è consentito concedere un tipo di cautela diverso da quello richiesto, né modificare il rito prescelto.
1.3. Il motivo è privo di fondamento.
Ed invero, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, l’inesattezza del rito non determina di per sé l’inesistenza o la nullità della sentenza, ma assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi, non ricorrente nel caso di specie, in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. 18 luglio 2008 n.19942, Cass. S.U. 10 febbraio 2009 n:3758, Cass.22 ottobre 2014 n.22325 e Cass. 27 gennaio 2015 n. 1448). Perché essa assuma rilevanza invalidante occorre infatti che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Ciò perché l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma soltanto nella sua idoneità ad apprezzabilmente incidere sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali protette della parte.
Si tratta di ragioni che la Corte distrettuale ha mostrato di conoscere e condividere laddove ha rimarcato la non vulnerabilità, in concreto, dei principi della domanda e della corrispondenza fra il chiesto e pronunciato, in coerenza con la garanzia del contraddittorio, la strumentalità della disciplina processuale rispetto all’accertamento del diritto sostanziale, e la tutela dell’obiettivo cardine della riforma, integrato dalla celerità del rito.
1.4. La società, peraltro, non mostra di farsi carico di questo orientamento né adeguatamente censura la statuizione della Corte di merito che detto orientamento ha recepito, posto che non deduce alcuno specifico e concreto pregiudizio alla sua posizione processuale causalmente ricollegabile al mutamento del rito, sostenendo la tesi della immutabilità del rito che non può trovare ingresso in questa sede, in quanto basata su una concezione processo volta a ricollegare il danno processuale non già ad un reale pregiudizio della parte, ma alla mera irregolarità costituita dalla applicazione ex officio, di un rito diverso da quello esperito dal ricorrente, del tutto avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei modelli procedurali.
In definitiva detto motivo, in quanto infondato, va respinto.
2. Con la prima censura del ricorso principale, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 15 e 18 della legge n. 300 del 1970 nonché dell’art. 28 d.lgs. n.150 del 2011 ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c., il G. critica la sentenza impugnata per non aver ritenuto dimostrato il carattere determinante ed unico dell’intento ritorsivo sotteso al provvedimento espulsivo irrogato, in violazione delle regole che disciplinano la ripartizione dell’onere probatorio in subiecta materia. All’uopo richiama i dettami di cui al citato d.lgs. n. 150 del 2011 che pone a carico del convenuto l’onere di dimostrare l’insussistenza del comportamento discriminatorio, quando il ricorrente abbia fornito elementi di fatto anche di ordine statistico, dai quali presumere detti comportamenti, assumendo siano stati ingiustamente disattesi dalla Corte distrettuale.
2.1. Il motivo è privo di pregio.
Esso presenta innanzitutto profili di inammissibilità giacche, del richiamo alla applicazione della legge n.150/2011, non vi è traccia in sede di decisione.
Al riguardo questa Corte ha affermato il principio, che va qui ribadito, alla cui stregua qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità dì tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (vedi ex alils, Cass. 18 ottobre 2013 n. 23675).
Ciò avrebbe richiesto altresì, in coerenza con i dettami di cui all’art. 369 n.4 c.p.c., il deposito del ricorso ex art. 700 c.p.c. ed anche di tutti i documenti attestanti che nel corso di quel giudizio erano stati tempestivamente e ritualmente allegati e dimostrati gli elementi probatori posti a supporto di una domanda e di un petitum diverso da quello esaminato dal giudice di merito, e modulato sulla scorta dell’art. 28 c. 4 d. lgs. n. 150/2011 in base al quale “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può desumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione”.
Siffatto onere non risulta adempiuto, ridondando tale carenza del ricorso in termini di inammissibilità dello stesso, quanto al prospettato error in judicando.
