CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 4606 del 9 marzo 2016
TRIBUTI – IVA – DETRAZIONE – SPESE RELATIVE AI LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE DI APPARTAMENTI DESTINATI ALLO SVOLGIMENTO DELL’ATTIVITA’ TURISTICO-RICETTIVA DI CASE VACANZE – LEGITTIMA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Commissione della regione Toscana con sentenza 24.3.2010 n. 24, in totale riforma della sentenza di prime cure, ed in accoglimento dell’appello principale proposto dall’Ufficio di Firenze della Agenzia delle Entrate, dichiarava legittimo l’avviso di accertamento notificato ad Agricola B. s.p.a. avente ad oggetto il recupero a tassazione per l’anno 2003 della indebita detrazione IVA versata in rivalsa sui corrispettivi relativi ai lavori di ristrutturazione di appartamenti destinati allo svolgimento dell’attività turistico-ricettiva di case vacanze, mentre annullava il medesimo avviso, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla società, ritenendo illegittimo il recupero ad imponibile IRPEG ed IRAP dei costi relativi ai predetti lavori che erano stati portati in deduzione dalla società.
Quanto all’IVA, la CTR rilevava che la norma di cui all’art. 19 bis. 1, comma 1, lett. i), Dpr n. 633/72 che escludeva la detrazione d’imposta per i lavori di ristrutturazione degli immobili a destinazione abitativa, ad eccezione del caso in cui l’oggetto principale della attività d’impresa consistesse nella costruzione o nella rivendita di detti immobili, era da considerare di stretta interpretazione e dunque la deroga non era applicabile alle aziende agricole od agrituristiche. Quanto alle imposte dirette, il Giudice di appello riconosceva che i costi di ristrutturazione degli alloggi abitativi dovevano ritenersi certamente strumentali all’esercizio della attività d’impresa e quindi deducibili dal reddito d’impresa.
Avverso la sentenza di appello ha ritualmente proposto ricorso principale per cassazione la società, che ha dedotto con tre mezzi vizi di nullità processuale, vizi logici, ed errori di giudizio, nonché ha proposto ricorso incidentale, unitamente al controricorso, l’Agenzia delle Entrate che ha dedotto quattro motivi concernenti vizi logici e violazioni di norme di diritto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo è infondato.
Sostiene la società ricorrente che la CTR avrebbe omesso di pronunciare, in violazione dell’art. 112 c.p.c., sulla questione prospettata fin dal primo grado, secondo cui la “destinazione abitativa” cui fa riferimento la norma che dispone l’indetraibilità IVA di cui all’art. 19 bis.1, comma 1, lett. i) Dpr n. 633/72 (introdotto dall’art. 3, comma 1, Dlgs 2.9.1997 n. 313 in attuazione della delega prevista dall’art. 3, comma 66, legge 23.12.1996 n. 662), non può intendersi riferita alla mera classificazione catastale (nella specie gli immobili ristrutturati erano di categoria A3), ma deve interpretarsi in funzione dell’impiego per uso personale -cioè non commerciale- dell’immobile a destinazione abitativa acquistato o ristrutturato.
Diversamente da quanto allegato dalla società, la CTR non si è limitata ad escludere nella società la sussistenza dell’elemento soggettivo idoneo a beneficiare delle! deroga alla indetraibilità IVA (imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata, la costruzione o la rivendita dei fabbricati a destinazione abitativa), ma -se pure sinteticamente- ha espressamente rifiutato ogni diversa interpretazione della norma fornita dalla ricorrente, rilevando: da un lato, che una detraibilità estesa a qualsiasi impiego commerciale del bene avrebbe comportato una applicazione analogica della norma di stretta interpretazione non consentita dall’art. 14 disp. prel. c.c.; dall’altro che la conformità dell’attività agrituristica svolta dalla società alla legge n. 42/2000 della regione Toscana, non sottraeva la contribuente al regime fiscale di indetraibilità dell’IVA.
Pertanto la censura di nullità processuale ex art. 360 co 1 n. 4 c.p.c., rivolta alla sentenza impugnata, per omessa pronuncia, deve ritenersi del tutto infondata.
