CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 5051 del 15 marzo 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO – APPRENDISTA – NULLITA’ – ASSENZA DI ESERCIZIO DEL DIRITTO DI RECESSO DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO – TRASFORMAZIONE IN CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 28 ottobre 2008 il Tribunale di Treviso dichiarava nullo il licenziamento irrogato a (…) nel corso del rapporto di apprendistato tra la stessa e (…), in quanto intimato in violazione del divieto di cui all’art. 54 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) e condannava la datrice di lavoro a riammettere in servizio la lavoratrice e al risarcimento del danno dalla stessa subito, in misura pari all’ammontare delle retribuzioni dalla data del licenziamento a quella dell’effettivo ripristino del rapporto.
In parziale riforma di detta sentenza la Corte di appello di Venezia, con sentenza (n. 552/2009) depositata il 6 agosto 2010, condannava (…) al risarcimento dei danni nella ridotta misura pari all’ammontare delle retribuzioni spettanti alla L. dalla data del licenziamento sino al 28/2/2005, data di scadenza del contratto di apprendistato.
A sostegno della propria decisione la Corte distrettuale richiamava il contratto di formazione e lavoro e l’orientamento di legittimità, secondo il quale a tale tipologia di contratto, in quanto spedes del genus contratto di lavoro a tempo determinato, non sono applicabili, in caso di disdetta da parte del datore di lavoro alla prevista scadenza, né la norma di cui all’art. 6 l. n. 604 del 1966, né quella di cui all’art. 18 I. 20 maggio 1970 n. 300; in ragione di ciò riteneva assorbito l’appello incidentale della lavoratrice, volto ad ottenere la speciale tutela di cui all’art. 18.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la L., affidandosi a tre motivi, illustrati da memoria; (…) ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c. per avere la Corte distrettuale pronunciato sull’eccezione, proposta per la prima volta in grado di appello, per la quale il diritto al risarcimento della lavoratrice doveva essere limitato ai soli danni maturati sino alla cessazione dell’apprendistato (ovvero, in subordine, sino alla data dell’avvenuto superamento del periodo annuale di tutela della maternità).
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 19 I. 19 gennaio 1955, n. 25 nonché della I. n. 604/1966 e dell’art. 18 I. n. 300/1970, avendo la Corte erroneamente richiamato la disciplina del contratto di formazione e lavoro, che è contratto a termine, mentre nell’apprendistato a termine è soltanto l’inquadramento del lavoratore.
L’apprendistato rappresenta, infatti, una fase preliminare all’instaurazione di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e per la sua cessazione è richiesto un espresso atto di disdetta, in mancanza del quale il lavoratore è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita.
Era, pertanto, da ritenere che, non essendosi il rapporto interrotto in virtù del licenziamento, dichiarato nullo, né essendo stato disdettato ex art. 2118 c.c. alla scadenza del 28/2/2005, esso si fosse convertito automaticamente in rapporto di lavoro ordinario a tempo indeterminato: e tale rapporto era successivamente cessato solo quando la lavoratrice, con racc. 27/11/2008, aveva rifiutato la ripresa del servizio che le offriva in ottemperanza alla sentenza di primo grado, chiedendo l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: deduce che il licenziamento era stato qualificato dalla datrice di lavoro come disciplinare, peraltro in violazione del principio di immediatezza della contestazione e in mancanza di un comportamento così grave da giustificare il recesso, e comunque era da considerarsi discriminatorio, in quanto determinato da ragioni di sesso, sicché dovevano trovare applicazione le norme generali a tutela dei licenziamenti e conseguentemente le sanzioni di cui all’art. 18 I. n. 300/70.
Il primo motivo di ricorso non può essere accolto.
Al riguardo si osserva che nei rito del lavoro la preclusione in appello di un’eccezione nuova, ai sensi dell’art. 437 c.p.c., sussiste nel solo caso in cui la stessa, essendo fondata su elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado, abbia introdotto nel secondo grado di giudizio un nuovo tema di indagine, così alterando i termini sostanziali della controversia e determinando la violazione del principio del doppio grado di giurisdizione.
Nella specie, non vi è stato, invece, alcun ampliamento dei temi di indagine, posto che l’esistenza di un contratto di apprendistato, già desumibile con piana evidenza dalla lettera di assunzione, costituiva fatto pacifico tra le parti, secondo quanto risulta dall’esame congiunto del ricorso introduttivo e della memoria di costituzione in primo grado della società, e l’eccezione, di cui ora si discute, era volta al mero contenimento degli effetti patrimoniali della decisione (dichiarazione di nullità del recesso), dolendosi la datrice di lavoro di essere stata condannata al pagamento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni dalla data del licenziamento a quella dell’effettivo ripristino del rapporto, anziché alla più ridotta misura di risarcimento costituita dalle retribuzioni maturate dal recesso fino alla scadenza del periodo di apprendistato, la cui durata (24 mesi) del pari costituiva fatto processualmente incontroverso fra le parti.
Ne consegue che gli elementi essenziali alla base della questione posta all’attenzione della Corte territoriale, e cioè la natura del contratto e la durata di esso, come l’entità degli effetti risarcitori da collegarsi ad un’invalida interruzione del rapporto, erano già tutti presenti nel materiale conoscitivo e di discussione oggetto del giudizio di primo grado, così da non determinare alcun pregiudizio difensivo.