2.2. Con riferimento alla questione della distribuzione dell’onere probatorio in ordine al motivo ritorsivo del licenziamento sollevata con detta prima censura, va rimarcato come la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria abbiano sostenuto che si tratta di un elemento costitutivo della domanda diretta a far valere la nullità del licenziamento, il cui onere probatorio cede a carico del lavoratore ex art. 2697 c.c.
La statuizione della Corte di merito, laddove ha ritenuto non fornita la prova dell’intento ritorsivo sotteso al recesso intimato, stante il reiterato inadempimento del lavoratore a taluni obblighi connessi alle mansioni ascrittegli, è conforme a diritto, in quanto coerente con l’orientamento espresso dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte secondo cui, anche qualora sussistano i presupposti per la declaratoria della illegittimità del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo oggettivo, è necessario che il motivo pretesamene illecito (cioè contrario ai casi espressamente previsti dalla legge, pur suscettibili di interpretazione estensiva, all’ordine pubblico e al buon costume), che sia dettato da intento ritorsivo – siccome realizza l’ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento illegittimo del lavoratore colpito – sia stato l’unico determinante ed il lavoratore ne abbia fornito prova, anche presuntiva (vedi ex plurimis, 27 febbraio 2015 n. 3986 ed, in motivazione, Cass. 26 marzo 2012 n.4797). Gli enunciati principi valgono, quindi, anche all’esito della radicale riscrittura delle tutele a fronte del licenziamento ingiustificato o altrimenti illegittimo, in seguito all’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, dal momento che la disciplina del licenziamento per motivi di discriminazione non trova alcuna sostanziale modificazione nella legge citata.
2.3. Non va, peraltro, sottaciuto, che la verifica che il recesso sia stato motivato esclusivamente da un intento ritorsivo o di rappresaglia o “vendicativo” si traduce in una valutazione attinente al merito della decisione e che quindi non può essere dedotta in sede di giudizio di legittimità, salvo vizi di motivazione (vedi Cass. 18 marzo 2011 n.6282), che nella specie non risultano formulate sotto tale profilo, essendo calibrate sulla erronea valutazione degli elementi probatori che concorrono a definire la causa ritorsiva del licenziamento, in quanto contraria a norme di legge.
3. Con il secondo mezzo di impugnazione, formulato in via di subordine, si denuncia omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, giacché idonei a determinare l’intento ritorsivo come unico e determinante il licenziamento intimato, ex art. 360 coma primo n. 5 c.p.c. nella versione di testo applicabile ratione temporis.
Si lamenta che la Corte distrettuale abbia trascurato di considerare numerosi elementi emersi in sede istruttoria, quali le recriminazioni del lavoratore in ordine alla eccessiva durata dei turni lavorativi e la contiguità temporale fra la manifestazione delle pretese di tutela da parte ricorrente e l’intimazione di licenziamento, da ritenersi decisivi ai fini della definizione del giudizio di accertamento dell’intento datoriale ritorsivo.
3.1. Il motivo è privo di pregio.
La censura, per come svolta, rivela profili di inammissibilità, siccome non riconducibile al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo vigente a seguito della sua riformulazione ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, ed applicabile ratione temporis nel presente giudizio; ciò in quanto, secondo l’interpretazione resane dalle Sezioni Unite di questa Corte, da un lato è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, cosicché tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione; e, dall’altro, che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per ,se, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr, Cass., SU, nn. 8053/2014; 8054/2014; 9032/2014).
3.2. Va, invece, rimarcato che la Corte distrettuale con incedere argomentativo esente da rilievi ai sensi della disposizione richiamata, ha escluso che il ricorrente abbia fornito la prova che l’intento ritorsivo fosse stato l’unico determinante per il licenziamento, non tralasciando di considerare i dati istruttori che attestavano il comportamento rivendicativo posto in essere dal G., ma rimarcando che risultavano altresì comprovate reiterate violazioni degli obblighi connessi alle mansioni di guardia giurata, tali da escludere il presupposto per la applicabilità della tutela reintegratoria piena connessa al provvedimento espulsivo intimatogli.