Con il secondo e terzo motivo la società ricorrente censura la sentenza di appello per vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c., nonché per vizio di violazione o falsa applicazione dell’art. 19 bis.1, comma 1, lett. i) Dpr n. 633/72 , in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c., criticando i Giudici di appello in punto di errata ed insufficientemente motivata interpretazione della norma che prescrive la indetraibilità IVA, in quanto l’affermazione della CTR secondo cui il significato della norma sarebbe univoco nel porre la equivalenza “destinazione abitativa”-indetraibilità, risulterebbe in contrasto, sia con la legge delega che autorizzava il Governo a disciplinare i casi di indetraibilità dell’IVA in relazione ad acquisti di beni e servizi non destinati alle finalità della impresa, sia con il principio costituzionale di eguaglianza riferito al diritto alla detrazione dei soggetti passivi IVA, sia con la normativa comunitaria (art. 17 direttiva 77/388/CEE del Consiglio in data 17.5.1977) che non consente agli Stati membri di introdurre limitazioni all’esercizio della detrazione d’imposta se non per contrastare le frodi ed in ogni caso previa autorizzazione dell’autorità comunitaria e per periodi di tempo limitati.
Inammissibile il secondo motivo (art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.) in quanto non viene dedotto un errore nella rilevazione della fattispecie concreta posta all’esame del Giudice di merito, ma una errata attività di giudizio nella interpretazione del contenuto prescrittivo della norma applicata in conseguenza fuori dei casi in essa previsti, deve invece ritenersi fondato il terzo motivo (art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.).
La questione è stata sottoposta, nei medesimi termini, all’esame di questa Corte che si è pronunciata con la sentenza V sezione in data 14.2.2014 n. 3454 alle cui argomentazioni, che hanno trovato conferma nel successivo arresto di cui alla sentenza V sezione in data 29.4.2015 n. 8628 e che vengono di seguito richiamate, il Collegio aderisce.
Nel precedente n. 3454/2014 il riconoscimento del diritto a detrazione IVA della impresa esercente attività agrituristica veniva ad essere fondato sulle seguenti ragioni: «… Occorre premettere che l’esercizio della attività agrituristica ha ricevuto un primo riconoscimento normativo con la legge 5 dicembre 1985, n. 730 (Disciplina dell’agriturismo) che all’art. 2 definiva tali “esclusivamente le attività di ricezione ed ospitalità esercitate dagli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile, singoli od associati, e da loro familiari di cui all’articolo 230-bis del codice civile, attraverso l’utilizzazione della propria azienda, in rapporto di connessione e complementarità rispetto alle attività di coltivazione del fondo, silvi-coltura, allevamento del bestiame, che devono comunque rimanere principali, stabilendo che “Rientrano fra tali attività: a) dare stagionalmente ospitalità, anche in spazi aperti destinati alla sosta di campeggiatori;..”(art. 2 co 3 lett. a), ed inoltre che potevano “essere utilizzati per attività agrituristiche i locali siti nell’abitazione dell’imprenditore agricolo ubicata nel fondo, nonché gli edifici o parte di essi esistenti nel fondo e non più necessari alla conduzione dello stesso” (art. 3).
Successivamente l’attività di agriturismo è stata considerata dal Dlgs 18.5.2001 n. 228 -emanato in attuazione della delega “per la modernizzazione nei settori dell’agricoltura, delle foreste, della pesca e dell’acquacoltura” disposta con l’art. 7 della legge 5.3.2001 n. 57-, che all’art. 1 comma 1, ha sostituito l’art. 2135 c.c., includendo espressamente tra le “attività connesse” a quelle di coltivazione del fondo, selvicoltura ed allevamento di animali (attività agricole in senso stretto) anche le attività, esercitate dall’imprenditore agricolo, dirette ” alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse della azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata…ivi comprese le attività di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”, ed ha previsto, inoltre, all’art. 3 comma 1, che la nozione di “attività agrituristica” doveva essere riferita alla “organizzazione di attività ricreative, culturali e didattiche, di pratica sportiva, escursionistiche e di ippoturismo finalizzate ad una migliore fruizione e conoscenza del territorio, nonché la degustazione dei prodotti aziendali, ivi inclusa la mescita del vino, ai sensi della legge 27 luglio 1999, n. 268”.
