CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 4748 del 10 marzo 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – CONTRATTO DI FORMAZIONE – NULLITA’ – SUSSISTENZA DI UN RAPPORTO DI LAVORO A TEMPO INDETERMINATO – MANCANZA DI ATTIVITA’ FORMATIVA
Svolgimento del processo/Motivi della decisione
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
“Con sentenza depositata in data 8/7/2013, la Corte di appello, giudice del lavoro, di Roma decidendo sull’impugnazione proposta dall’ATAC S.p.A. (incorporante della T. S.p.A.) nei confronti di A.C. e A.C., confermava la pronuncia di primo grado che aveva accolto il ricorso dei suddetti lavoratori, dichiarato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dalla data di stipula dei contratti di formazione e condannato la società al pagamento delle differenze retributive sulla base del trattamento spettante di 6° livello, parametro 158, del c.c.n.l., qualifica conducente di linea, compreso quanto disposto dall’accordo aziendale dell’11/7/2000. Confermava anche il rigetto della domanda riconvenzionale proposta dalla società per l’accertamento dell’obbligo dei lavoratori di osservare un orario di lavoro di 39 ore settimanali, previste dalla contrattazione nazionale, in luogo delle 37 ore osservate nel tempo successivo alle assunzioni con contratto a tempo indeterminato e la condanna degli stessi a restituire all’azienda quanto indebitamente percepito a titolo di lavoro straordinario per le ore lavorate (tra la 37a e la 39a in applicazione di un accordo aziendale affetto da nullità per contrasto con norma imperativa. Il C. ed il C. avevano dedotto di avere già svolto attività di conducente di linea presso l’ATAC (poi T.) in forza di un rapporto di fornitura di lavoro temporaneo intercorso tra l’ATAC e la società fornitrice O. Lavoro S.c.a.r.l.; di non avere ricevuto alcuna formazione teorica e/o tecnico-pratica durante il periodo del contratto di formazione e lavoro; di essere stati inseriti sin dall’assunzione nel normale ciclo produttivo aziendale. Avevano, quindi, eccepito l’illegittimità e/o la nullità del c.f.l. per difetto funzionale della causa del contratto, attesa l’assoluta mancanza di attività formativa. Avevano, inoltre, rivendicato il diritto all’inquadramento nel 6° livello, parametro 158, del c.c.n.l. e al trattamento anche economico previsto dagli accordi nazionali dell’11 aprile 1995 e del 25 luglio 1997, nonché dall’accordo aziendale dell’11 luglio 2000, relativo all’emolumento mensile denominato E.R.S. (emolumento di riordino del sistema retributivo). La Corte di appello osservava: – che i dipendenti, al momento dell’assunzione con contratto di formazione e lavoro avevano svolto le stesse mansioni di conducente di linea di cui al periodo del lavoro interinale; – che nessuna prova aveva fornito la società della dedotta diversità di mansioni; – che, dunque, come ritenuto dal Tribunale, trattandosi di assunzione di lavoratori già esperti al momento della stipula dei c.f.l. (avendo gli stessi partecipato a stages formativi cui era seguito per alcuni mesi lo svolgimento delle mansioni di conducente di linea presso l’ATAC), il contratto era privo della causa formativa; – che, quanto all’E.R.S., il tenore della norma non deponeva per l’interpretazione sostenuta dalla società di limitare l’attribuzione dell’emolumento al solo personale dipendente a tempo indeterminato alla stipula dell’accordo dell’11 luglio 2000 con esclusione di quello che tale fosse divenuto in conseguenza della conversione del rapporto in via giudiziale e con effetto ex tunc ai sensi del D.L. n. 762 del 1984, art. 3, comma 9 (ndr D.L. n. 726 del 1984, art. 3, comma 9); – che a diverse conclusioni non poteva pervenirsi in base alla “clausola di interpretazione autentica” del 24 marzo 2005, alla quale doveva attribuirsi significato novativo, esprimendo l’intenzione dei contraenti che nessuna assunzione successiva al 2 marzo 2000 potesse prevedere il riconoscimento dell’elemento mensile ERS; – che, quanto alla domanda riconvenzionale della T. per la restituzione delle somme erogate a titolo di lavoro straordinario oltre le 37 ore settimanali, non vi era alcuna prova circa l’effettivo espletamento da parte dei ricorrenti di ore oltre la 37a, e circa la corresponsione di compenso per lavoro straordinario.