4. Dal canto suo la società con il secondo motivo del ricorso incidentale, in via di subordine, denunzia violazione della legge n. 92/12 art. 1 comma 48, nonché degli artt. 414-421 cpc, ex art. 360 c. 1 n. 3 ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. per l’omessa declaratoria di nullità del ricorso introduttivo di primo grado in ragione della assoluta genericità dei fatti posti a fondamento della richiesta tutela reale.
4.1. Detto motivo è inammissibile.
Il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. concerne, come già si è fatto cenno, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). La parte ricorrente dovrà, quindi, indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma , n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.
4.2. Ciò premesso, non può sottacersi che il tenore della censura non appare rispettoso dei dettami sanciti dal novellato art. 360 n.5 nella esegesi resa dalle sezioni unite di questa Corte, essendosi limitata la società a denunciare l’omessa declaratoria di nullità del ricorso introduttivo di primo grado da parte della Corte di merito.
Ha mancato la ricorrente, di riportare il dato testuale dell’atto da cui era desumibile la genericità dei fatti posti a fondamento della richiesta di tutela reale, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso. In tal guisa, rimane intangibile l’accertamento contenuto nella gravata decisione, ogni doglianza formulata al riguardo atteggiandosi come del tutto eccentrica rispetto al novellato disposto di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c.
5. Con la terza critica la società, allega violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. 101 e 104 c.c.n.l. di settore ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5. Lamenta che la Corte distrettuale non abbia valutato che la reiterazione del comportamento assunto dal lavoratore, ne definiva il profilo alla stregua di insubordinazione specificamente sanzionata dal c.c.n.l. di settore con provvedimento espulsivo.
5.1. Tale motivo ultimo è inammissibile.
Con riferimento al dedotto vizio di omessa motivazione in ordine alla reiterata violazione degli obblighi coessenziali alle mansioni ascritte al dipendente, valgono le considerazioni già espresse in relazione al motivo che precede, ricadendosi nella nuova formulazione dell’art. 360 n.5.
5.2. Quanto alla dedotta violazione delle disposizioni di cui al contratto collettivo di settore, va richiamato l’orientamento costante di questa Corte (vedi ex aliis, Cass. n. 15495 2 luglio 2009) secondo cui “L’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda – imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., nella nuova formulazione di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 – non può dirsi soddisfatto con la trascrizione nel ricorso delle sole disposizioni della cui violazione il ricorrente si duole attraverso le censure alla sentenza impugnata, dovendosi ritenere che la produzione parziale di un documento sia non solamente incompatibile con i principi generali dell’ordinamento e con i criteri di fondo dell’intervento legislativo di cui al citato d.lgs. n. 40 del 2006, intesi a potenziare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, ma contrasti con i canoni di ermeneutica contrattuale dettati dagli artt. 1362 cod. civ. e seguenti e, in ispecie, con la regola prevista dall’art.1363 cod. civ., atteso che la mancanza del testo integrale del contratto collettivo non consente di escludere che in altre parti dello stesso vi siano disposizioni indirettamente rilevanti per l’interpretazione esaustiva della questione che interessa.
5.3. Nella specie, le disposizioni del c.c.n.l. di settore non risultano trascritte nel loro contenuto, né parte ricorrente indica specificamente in quale parte del fascicolo il contratto integrale sarebbe rinvenibile, essendosi limitata ad indicare in calce al ricorso, la •produzione del contratto collettivo di vigilanza tout court.
6. In definitiva, alla stregua delle esposte considerazioni anche il ricorso incidentale deve essere respinto.
Infine, la situazione di reciproca soccombenza, giustifica l’integrale compensazione fra le parti delle spese inerenti al presente giudizio.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa fra le Parti le spese del presente giudizio.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ed il ricorso incidentale a norma del comma l bis dello stesso art. 13.
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