In seguito l’attività agrituristica ha ricevuto una nuova puntuale disciplina con la legge 20 febbraio 2006, n. 96 (che ha abrogato e sostituito la precedente legge n. 730/1985): l’art. 2, comma 1, della legge, individua il contenuto tipico della attività agrituristica nelle “attività di ricezione e ospitalità esercitate dagli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile, anche nella forma di società di capitali o di persone, oppure associati fra loro, attraverso l’utilizzazione della propria azienda in rapporto di connessione con le attività di coltivazione del fondo, di silvicoltura e di allevamento di animali”, precisando al comma 2 che “Rientrano fra le attività agrituristiche: a) dare ospitalità in alloggi o in spazi aperti destinati alla sosta di campeggiatori; l’art. 3 della legge, venendo a considerare le modalità organizzative di tale servizio, prevede che “possono essere utilizzati per attività agrituristiche gli edifici o parte di essi già esistenti sul fondo” (comma 1), precisando opportunamente che “i locali utilizzati ad uso agrituristico sono assimilabili ad ogni effetto alle abitazioni rurali” (comma 3).
Il settore agricolo è stato interessato anche dalla riforma del catasto rurale.
Il Decreto del Presidente della Repubblica del 23 marzo 1998 n. 139 (Regolamento recante norme per la revisione dei criteri di accatastamento dei fabbricati rurali, a norma dell’articolo 3, comma 156, della legge 23 dicembre 1996, n. 662) ha previsto che :
– “Le costruzioni rurali costituenti unità immobiliari destinate ad abitazione e loro pertinenze vengono censite autonomamente mediante l’attribuzione di classamento, sulla base dei quadri di qualificazione vigenti in ciascuna zona censuaria” (art. 1 comma 4)
– “Le costruzioni strumentali all’esercizio dell’attività’ agricola diverse dalle abitazioni, comprese quelle destinate ad attività agrituristiche, vengono censite nella categoria speciale “D/10 – fabbricati per funzioni produttive connesse alle attività agricole”, nel caso in cui le caratteristiche di destinazione e tipologiche siano tali da non consentire, senza radicali trasformazioni, una destinazione diversa da quella per la quale furono originariamente costruite” (art. 1 comma 5).
Il medesimo decreto presidenziale, è intervenuto inoltre, con l’art. 2, in ambito fiscale, sostituendo l’art. 9, comma 3, del DL 30.12.1993 n. 557 conv. in legge 26.2.1994 n. 133 e prevedendo una serie di requisiti soggettivi ed oggettivi “ai fini del riconoscimento della ruralità degli immobili agli effetti fiscali per i fabbricati o porzioni di fabbricati destinati ad edilizia abitativa posseduti dall’imprenditore agricolo o dai soggetti impiegati nelle attività agricole o connesse, disciplinando altresì le “costruzioni strumentali all’attività agricola” e stabilendo, ai fini fiscali, che “deve riconoscersi carattere rurale”, oltre alle costruzione strumentali alle attività produttive di reddito agrario indicate nell’art. 29 (attuale art. 32) TUIR, anche “alle costruzioni strumentali all’attività agricola destinate alla protezione delle piante, alla conservazione dei prodotti agricoli, alla custodia del macchine, degli attrezzi e delle scorte occorrenti per la coltivazione, nonché ai fabbricati destinati all’agriturismo” (art. 9 comma 3 bis DL n. 557/1993 conv. in legge 133/1994, introdotto dall’art. 2 co 1 Dpr n. 139/1998).