Per la cassazione di tale decisione ricorre ATAC S.p.A., quale incorporante di T. S.p.A., affidando l’impugnazione a quattro motivi. A.C. e A.C. resistono con controricorso.
Con il primo e il secondo motivo, l’ATAC S.p.A. denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 12 disp. gen., in relazione al D.L. n. 726 del 1984, art. 3, convertito in L. n. 863 del 1984, nonché degli art. 112, 115 e 116 cod. proc. civ. ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3 nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
Assume che la Corte territoriale ha omesso di esaminare un punto fondamentale della questione e cioè quello concernente le mansioni svolte in precedenza dai lavoratori assunti con c.f.l.
Rileva che lo svolgimento del breve periodo di lavoro interinale non poteva essere considerate equivalente ad un contratto di formazione e lavoro tanto da rendere inutile la stipulazione e che, di conseguenza, non poteva ritenersi che i lavoratori, al momento dell’assunzione con c.f.l., avessero acquisito la professionalità necessaria per svolgere le mansioni di conducente di linea. Aggiunge che l’attività espletata durante il periodo interinale era stata caratterizzata da modalità diverse rispetto a quelle che i dipendenti avrebbero dovuto svolgere in sede di formazione. Deduce che la circostanza secondo cui i lavoratori al momento dell’assunzione avessero acquisito la professionalità necessaria per svolgere le mansioni di conducente di linea non può determinare la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato, bensì la nullità dello stesso per frode alla legge ovvero per difetto di causa. Rileva che la funzione precipua del c.f.l. è quella di favorire la costituzione di rapporti di lavoro subordinato per i giovani e tale finalità è prevalente su quella meramente formativa evidenziando che, nella specie, gli allora ricorrenti erano stati assunti a tempo indeterminato allo scadere del contratto di formazione e lavoro e ciò costituiva la dimostrazione che il contratto aveva raggiunto lo scopo cui era preordinato. Inoltre, un qualsiasi discostamento, anche lieve, dal programma di formazione non può essere idoneo a determinarne la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, qualora si accerti che il contratto ha raggiunto la finalità di consentire al giovane un ingresso guidato nel mondo del lavoro. Sottolinea che un significato interpretativo può trarsi dal d.lgs. n. 276 del 2003 che nel prevedere una nuova tipologia contrattuale – il contratto di inserimento (art. 54 e segg.) in sostituzione del c.f.l. – prescinde completamente dalla previsione di un progetto formativo.
Con il terzo motivo la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1321 cod. civ. e art. 1362 cod. civ. e segg., in relazione all’accordo collettivo aziendale dell’11 luglio 2000 ed al verbale di accordo del 24 marzo 2005, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3.
Assume che con il c.c.n.l. dell’11 aprile 1995 fu stabilito un salario di ingresso per i neo assunti con c.f.l., il cui trattamento, durante il contratto stesso e per i quindici mesi successivi alla trasformazione, prevedeva l’esclusione di tutti gli istituti retributivi previsti dalla contrattazione aziendale; il successivo accordo nazionale del 2 marzo 2000 aveva fatto riferimento alla necessità di procedere alla riclassificazione degli istituti salariali aziendali e di definire a livello aziendale la quota da riservare ai neo assunti. Tali disposizioni vennero attuate dall’ATAC con l’accordo aziendale dell’11 luglio 2000 il quale, nel definire le nuove voci, stabilì la soppressione di ogni altra indennità, premio o maggiorazione in precedenza prevista a livello aziendale; al contempo, al fine di compensare della soppressione di tali voci chi di fatto già ne godeva, mantenendo un “differenziale” sul trattamento economico dei più anziani rispetto a quello dei più giovani, l’art. 2 di tale accordo del luglio 2000 previde che fosse istituito, a decorrere dal mese di agosto 2000, “per il solo personale in forza a tempo indeterminato alla data di stipula del presente accordo, un emolumento mensile consolidato denominato Elemento di Riordino del Sistema retributivo (E.R.S.)”. Sostiene la ricorrente che la ratio e la finalità dell’accordo dell’11 luglio 2000 fossero quelle di limitare il diritto all’E.R.S. ai soli dipendenti formalmente assunti a tempo indeterminato, escludendo proprio i lavoratori in quel momento assunti con contratti di lavoro flessibile. Assume che il verbale sindacale del 24 marzo 2005 si limitò a confermare tale interpretazione, senza alcuna portata novativa. In punto di diritto rileva che la possibilità delle parti sociali di fornire una interpretazione autentica della propria volontà contrattuale è riconducibile al negozio di accertamento, dovendosi pure considerare che in tema di interpretazione di contratti collettivi il comportamento posteriore delle parti, valutabile ex art. 1362, co. 2, cod. civ. può essere costituito da un successivo accordo, il quale – nella parte non direttamente dispositiva – presupponga una determinata interpretazione di una complessa ed organica disciplina di istituti contrattuali articolata nel tempo e nel corso di più contratti collettivi.