Si deve, quindi, concludere che, nel caso di spese, si è in presenza di un’eccezione in senso lato, sottratta alla preclusione di cui all’art. 437 c.p.c. e proponibile validamente in grado di appello.
E’ Invece fondato e deve essere accolto il secondo motivo di ricorso.
Il contratto di apprendistato, quale disciplinato dalla I. 19 gennaio 1955, n. 25 (in vigore fino al 24 ottobre 2011 e, quindi, applicabile ratione temporis al rapporto dedotto in giudizio), dà, infatti, origine ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, costituito dalla sequenza di due fasi distinte, di cui la prima è contraddistinta da causa mista, posto che al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge, con funzione specializzante, lo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale, a cui sono connesse l’obbligazione del datore di lavoro di impartire Idoneo insegnamento e dell’apprendista di fornire la cooperazione necessaria alla sua più utile attuazione; e la seconda – configurata come eventuale, dipendendo dal mancato esercizio, da parte del datore di lavoro, del diritto di recesso legalmente attribuitogli dall’art. 19 I. cit. (“Qualora al termine del periodo di apprendistato non sia data disdetta a norma dell’art. 2118 del Codice civile l’apprendista è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità ed il periodo di apprendistato è considerato utile ai fini dell’anzianità di servizio del lavoratore”) – assimilabile in ogni aspetto ad un ordinario rapporto di lavoro subordinato.
In tal senso è la previsione normativa della disdetta ai sensi dell’art. 2118 c.c., e cioè con periodo di preavviso, istituto corrispondente all’esigenza, propria di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di evitare che la parte, che subisce il recesso, si trovi di fronte improvvisamente alla rottura del contratto, ma abbia, in caso di licenziamento, la possibilità di procurarsi un’altra occupazione e di ricercare, nel caso di dimissioni, un idoneo sostituto nel mercato del lavoro.
In tal senso converge altresì e univocamente la seconda parte della disposizione, là dove è stabilito, nel caso di mancato esercizio del diritto potestativo, che l’apprendista “è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità ed il periodo di apprendistato è considerato utile ai fini dell’anzianità di servizio del lavoratore”: tali previsioni, infatti, dimostrano come il termine finale della formazione professionale non identifichi un termine di scadenza del contratto, che, pertanto, non può ritenersi a tempo determinato, e come, in assenza di disdetta, vi sia continuazione di un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sia pure spogliato della complessità iniziale e ricondotto alla causa tipicamente afferente alla sua forma ordinaria.
Ne consegue che il rapporto di lavoro, una volta proseguito a seguito del mancato esercizio del diritto di recesso, resta assoggettato alle ordinarie cause di risoluzione: nella specie, esso non si è interrotto in virtù del licenziamento, dichiarato nullo perché intimato in stato di gravidanza (e, pertanto, rimasto privo di effetti solutori) e deve ritenersi continuato, non essendovi stata disdetta ai sensi dell’art. 19 I. n. 25/1955 da parte del datore di lavoro, anche oltre la data (28 febbraio 2005) di scadenza del periodo di apprendistato e fino al 27/11/2008, allorquando la ricorrente ebbe a comunicare, così determinandone la cessazione (cfr. ricorso, pag. 12), di non voler più riprendere servizio, nonostante l’invito in tal senso di (…)
Il terzo motivo di ricorso deve essere respinto.
E’, infatti, consolidato l’orientamento di questa Corte di legittimità, secondo il quale “il divieto di licenziamento di cui all’art. 2 della legge n. 1204 del 1971 opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio e, pertanto, comporta, ai sensi del comma 5 dell’art. 54 del d. Igs. 26 marzo 2001, n. 151, la nullità del licenziamento intimato nonostante il divieto anche in caso di violazione delle disposizioni procedurali di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, con la conseguente prosecuzione del rapporto e configurabilità del diritto della lavoratrice al pagamento delle retribuzioni” (Cass. 1 dicembre 2010, n. 24349).
D’altra parte, la ricorrente, pur avendo richiesto al giudice di appello di applicare la disciplina di cui all’art. 16 (ndr art. 18), non ha impugnato il capo della sentenza di primo grado, in cui è stata statuita la nullità del licenziamento 26 febbraio 2004 per violazione dell’art. 54 del D. Lgs. 151/2001 (cfr. punto 1 del dispositivo), ritenendone anzi l’esattezza; né ha allegato, nel proprio atto introduttivo, che il licenziamento potesse avere natura discriminatoria, collegando l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dalla I. n. 300/1970 alla sola deduzione di un licenziamento disciplinare illegittimo.
La sentenza va conseguentemente cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione, la quale si uniformerà al seguente principio di diritto: “In tema di contratto di apprendistato, regolato dalla l. n. 25/1955, la lavoratrice, il cui licenziamento sia stato dichiarato nullo per violazione dell’art. 54 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ha diritto – in caso di mancato esercizio del diritto di recesso da parte del datore di lavoro ai sensi dell’art. 19 di detta legge – alle retribuzioni alla stessa spettanti fino al verificarsi di una legittima causa di risoluzione del rapporto e non fino alla scadenza del periodo di apprendistato”.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Venezia In diversa composizione.
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