Il complesso normativo richiamato (la legge n. 96/2006 non trova applicazione “ratione temporis” alla fattispecie controversa, ma può fornire utili criteri interpretativi delle previgenti norme) evidenzia l’intenzione del Legislatore di voler considerare in modo unitario l’attività agrituristica, quale attività connessa allo svolgimento di quelle agricole in senso stretto, ed alla quale deve essere ricondotto, contraddistinguendone il contenuto tipico, la organizzazione ed esecuzione del servizio di ospitalità e di alloggio, che non può che essere fornito attraverso la realizzazione e messa a disposizione di immobili costruiti sul fondo ed adibiti ad uso abitativo durante il temporaneo soggiorno dei clienti (in proposito, opportunamente l’art. 3, comma 1, Dlgs 18.5.2001 n. 228 specificava che “la stagionalità della ospitalità agrituristica si intende riferita alla durata del soggiorno dei singoli ospiti”). La esigenza alla quale soddisfano tali “fabbricati destinati ad edilizia abitativa” non ne distrae la funzione tipica, riconosciuta dalla legge, di beni immobili “strumentali” all’esercizio della attività connessa a quella agricola, come è dato desumere dal riconoscimento legislativo del carattere rurale -con conseguente attribuzione della categoria catastale D/10- indistintamente ai “fabbricati destinati all’agriturismo”, senza poter quindi distinguersi all’interno di tale categoria, come sembra ipotizzare invece la Agenzia fiscale, tra fabbricati destinati ad attività produttive e fabbricati destinati ad abitazione per differenziare il regime fiscale delle spese sostenute per la ristrutturazione e manutenzione di tali immobili ai fini della detrazione IVA che rimarrebbe preclusa per i secondi ai sensi dell’art. 19 bis 1., comma 1, lett. i), Dpr n. 633/72.
La limitazione, imposta dalla norma tributaria, alla detraibilità dell’IVA versata in rivalsa per le spese di ristrutturazione degli immobili destinati ad uso abitativo, trova infatti giustificazione laddove il consumatore finale benefici direttamente di tali lavori, in quanto “utilizzatore in proprio” del bene immobile per uso personale abitativo, ovvero laddove l’immobile ad uso abitativo, ristrutturato, venga destinato ad un “utilizzo promiscuo” del soggetto passivo, con la conseguenza che in questi casi -salva la ipotesi di imprese che abbiano quale attività esclusiva o principale la costruzione degli immobili- viene meno lo stesso presupposto, previsto dalla normativa comunitaria, sul quale si fonda il diritto alla detrazione d’imposta (attraverso il quale si attua il principio della neutralità fiscale) e cioè l’impiego strumentale del bene immobile nell’esercizio dell’attività economica soggetta ad IVA. In presenza quindi di un “consumatore finale” del bene o dei servizi relativi al bene immobile a destinazione abitativa, ne segue che per le relative spese (di acquisto, locazione, ristrutturazione, manutenzione e gestione), non si pone alcuna esigenza di traslare il carico economico della imposta, per non farlo gravare su soggetti che utilizzano strumentalmente tali beni nell’esercizio della impresa.
Tale essendo la “ratio legis” dell’art. 19 bis 1., comma 1, lett. i), del Dpr n. 633/72, occorre quindi distinguere gli immobili “ad uso abitativo” -secondo la corrispondente destinazione urbanistica e catastale- che implicano il godimento diretto da parte del consumatore finale, da quelli utilizzati, invece, per l’esercizio della impresa avente ad oggetto l’attività “agrituristica” per i quali la funzione abitativa dell’immobile, costituendo mezzo di attuazione della prestazione di servizio concernente la ospitalità e ricettività alloggiativa della clientela, è direttamente strumentale allo svolgimento dell’attività economica assoggettata ad IVA, non potendo escludersi per questi ultimi l’applicazione, ex art. 19 Dpr n. 633/1972, dell’ordinario regime di detrazione delle spese inerenti…».