Con il quarto motivo, la società denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 112 e 113 cod. proc. civ., dell’art. 5 ter del D.L. n. 702/1978, introdotto dalla legge di conversione n. 3/1979, del c.c.n.l. del 23 luglio 1976, stipulato tra Federtrasporti, ANAC FENIT e le 00.SS. FILT CGIL, FIT-CISL e UIL Trasporti e dell’accordo collettivo nazionale del 12 luglio 1985 stipulato tra FILT CGIL, FITCISL e UIL Trasporti e Federtrasporti, l’ANAC, la FENIT e l’INTERSIND, del c.c.n.l. 25 luglio 1997 stipulato tra Federtrasporti, l’ANAC, la FENIT e le 00.SS. FILT.CGIL, FIT CISL e UILTRASPORTI (art. 360 cod. proc. civ., n. 3), assumendo il vizio della sentenza in relazione al rigetto della domanda riconvenzionale della società. Rileva che l’orario di 39 ore settimanali stabilito dalla contrattazione collettiva nazionale era stato ridotto a 37 ore in virtù di previsione di contrattazione aziendale (accordo del 16 giugno 1983), pacificamente applicato anche agli attuali controricorrenfi, ma tale accordo era stato ritenuto nullo dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 12661 dell’8 luglio 2004. I lavoratori avevano così indebitamente percepito, successivamente all’assunzione a tempo indeterminato, i compensi per lavoro straordinario per le ore prestate dalla 37a alla 39a, le cui differenze erano state oggetto della domanda restitutoria erroneamente respinta dalla Corte di appello.
Il ricorso è manifestamente infondato alla luce dell’orientamento interpretativo espresso da questa Corte nelle sentenze nn. 18553 del 29 ottobre 2012, 20598 del 22 novembre 2012, 20761 del 23 novembre 2012, 16445 del 1° luglio 2013 nonché nelle più recenti decisioni nn. 17606 del 4/8/2014; 21707 del 14/10/2014, 27383 del 23/12/2014, rese in fattispecie del tutto analoghe a quella oggetto del ricorso in esame.
Quanto alle censure di cui al primo e secondo motivo, va innanzi tutto rilevato che la sentenza impugnata è stata depositata dopo l’11 settembre del 2012 e pertanto al ricorso per cassazione è applicabile, quanto all’anomalia motivazionale, l’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. nella formulazione introdotta con il D.L. 83/2012, conv. con legge n. 134 del 2012.
Anche prima della riformulazione dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., costituiva consolidato insegnamento che fosse sempre vietato invocare in sede di legittimità un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché non ha la Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (tra le molte, v. Cass. 17 novembre 2005, n. 23286; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 9 agosto 2007, n. 17477; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. sez. un., 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197). Pertanto non può essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dalla Corte territoriale, essendo la valutazione di tali risultanze – al pari della scelta di quelle, tra esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito: il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20 aprile 2012, n. 6260).
Nel sistema, l’intervento di modifica del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. In questo contesto, il nuovo testo del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Tanto comporta (Cass. Sez. Un., 22 settembre 2014, n. 19881) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; mentre in ogni caso, la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.
Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili; mentre non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti.
È a dir poco evidente che, nella fattispecie, una ricostruzione del fatto pienamente sussiste e che la decisione non è affetta dai vizi appena indicati come soli ormai rilevanti ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., nell’attuale formulazione. Va in ogni caso evidenziato che in modo del tutto inammissibile parte ricorrente lamenta che in sede di merito non sia stato tenuto conto delle richieste istruttorie della società dirette a dimostrare che gli attuali resistenti, durante il periodo di lavoro interinale presso l’ATAC, avevano svolto un’attività limitata ad alcune linee del servizio pubblico di trasporto, avevano lavorato soltanto in specifiche rimesse e prestato attività solo su alcune tipologie di automezzi; che, di conseguenza, l’assunzione con contratto di formazione e lavoro era giustificata dalla necessità di consentire ai predetti di acquisire quella professionalità normalmente richiesta ai dipendenti con mansioni di conducenti di linea mediante una piena conoscenza dell’organizzazione delle procedure e dell’attività aziendale ed il pieno inserimento nella sua struttura. Non trascrive, infatti, la ricorrente i capitoli di prova né indica i testi e le ragioni per le quali essi sarebbero qualificati a testimoniare – elementi necessari a valutare la decisività del mezzo istruttorio richiesto -; neppure fornisce elementi in ordine alla tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione e la fase di merito a cui si riferisce, al fine di consentire ex actis alla Corte di Cassazione di verificare la veridicità dell’asserzione (Cass. n. 9748 del 2010; v. pure Cass. 19138 del 2004). Va, poi, ricordato, come da questa Corte ripetutamente affermato, che, in tema di contratto di formazione e lavoro, l’inadempimento degli obblighi di formazione determina la trasformazione, fin dall’inizio, del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, qualora l’inadempimento abbia un’obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e quindi trasfusi nel contratto. In questa seconda ipotesi il giudice deve valutare in base ai principi generali la gravità dell’inadempimento, giungendo alla declaratoria di trasformazione del rapporto (v. per tutte Cass. 10 febbraio 2006, n. 2247, Cass. 7 agosto 2004, n. 15308; Cass. 4 ottobre 2004, n. 19846 e, più specificamente, Cass. 9 marzo 2009, n. 5644, relativa all’ipotesi in cui il lavoratore, già al momento della sua assunzione con c.f.l., possegga la professionalità che, secondo gli accordi intervenuti, dovrebbe costituire lo scopo del programma formativo avendo espletato in precedenza analoga attività lavorativa).
È, pertanto, corretta in diritto la sentenza impugnata che ha dichiarato la trasformazione del rapporto di lavoro sul rilievo della totale mancanza di formazione, per essere lo stesso intervenuto a seguito di contratto per prestazioni di lavoro temporaneo che già aveva visto gli odierni controricorrenti ottenere l’inquadramento nel 6° livello del c.c.n.l., per aver riguardato l’unico momento di formazione il periodo di lavoro interinale; per essere mancato, con riferimento al periodo di cui al c.f.l., anche un mero “affiancamento” da parte di personale più esperto. Non può dirsi, peraltro, che non sia stata tenuta in debito conto la ratio legis e cioè il sistema in cui la nonna di cui al citato art. 3 si colloca. Invero, lo scopo del contratto di formazione e lavoro è quello di favorire un ingresso guidato dei giovani nel mondo del lavoro, attraverso un rapporto che dia loro anche gli strumenti per apprendere una determinata professionalità ed è consentito al datore di lavoro l’uso di una circoscritta discrezionalità nel realizzare il programma di formazione, che si traduce nella possibilità di alternare la fase teorica con la fase pratica tenendo conto delle esigenze dell’impresa, ma tale discrezionalità non può mai spingersi fino ad espungere una delle due fasi dalla esecuzione del contratto, atteso che entrambe sono coessenziali, con la conseguenza che il periodo di prova in tanto è rilevante per giudicare delle attitudini del lavoratore in formazione in quanto nello stesso, sia pure con cadenze diverse rispetto a quelle previste dal programma, siano presenti entrambe le predette fasi coessenziali al raggiungimento dello scopo di un inserimento qualificato nel mondo del lavoro (Cass. 8 gennaio 2003, n. 82). Né può indurre a diverse conclusioni il richiamo al contratto d’inserimento – di cui alla legge d.lgs. n. 276 del 2003 – riguardando la presente fattispecie un contratto del tutto diverso al quale il richiamato d.lgs. ha assegnato ratione temporis una differente funzione economicosociale. Non è fondata la terza censura con cui la società ricorrente prospetta, come detto, che la Corte del merito abbia erroneamente ritenuto, quanto alla spettanza dell’E.R.S. – elemento di riordino del sistema retribuivo -, che l’accordo d’interpretazione autentica del 24 marzo 2005 – in base al quale veniva esclusa la corresponsione di detto E.R.S. a coloro i quali, come gli odierni controricorrenti, al momento della stipula del precedente accordo del 2000 non erano lavoratori subordinati a tempo indeterminato – avesse natura innovativa. Il decisum sul punto della sentenza impugnata si fonda essenzialmente sulla considerazione che, in conseguenza della trasformazione del rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex tune, gli originati ricorrenti, all’epoca dell’accordo, erano a tutti gli effetti, giuridici ed economici, dipendente a tempo indeterminato e come tali rientranti nel “personale in forza a tempo indeterminato alla data della stipula dell’accordo” al quale, secondo detto accordo, spettava la corresponsione del c.d. E.R.S.