Come esattamente rilevato dalla difesa della società ricorrente il diritto alla detrazione della imposta versata in rivalsa su acquisiti di beni o servizi “inerenti” (nella specie la imposta relativa alla fattura per costi di ristrutturazione per immobile aventi destinazione catastale ad uso abitativo, ma impiegati nell’esercizio dell’attività turistico-alberghiera), trova ulteriore conferma nel criterio ermeneutico (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 674 del 10/03/1971; id. Sez, lav. Sentenza n. 4906 del 05/05/1995; id Sez. 3, Sentenza n. 14900 del 22/10/2002) secondo cui, fra le diverse possibilità interpretative, la norma di legge delegata (art. 3, comma 1, Dlgs 2.9.1997 n. 313) deve essere interpretata nel modo che risulti conforme all’art. 76 Cost. e dunque non in contrasto con “i limiti ed i principi direttivi” espressi dalla norma di legge delega -in attuazione della quale è stato introdotto l’art. 19 bis.1, comma 1, Dpr n. 633/72- che aveva autorizzato il Governo a provvedere alla “revisione della disciplina delle detrazioni di imposta e delle relative rettifiche, escludendo il diritto alla detrazione per gli acquisti di beni e servizi destinati esclusivamente a finalità estranee all’esercizio dell’impresa o dell’arte o professione utilizzati esclusivamente per operazioni non soggette all’imposta, eccettuate quelle cui le norme comunitarie ricollegano comunque il diritto alla detrazione” (art. 3, comma 66, lett., b), legge n. 662/1996). Non è condivisibile l’argomento della Agenzia fiscale secondo cui non potrebbe ricorrersi all’indicato criterio ermeneutico in quanto la indetraibilità IVA, nel caso di specie, era stata introdotta già con l’art. 10 co 4 del DL 20.6.1996 n. 323 conv. in legge 8.8.1996 n. 425 che, al secondo comma dell’art. 19 Dpr n. 633/1972, aveva aggiunto la lett. “e-quinquies)”, atteso che la legge delega aveva autorizzato il Governo ad una completa revisione del sistema delle detrazioni , sicché le ipotesi eccezionali di indetraibilità previste dal Legislatore delegato sono state sottoposte a verifica alla stregua del parametro indicato dalla legge delega e, ove necessario, opportunamente riformulate: ne segue che la mancata riformulazione della disposizione in esame implica necessariamente che ha superato il vaglio di corrispondenza ai principi direttivi stabiliti nell’art. 3 co 66, lett. b) della legge n. 662/1996, e dunque il contenuto prescrittivo -nelle parti in cui presenta incertezze o dubbi applicativi- non può che essere interpretato alla stregua ed in conformità a tali principi secondo cui il diritto a detrazione può essere escluso solo per acquisti di beni e servizi non impiegati nell’attività d’impresa, ovvero destinati ad attività non soggette ad IVA (non venendo, peraltro, in questione nel caso in esame la fattispecie di esenzione IVA, ostativa alla detrazione d’imposta, prevista dall’art. 10, comma 1, n. 8 bis) del Dpr n. 633/72, soltanto per le operazioni di “cessione” degli immobili abitativi effettuate da soggetti diversi dalle imprese di costruzione, od esecutrici dei lavori di ristrutturazione ovvero che esercitano la rivendita di beni immobili).
Occorre segnalare che la indicata soluzione interpretativa è stata da ultimo condivisa, limitatamente alla detrazione IVA, dalla stessa Amministrazione finanziaria (risoluzione n. 18/E, in data 22.2.2012, Direzione Centrale Normativa Agenzia delle Entrate) che ha così modificato il precedente orientamento.
In conclusione il ricorso principale deve essere accolto quanto al terzo motivo, infondato il primo ed inammissibile il secondo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in “parte qua”.
Venendo all’esame del ricorso incidentale proposto dall’Agenzia fiscale in ordine ai capi di sentenza concernenti la deducibilità ai fini IRPEG ed IRAP dei costi di ristrutturazione sui quali era rimasta soccombente, osserva il Collegio che, con i primi due motivi la Agenzia fiscale deduce il vizio di insufficiente motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c., mentre con il terzo e quarto motivo deduce, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione degli artt. 108 (ex art. 74), 109, 110 (ex art. 76) e 102 TUIR (quanto alla deduzione dei costi per prestazioni professionali inerenti alla ristrutturazione degli immobili), nonché la violazione dell’art. 109 TUIR e dell’art. 2697 c.c. (quanto alla deduzione dei costi per intermediazione svolta da terzi), in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c..
Sostiene la Agenzia ricorrente che, da un lato, la CTR si è limitata ad affermare che apparivano “non convincenti” le ragioni addotte dalla Amministrazione finanziaria per il recupero delle spese indeducibili (primo motivo), effettivamente sostenute nel periodo di competenza ed inerenti alla ristrutturazione degli immobili (secondo motivo), senza tuttavia tener conto che i costi contestati erano di differente natura e così anche i rilievi mossi nell’avviso di accertamento; dall’altro che, essendo le prestazioni professionali “strettamente connesse” al cespite immobiliare (redazione studi fattibilità; progetto esecutivo, esecuzione dei rilievi, ecc. ), le stesse dovevano considerarsi quali “oneri accessori” al costo del bene ai sensi dell’art. 76 co 1, lett. b) TUIR, nel testo antevigente alla riforma del 2003 (attuale art. 110 co 1, lett. b, TUIR), non potendo in conseguenza essere dedotte nell’esercizio in cui erano state sostenute, ma potendo essere ammortizzate soltanto unitamente al costo del bene (a decorrere “dalla entrata in funzione del bene”: art. 67col vecchio TUIR -attuale art. 102 co 1, TUIR-) secondo il regime applicabile per quest’ultimo (terzo motivo); ed inoltre, quanto alle spese per prestazioni di intermediazione, la CTR non aveva considerato che, trattandosi di prestazioni di servizi eseguite nell’anno 2002, il costo delle stesse andava imputato per competenza in tale anno e non nel successivo in cui la contribuente aveva emesso la fattura, mentre quanto ai costi per energia elettrica, la CTR aveva ritenuto gli stessi deducibili, sulla mera allegazione della contribuente che la fornitura di energia riguardava un contatore di cantiere, in difetto di qualsiasi riscontro probatorio (quarto motivo).
I motivi debbono essere dichiarati inammissibili per difetto del requisito di specificità ex art. 366 co 1 n. 3) e 4) c.p.c..
Per giurisprudenza consolidata della Corte il motivo con il quale viene dedotto il vizio motivazionale deve evidenziare in modo specifico il carattere “decisivo” della prova omessa od inesattamente apprezzata dal giudice di merito, come richiesto espressamente dall’art. 360 co 1 n. 5) c.p.c.. La nozione di “punto decisivo” della controversia di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. (“fatto controverso e decisivo” nel testo dell’art. 360 co 1 n. 5) c.p.c. come sostituito dall’art. 2 co 1 Dlgs 2.2.2006 n. 40), sotto un primo aspetto si correla al “fatto” sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha determinato il giudice all’individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un “fatto costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto”. Sotto un secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, afferisce al “nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa. Infatti, se il vizio di motivazione per omessa considerazione di punto decisivo fosse configurabile solo per il fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso “soltanto possibile o probabile” una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice del merito, oppure se il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà fosse configurabile solo perché su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, il ricorso per cassazione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 si risolverebbe nell’investire la Corte di Cassazione del controllo “sic et simpliciter” dell’iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito (cfr. Corte cass. IlI sez. 7/12/2004 n. 22979; id. IlI sez. 5/08/2005 n. 16582; id. IlI sez. 22/09/2006 n. 20636). Ne consegue che “per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame dì un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base” (cfr. Corte cass. Sez. Lav. 26.5.2004 n. 10156; id. IlI sez. 21/04/2006 n. 9368; id III sez. 26/06/2007 n. 14752)
Nella specie la Agenzia fiscale, da un lato, non ha indicato gli elementi probatori decisivi che avrebbero escluso i requisiti di inerenza o competenza dei costi portati in deduzione, limitandosi a trascrivere parte del contenuto del PVC -nel quale erano esternate le valutazioni conclusive espresse dai verbalizzanti in ordine ad asserite violazioni dell’art. 75 (vecchio) TUIR commesse dalla società- e un estratto della motivazione della decisione di prime cure, e dall’altro si è limitata a criticare la apoditticità dell’accertamento compiuto dalla CTR in ordine alla deducibilità dei costi contestati nell’avviso di accertamento. Risulta, pertanto, omessa qualsiasi trascrizione dei documenti contabili oggetto della verifica fiscale, né viene fornita una chiara descrizione dei fatti, mentre la mera contestazione della apoditticità della motivazione, è inidonea a corrispondere ai requisiti di ammissibilità della censura ex art. 360 co 1 n. 5) c.p.c., non essendo accompagnata la “pars destruens” della critica, alla necessaria “pars construens”, volta ad individuare le specifiche prove dei fatti che, se fossero state attentamente considerate e valutate, avrebbero con certezza condotto ad una diversa decisione favorevole alla parte ricorrente (e che non devono attenere a mere “questioni” o “punti”, dovendo invece configurarsi in senso storico o normativo e dunque come fatto principale ex art. 2697 cod. civ. -costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo- od anche come fatto secondario dedotto in funzione di prova determinante di una circostanza principale: Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 16655 del 29/07/2011).