Assume la società che agli attuali controricorrenti non spetterebbe il richiamato E.R.S. poiché con l’accordo del 24 marzo 2005 le parti, interpretando in via autentica la precedente intesa dell’11 luglio 2000, avevano escluso dalla corresponsione dell’E.R.S. coloro i quali non fossero formalmente dipendenti a tempo indeterminato all’epoca della stipula dell’accordo del 2000, ciò al fine di lasciare fuori gli assunti con contratto di formazione lavoro i quali si erano visti riconoscere expost la qualificazione giuridica del proprio rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Va, però, ritenuto che la stessa prospettazione della società confermi l’esattezza dell’affermazione della Corte di appello secondo la quale l’accordo del 2005 non ha natura interpretativa, bensì innovativa. Invero, affinché un negozio giuridico successivo possa ritenersi interpretativo di uno precedente è necessario, al di là delle espressioni di qualificazione utilizzate dalle parti, che la volontà esplicitata nell’ultimo negozio sia desumibile anche dal precedente, viceversa la nuova intesa è innovativa e non interpretativa. Avuto riguardo al caso di specie, ritiene il Collegio che la volontà di limitare la corresponsione dell’E.R.S. solo ai lavoratori che al marzo del 2000 fossero formalmente dipendenti a tempo indeterminato con esclusione di coloro i quali fossero divenuti tali per effetto di successivo riconoscimento giudiziale non sia desumibile dall’accordo del 2000, non essendovi alcuna clausola contrattuale che legittima siffatta ricostruzione della volontà delle parti. Né la società ricorrente la indica, limitandosi a prospettare le ragioni storiche che indussero le parti alla previsione dell’E.R.S. Tanto, tuttavia, non è sufficiente, atteso che la volontà esplicitata nell’intesa del 2005 non trova alcun riscontro nell’accordo del 2000, dove si fa riferimento al “personale in forza a tempo indeterminato alla data di stipula del presente accordo”, né in altre clausole collettive.
La ratio posta a base dell’accordo del 2005, come prospettata dalla stessa società ricorrente è, all’evidenza, del tutto estranea all’accordo precedente ed è funzionale all’esigenza di far fronte ad una situazione venutasi a creare dopo l’accordo del 2000. Tutto ciò a prescindere dalla possibilità per le parti sociali, in sede di contrattazione collettiva del settore privato, di procedere ad un’interpretazione di clausole contenute in precedente contratto, essendo tale meccanismo espressamente previsto con riguardo al settore del lavoro pubblico privatizzato in tema di procedura di accertamento della validità, efficacia ed interpretazione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti dall’ARAN, di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, art. 64, ed operando, in tema di contrattazione collettiva privata, il principio della normale successione dei contratti. Tali considerazioni hanno carattere assorbente di ogni altro rilievo mosso, sul punto, dalla società alla sentenza impugnata. È infondato anche il quarto motivo con cui la società critica la sentenza impugnata assumendo che, stante la nullità – per effetto della sentenza n. 12661 del 2004 di questa Corte – della contrattazione aziendale (accordo 18 luglio 1983), la quale aveva previsto una riduzione dell’orario di lavoro da 39 ore settimanali a 37 ore, erroneamente la Corte del merito aveva respinto la domanda riconvenzionale.
Questa Corte ha più volte affermato che, in tema di trattamento economico dei dipendenti di aziende municipalizzate, il D.L. n. 702 del 1978, art. 5 ter, convertito in L. n. 3 del 1979 – che, tra l’altro, fa divieto alle aziende municipalizzate degli enti territoriali di stipulare accordi integrativi aziendali che comportino erogazioni economiche aggiuntive rispetto a quelle previste nei contratti nazionali – è norma a carattere imperativo essenzialmente intesa ad un trattamento economico uniforme su tutto il territorio nazionale per i dipendenti delle aziende municipalizzate, alla parità delle aziende suddette in relazione ai costi del personale, nonché al contenimento dei costi medesimi, onde il divieto espresso da tale norma non va inteso in senso formale e restrittivo, come impeditivo soltanto della possibilità che le aziende manifestino direttamente la volontà di obbligarsi, ma nel senso che ad essere vietato è il risultato, con qualsiasi procedimento ottenuto, di vincolare l’azienda al rispetto di statuizioni derogatorie della contrattazione nazionale che siano l’effetto di un atto perfezionatosi successivamente all’entrata in vigore della norma imperativa (Cass. 5 marzo 2001, n. 3196, che riprende S.U. 19 novembre 1998, n. 11714 e Cass. 29 aprile 1998, n. 4386; conf. Cass. 12478/1999; 6161/2000; 7103/2000; cfr. da ultimo, Cass. n. 18251 del 2011, n. 21293 del 2009, n. 29926 del 2008). Tale norma era sicuramente vigente anche al tempo della stipulazione degli accordi aziendali di cui la società, attuale ricorrente, ha fatto applicazione; il citato art. 5 ter rende nulli tutti gli atti posti in essere successivamente alla sua entrata in vigore, di modo che è nulla per violazione di norma imperativa la clausola di un contratto aziendale che disponga una riduzione dell’orario di lavoro a 37 ore in luogo delle 39 ore stabilite dalla contrattazione nazionale. Nello specifico, la sentenza si è limitata ad affermare che non vi era stata alcuna prova in ordine ad una prestazione lavorativa effettivamente resa tra la 37′ e la 39′ ora nonché in ordine al pagamento di compensi per lavoro straordinario.
Le suddette valutazioni hanno carattere assorbente di ogni altra considerazione non potendo emettersi una condanna, ancorché generica, alla restituzione di somme delle quali non sia dimostrata l’avvenuta erogazione, quando ciò sia contestato in giudizio. Difatti, solo qualora, a fronte di una richiesta di restituzione di somma che si assuma indebitamente erogata, il convenuto non ne contesti la ricezione limitandosi a dedurre la legittimità dell’erogazione stessa, tale comportamento processuale può essere ritenuto idoneo dal giudice di merito, in base al principio del libero convincimento nella valutazione delle risultanze processuali, a dimostrare l’effettività dell’erogazione ai fini di una pronunzia di condanna generica alla restituzione, salva la prova dell’effettivo ammontare della somma da restituirsi, nel separato giudizio sul “quantum debeatm” (Cass. n. 3936 del 1995).
Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
2 – Solo i controricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis, comma 2, cod. proc. civ. (ovviamente adesiva).
3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e che sussista con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
4 – Conseguentemente il ricorso va rigettato.
5 – Quanto alla domanda ex art. 96 cod. proc. civ., formulata dalla difesa dei controricorrenti, questa Corte osserva che la condanna per lite temeraria può essere pronunciata solo se la parte ha agito o resistito con mala fede o colpa grave. Con riguardo al giudizio di cassazione ai fini della responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ., il ricorso può considerarsi temerario solo allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, sia tale da palesare la consapevolezza della non spettanza del diritto fatto valere, o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali (Cass. 2 giugno 1995, n. 6190; conf. Cass. 26 giugno 2007, n. 14789). Applicando i detti principi al caso di specie si osserva che la domanda di condanna per lite temeraria è avulsa dal presupposto imprescindibile (prova dell’altrui malafede ovvero di un grado di imprudenza, impernia o negligenza nell’agire in giudizio accentuatamente anormale) oltre che ingiustificata per la mancanza di prova di un danno subito a causa della condotta temeraria della controparte, diverso ed ulteriore rispetto alla necessità di doversi difendere in giudizio.
L’istanza ex art. 96 cod. proc. civ., pertanto, non può essere accolta.
6 – Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo con attribuzione in favore dell’avv. R.F., antistatario.
7 – Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012,) che ha integrato l’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.
La suddetta condizione sussiste nella fattispecie in esame.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore delle controparti, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso spese forfetario nella misura del 15% con attribuzione in favore dell’avv. R.F., antistatario.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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