Nel difetto del requisito di specificità ex art. 366 co l n. 4 e n. 6 c.p.c. incorrono il terzo ed il quarto motivo di ricorso incidentale.
Relativamente all’importo di € 12.111,51 (da riferirsi sembra a “prestazioni professionali” relative alla ristrutturazione immobiliare: cfr. sentenza CTR) viene contestata la imputazione in bilancio a “costi pluriennali” anziché a “costi accessori” (oneri accessori di diretta imputazione al costo del bene) ai sensi dell’art. 2426 co 1, n. 1), c.c. e dell’art. 76 co 1, lett. b), TUIR nel testo antecedente la riforma del 2003. Ma dalla esposizione risulta che i corrispettivi per le prestazioni non sono stati interamente dedotti come spesa, ma ammortizzati pro-quota (almeno secondo quanto emerge dalla tabella riportata nei ricorso incidentale ed estratta dal PVC): ma se così è non è affatto chiaro, in mancanza di trascrizione del bilancio di esercizio e delle fatture descrittive delle prestazioni di servizi concernenti detti costi se, nella specie la società abbia inteso applicare l’art. 74 co 3 del vecchio TUIR (che consentiva la deducibilità delle “altre spese relative a più esercizi….nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio”) ovvero abbia piuttosto applicato proprio l’art. 67 -vecchio- TUIR che disciplina l’ammortamento dei beni materiali e che consentiva al contribuente di optare per un regime di ammortamento diverso da quello unitario previsto, al comma 1, per gli “oneri accessori di diretta imputazione” (di cui all’art. 74 co 1, lett. b) del medesimo TUIR, vecchia numerazione), disponendo al comma 7 che “le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione che dal bilancio non risultino imputate ad incremento del costo dei beni ai quali si riferiscono, sono deducibili nel limite del 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzatoli…”. Apparendo evidente che, nel primo caso, si palesava necessario individuare con esattezza la natura delle prestazioni svolte, per stabilire se rientrassero o meno in attività connotate dalla caratteristica di durata o ripetitività della esecuzione in più esercizi; nel secondo caso risulta infondata la pretesa tributaria, avendo omesso, peraltro, la ricorrente di argomentare le ragioni che porterebbero ad applicare esclusivamente il comma 1 e non anche il comma 7 dell’art. 67 vecchio TUIR. L’affermazione della Agenzia fiscale secondo cui la società avrebbe dovuto iscrivere tali costi alla voce “A) -4)” del Conto economico (“Valore della Produzione” – “incrementi di immobilizzazioni per lavori interni: peraltro la Agenzia non chiarisce se le prestazioni professionali in questione fossero state o meno fomite “in economia” e cioè con “lavoro interno” svolto dal personale della stessa società, come richiesto per l’appostazione alla voce A4 del conto economico dal principio contabile OIC n. 12, e dal documento interpretativo n. 1, ovvero fossero state rese da soggetti terzi), capitalizzando la spesa come incremento del valore delle immobilizzazioni materiali da inserire “all’Attivo” dello Stato patrimoniale alla voce B-II, portando in deduzione, dal momento della “entrata in funzione” del bene immobile, la relativa quota di ammortamento (art. 2426 co 1, n. 2) c.c.; art. 67 co 1 -attuale art. 102 co 1- TUIR), non è dunque assistita dalla indispensabile esposizione dei fatti materiali presupposti e dalla trascrizione del contenuto dei documenti contabili necessari a consentire alla Corte di verificare la fondatezza della censura di legittimità.
Relativamente all’importo di € 5.744,42 concernente le spese per compensi per prestazioni occasionali (provvigioni per attività di intermediazione svolta da terzi), viene contestata, con il quarto motivo, la violazione del principio di competenza, in quanto la spesa era stata sostenuta, sembra di comprendere, entro il 30.6.2003 e quindi avrebbe dovuto essere fiscalmente dedotta in relazione all’esercizio di bilancio dell’anno 2002: l’Agenzia tuttavia, nella parte espositiva della censura si limita a fondare la censura sulla asserita ammissione della società contribuente secondo cui “il fornitore aveva prestato la propria opera nel corso dell’anno 2002”, omette del tutto di specificare dove e quando tale affermazione sia reperibile negli atti del processo, mentre nelle premesse in fatto del ricorso, riferisce, invece, traslitterando il contenuto del PVC, che la contestazione mossa nell’avviso era fondata sulla circostanza, indimostrata, che la società “ha un esercizio sociale non coincidente con l’anno solare” (ricorso pag. 1): l’evidente incertezza delle ragioni fondative della censura (non essendo neppure ben chiaro se con il motivo di ricorso incidentale venga introdotta una nuova, e quindi inammissibile, questione rispetto alla originaria contestazione formulata con l’avviso di accertamento) determina la inammissibilità del motivo di ricorso.
Analogamente, relativamente all’importo di € 4.599,48 sostenuto per costi di fornitura di energia elettrica, la contestazione formulata nell’avviso di accertamento concerneva la non riferibilità della spesa alla contribuente (non inerenza della spesa), attenendo ad un immobile, estraneo all’esercizio della attività agrituristica, e concesso in locazione ad altro soggetto (Azienda agricola S.L. di B.G. & C.): diversamente, la esposizione del quarto motivo, è volta a contestare la difesa della società secondo cui la fornitura di energia riguardava un contatore di cantiere utilizzato dalla impresa B., ma non è specificato se e per quale ragione la mancanza di prova di tale circostanza, determinerebbe la indeducibilità del costo relativo ad un bene immobile appartenente alla società contribuente, incorrendo la censura nel difetto del requisito di specificità ex art. 366 co 1 n. 4) c.p.c..
In conclusione, il ricorso principale deve essere accolto quanto al terzo motivo, infondato il primo ed inammissibile il secondo; il ricorso incidentale deve essere dichiarato inammissibile; la sentenza impugnata va in conseguenza cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa può essere, quindi, decisa nel merito ex art. 384 co 2 c.p.c. con l’accoglimento del ricorso introduttivo, relativamente alla detraibilità IVA, e la condanna dell’Agenzia fiscale alla rifusione delle spese dell’intero giudizio, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
– accoglie il ricorso principale quanto al terzo motivo, infondato il primo ed inammissibile il secondo; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo la causa nel merito accoglie il ricorso introduttivo relativamente alla detraibilità dell’IVA
– condanna l’Agenzia fiscale alla rifusione delle spese del giudizio liquidate, come da notula, per il giudizio di legittimità in € 13.122,00 per compensi, € 550,00 per esborsi oltre gli accessori di legge; per il giudizio di secondo grado in € 13.764,41 di cui € 9.310,00 per compensi ed € 180,00 per spese vive; per il giudizio di primo grado in € 13.158,87 di cui € 8.895,00 per compensi ed € 180,00 per esborsi.